Secondo Marx se l’uomo e la società civile non avevano autonomia dallo Stato nel medioevo, mediante l’emancipazione politica solo la società civile si libera realmente, mentre l’uomo si emancipa solo astrattamente, contrapponendo la cittadinanza ideale alla subordinazione reale a dei rapporti di produzione che lo disumanizzano [1]. La determinazione del quantum temporale dell’alienazione della forza lavoro è propria del diritto positivo, dal momento che entrambi i contraenti, capitalista e lavoratore, sono portatori di un diritto eguale, cioè di essere liberi proprietari della propria merce. Fra diritti eguali decide la forza, per cui la durata della giornata lavorativa sarà più o meno prolungata a seconda dei rapporti di forza fra le classi sociali in conflitto e dell’esito di tale conflitto.
Per tutta la fase di gestazione della società civile gli interventi legislativi sono volti a prolungare l’orario di lavoro, il capitalista ha bisogno del costante intervento del potere politico. “Ci vogliono secoli perché il «libero» lavoratore si adatti volontariamente, in conseguenza dello sviluppo del modo capitalistico di produzione, cioè sia socialmente costretto a vendere per il prezzo dei suoi mezzi di sussistenza abituali l’intero suo periodo attivo di vita, anzi, la sua capacità stessa di lavoro, sia costretto a vendere la sua primogenitura per un piatto di lenticchie” [2]. Solo con il pieno affermarsi della libera compravendita di forza lavoro, sotto la pressione crescente delle lotte sociali, il capitale si vede costretto a limitare la giornata lavorativa nel frattempo cresciuta a dismisura, anche per evitare che lo sfruttamento troppo intenso guasti la qualità della prestazione e il normale riprodursi delle macchine bipedi.
L’uomo si pone quale ente generico solo in quanto si rapporta a sé e agli altri quale “essere universale e perciò libero” [3]. Nel momento in cui considera la sua attività generica, il lavoro sociale non quale fine in sé [4], ma soltanto come mezzo per la sua sopravvivenza [5], nel momento in cui vede negli altri soltanto uno strumento del proprio interesse privato, del proprio profitto, ha alienato la sua essenza sociale, la sua universalità, la sua libertà in un altro da sé in cui non gli è dato di riconoscersi. In tal modo, l’intera comunità politica è ridotta a semplice strumento per salvaguardare i diritti dell’uomo, di modo che i veri e propri diritti umani non sono quelli di cittadinanza, ma quelli dell’individuo egoista, del bourgeois. Separando in maniera netta società politica e civile la rivoluzione politica borghese lascia all’individuo in quanto tale, senza il supporto di elementi sociali quali le corporazioni, il compito di farsi carico dell’interesse pubblico e delle attività vitali materiali. La libertà di associazione dei lavoratori fu immediatamente revocata dalla borghesia giunta al potere politico e sanzionata con forti pene pecuniarie, anche durante il Terrore, in quanto “attentato contro la libertà e la dichiarazione dei diritti dell’uomo”. Le associazioni operaie erano considerate un tentativo di ristabilire le corporazioni medievali e un attentato alla libera compra-vendita della forza lavoro, nonostante che tale sostegno del potere politico al capitale nel suo conflitto sociale con la forza-lavoro avesse ridotto il salario a un livello tanto basso che gli stessi legislatori che le sanzionavano lo ritenevano quasi una riproposizione del dominio assoluto della schiavitù [6].
Note:
[1] Per quanto riguarda questo processo di disumanizzazione già il giovane Marx osservava che, nella impresa della società capitalista, “la macchina si adatta alla debolezza dell’uomo, per fare dell’uomo debole una macchina” Marx, Karl, Manoscritti economico filosofici del 1844 a cura di Bobbio, Norberto, Giulio Einaudi editore, Torino 1968, p. 130.
[2] Marx, K. - Engels, Friedrich, Werke, Dietz Verlag, Berlin/DDR 1968, vol. XXIII, "Das Kapital", vol. I, Zweiter Abschnitt, p. 189; Marx, K., Il capitale, vol. I, tr. it. di Cantimori D., Editori Riuniti, Roma 1989, pp. 306-07. Converrà riportare per intero le molto significative riflessioni a questo proposito di Marx: “la fissazione della giornata lavorativa normale è il risultato di una lotta multisecolare fra capitalista e operaio. Però la storia di questa lotta mostra due correnti contrapposte. Si confronti, per esempio, la legislazione inglese contemporanea sulle fabbriche con gli statuti inglesi del lavoro dal sec. XIV fino verso la metà e oltre del sec. XVIII. Mentre la legge moderna sulle fabbriche accorcia coercitivamente la giornata lavorativa, quegli statuti cercano di allungarla coercitivamente. Certo, le pretese del capitale allo stato embrionale, nel suo primo divenire, dunque quando assicura il suo diritto di assorbire una quantità sufficiente di pluslavoro non ancora mediante la pura e semplice forza dei rapporti economici, ma anche con l’ausilio del potere dello Stato, sono in tutto e per tutto assai modeste, se si confrontano con le concessioni che è costretto a fare, ringhiando e resistendo, in età adulta. Ci vogliono secoli perché il «libero» lavoratore si adatti volontariamente, in conseguenza dello sviluppo del modo capitalistico di produzione, cioè sia socialmente costretto a vendere per il prezzo dei suoi mezzi di sussistenza abituali l’intero suo periodo attