Si sta dibattendo in questi giorni dell’opportunità o meno di introdurre il salario minimo e, dopo la direttiva europea che ne prescrive l’implementazione, già in Parlamento giacciono alcune proposte di legge in materia. Col salario minimo la retribuzione di base, uniforme per i lavoratori di differenti categorie, verrebbe stabilita per legge e non può essere ridotta in nessun modo da altri accordi. Si tratta quindi di un limite al di sotto del quale il salario non può scendere.
Anche il collettivo della Città Futura ne ha discusso e per il momento ha raggiunto una sintesi in base alla quale, pur riscontrando opinioni diverse sull’istituto in sé, c’è accordo sul sostenere una proposta che leghi il salario minimo alla esigibilità dei contratti nazionali di lavoro, senza peggioramenti in sede di contrattazione decentrata o dei cosiddetti contratti pirata, e all’opportunità di un’indicizzazione del suo importo in base all’inflazione.
Per quello che sono stato in grado di reperire fra i principali scritti di Marx, la sua teoria in merito era che il salario, in quanto manifestazione fenomenica del capitale variabile, cioè del costo di riproduzione della forza-lavoro, pur fra le oscillazioni dovute a una molteplicità di fattori che qui non si prendono in esame, tende verso il suo minimo, dato appunto dai bisogni essenziali delle famiglie dei lavoratori.
Questa affermazione la si trova in embrione già in un manoscritto (uno schema di 16 pagine) relativo alle conferenze tenute nel 1847 all’Associazione degli operai tedeschi di Bruxelles, pubblicato per la prima volta nel 1925 sulla rivista “Unter dem banner des Marxismus” [1], e che nelle Opere Complete in italiano porta il titolo di Salario. Qui si afferma che il salario minimo “sia in media determinato dal prezzo dei mezzi di sussistenza più elementari”, che esso varia da paese a paese anche se tende a uniformarsi, che cambia nel tempo e tende a scendere al livello più assoluto (per esempio includendo nei consumi dei lavoratori beni di qualità più scadente), che quindi il salario è mediamente un salario minimo e quando scende non potrà risalire al livello precedente.
Un argomento analogo è nella raccolta di cinque articoli apparsi, sempre del 1847, nella “Nueue Rheinishe Zeitung” (Nuova Gazzetta Renana) edita sotto il titolo di Lavoro salariato e capitale [2]. Anche nel noto pamphlet antiproudhoniano Miseria della Filosofia [3], dello stesso anno, ritroviamo analogo concetto.
Il Marx più maturo, quello di Salario, prezzo e Profitto [4] e del Capitale [5] giunge alla definizione del carattere fenomenico del salario che crea la parvenza del giusto compenso del lavoro e con ciò completa il concetto espresso quasi un ventennio prima, senza però entrare nel merito dell’opportunità di una determinazione per legge di questo minimo, salvo che per dire che il vero obiettivo è il superamento del lavoro salariato. Niente da eccepire, ma questo obiettivo rivoluzionario deve passare per obiettivi intermedi, riformisti, che consentano di accumulare le forze per il vero e proprio cambiamento.
È invece nella lettera a Friedrich Albert Sorge del 5 novembre 1880 che Marx, a proposito del programma elettorale per i lavoratori francesi, si lamenta che Jules Guesde, anch’egli marxista, abbia scritto nel programma “alcune inezie ai lavoratori francesi, come il salario minimo stabilito per legge ecc.”. Di seguito Marx afferma che se “il proletariato francese è ancora così infantile da aver bisogno di tali lusinghe, non vale neppure la pena di formulare un qualsiasi programma” [6].
È ragionevole ritenere che questa contrarietà si spieghi con la giusta esigenza di mettere in guardia contro la possibilità che il reddito minimo richiami il tema del “salario giusto” e quindi prenda una piega apologetica del capitalismo, occultando il fatto che il lavoro salariato è comunque sfruttato.
Tuttavia, se è vero che in vari passaggi Marx sembra pensare a un livello di sussistenza del salario, ciò non pare necessario in termini teorici generali, perché lo sfruttamento si può dimostrare anche con salari superiori alla sussistenza, la quale peraltro è un dato storicamente e socialmente determinato e non un fatto di natura. Non mancano infatti passi in cui si sottolinea la componente storica di questo minimo, con l’implicita ammissione di un suo possibile aumento rispetto alla mera sussistenza.
Ritengo inoltre che per affrontare l’argomento non basti richiamare il lascito marxiano, tanto meno pronunciamenti che riguardano un contesto specifico diverso dall’attuale e non la teoria generale. Se la struttura fondamentale della sua teoria economica ci serve ancora ed è indispensabile – anche se non sufficiente – per comprendere la nostra società e agire per trasformarla, non può essere altrettanto per ogni considerazione di carattere tattico, sia perché anche anche Marx può essere caduto in qualche errore, sia perché deve essere considerata la specificità del contesto riguardo al quale Marx si è espresso, sia infine perché, ai fini della spendibilità della sua teoria per usi politici pratici, bisogna andare oltre al livello di astrazione a cui egli è potuto approdare e scendere nell’analisi della complessità della realtà che abbiamo di fronte attualmente, dei rapporti di forza ecc [7].
Più in generale affidarsi acriticamente al già detto – per di più decontestualizzandolo – sia pure da parte del più grande teorico del socialismo, rischia di risolversi in un dogmatismo. Il metodo dialettico presuppone una realtà sempre in movimento con cui occorre interagire, acquisirne gli elementi di novità, se vogliamo trasformarla.
Naturalmente resta valido che sarebbe illusorio pensare che con il salario minimo si possa eliminare lo sfruttamento dei lavoratori. Se il lavoratore non potesse essere sfruttato, non sarebbe nemmeno assunto, sarebbe un disoccupato. Se non producesse una ricchezza superiore al valore della forza-lavoro non ci sarebbe plusvalore e perciò nemmeno profitti. La condizione perché un lavoratore possa vendere la sua forza-lavoro è che produca plusvalore, che venga sfruttato. Occorre essere consapevoli quindi che il salario minimo può solo combattere il super sfruttamento e ostacolare retribuzioni al di sotto di un determinato standard per i lavoratori più svantaggiati.
Ma c’è un altro aspetto assai importante della realtà odierna. Il dato nuovo principale da cui partire è la frammentazione del mondo del lavoro e l’individualismo che si va affermando anche fra i lavoratori, sempre meno consapevoli di fare parte di una classe. La propaganda borghese ha avuto certamente un ruolo nell’affermazione di questa ideologia, ma non può essere negato che essa si è potuta imporre perché vi sono forti motivi materiali rintracciabili nella nuova condizione dei lavoratori.
Vi sono lavoratori a tempo indeterminato, relativamente garantiti ma sempre meno dopo il Jobs Act, precari che stanno diventando un esercito crescente, rider comandati da un algoritmo, dipendenti super sfruttati di cooperative fasulle, lavoratori che eseguono attività esternalizzate, un tempo svolte all’interno della fabbrica madre, lavoratori di una stessa filiera produttiva dispersi per il mondo grazie alle possibilità offerte dalle nuove tecnologie informatiche e alla riorganizzazione della logistica, lavoratori di minuscole imprese gestite paternalisticamente, lavoratori della cosiddetta gig economy, in smart working e altre forme di lavoro a domicilio, giovani che fanno lavoretti per avere paghette, specie, ma non solo, nel settore del turismo, dove la media pare essere intorno ai 4 euro l’ora, lavoratori gratis o quasi, come i tirocinanti e gli studenti gravati dall’Alternanza scuola-lavoro, infine i veri e propri nuovi schiavi, prevalentemente immigrati, come ad esempio nell’agricoltura.
Di fronte a questa dispersione l’obiettivo di unificare il mondo del lavoro è di estrema difficoltà eppure fondamentale. Le rivendicazioni dovrebbero quindi tendere a questa riunificazione.
Il salario minimo non è il toccasana e non basta allo scopo, ma mi pare che costituisca un piccolo passo in quella direzione, come fu negli anni Settanta l’introduzione della scala mobile di importo uguale per tutti.
Il tessuto produttivo italiano è fatto prevalentemente di piccole imprese, spesso orientate alle esportazioni che competono poggiando sui bassi salari, la precarietà e il supersfruttamento e non interessate da processi innovativi importanti. Si tratta non solo di imprese subfornitrici delle grandi ma soprattutto microimprese nel campo dei servizi, della produzione semiartigianale, del commercio, del turismo e delle funzioni esternalizzate della pubblica amministrazione. In Europa, negli ultimi trent’anni, Germania e Francia vedevano crescere i salari medi di ben oltre il 30% mentre l’Italia ha registrato la loro diminuzione di circa il 3%. Il 12% dei lavoratori italiani è povero e quasi la metà dei giovani al di sotto dei 29 anni guadagna meno di 9 euro l’ora. Riportare a livelli decorosi quei salari potrebbe divenire una spinta per razionalizzare il sistema produttivo e anche per rendere meno convenienti le esternalizzazioni dei servizi pubblici ottenute a buon mercato sulla pelle dei lavoratori. Soprattutto per molte categorie di lavoratori il salario minimo consentirebbe di uscire dalle condizioni disumane in cui versano e di avvicinarle alla parte più cosciente del mondo del lavoro.
Naturalmente occorre ribadire che al salario minimo si dovrebbe accompagnasse la riduzione dell’orario di lavoro – che deve restare la stella polare – e che è indispensabile anche un ruolo più pregnante dello Stato nell’economia, ripubblicizzando alcuni comparti strategici e finanziando processi di innovazione attraverso la Cassa Depositi e Prestiti o altri soggetti esistenti o da istituire.
Il fatto che Confindustria e Banca d’Italia si siano dette favorevoli all’introduzione del salario minimo (ma, si badi bene, non Draghi che tolse dall’agenda del suo governo la proposta) può essere spiegato in due modi. Per prima cosa credo che molto dipenda dall’importo che verrà definito. Non è escluso che venga stabilito a un ammontare tale da non porre problemi rilevanti a lorsignori, perdendo però in gran parte la funzione che è stata sopra individuata. L’altro aspetto è che esiste una competizione fra settori della borghesia e che il grande padronato, i cui lavoratori presumibilmente hanno già salari intorno al minimo e quindi non soggetti a incrementi significativi, vedrebbe bene misure che tendano a selezionare le imprese, a ridurre la concorrenza di chi paga meno i lavoratori, a far morire quelle “zombie” (espressione di Draghi) e ad accelerare il processo di centralizzazione dei capitali. Pertanto rivendicare il salario minimo potrebbe produrre anche l’effetto accessorio di acuire le contraddizioni fra settori del capitalismo, colpendo in particolare una buona parte del blocco sociale di riferimento del governo Meloni. Non è un caso che quest’ultimo ha espresso ferma contrarietà alla proposta.
È utile anche esaminare le esperienze che già hanno avuto luogo. In Germania, per esempio, il salario minimo è stato introdotto otto anni fa col risultato di produrre una riduzione delle disuguaglianze salariali e un aumento dei salari più bassi, mentre non si è registrato alcun aumento della disoccupazione come gli economisti mainstream paventavano. Addirittura è emerso che il salario minimo ha determinato anche l’aumento delle paghe in nero.
In conclusione, se la questione è stata posta all’ordine del giorno e se se ne immaginano alcuni benefici, sia per le condizioni dei lavoratori che per le prospettive di unificare il mondo del lavoro, perché rinunciarvi? Saremmo capiti dai lavoratori se lo facessimo sull’altare di una lettura dogmatica di Marx?
Note:
[1] K. Marx, Manoscritto sul salario, 1925, reperibile online (https://www.marxists.org/italiano//marx-engels/1847/Salario.htm).
[2] K. Marx, Lavoro salariato e capitale, in Marx-Engels, Opere Scelte, Editori Riuniti, 1966, Roma, pp. 327-357.
[3] K. Marx, Miseria della filosofia. Risposta alla "Filosofia della Miseria" del Signor Proudhon, 1847, reperibille online (https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1847/miseria-filosofia/index.htm).
[4] K. Marx, Salario, prezzo e profitto, 1865, reperibile online (https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1865/salpp.htm).
[5] K. Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, si veda in particolare la sesta sezione sul salario del libro I, Editori Riuniti, 1989, Roma, pp.585-620. La questione del salario è ripresa anche negli abbozzi per i successivi libri II e III, pubblicati postumi da Engels.
[6] K. Marx, Lettera a Sorge sul programma del Parti Ouvrier del 5 novenbre 1880, reperibile online (https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1880/11/5-sorge.htm).
[7] Sulla necessità di disporre, ai fini della lotta politica, di teorie cuscinetto fra il livello di astrazione della critica dell’economia e la complessità del capitalismo concreto si veda Roberto Fineschi, Marx e Hegel. Contributi a una rilettura, Carocci, 2006, Roma, pp. 9-10.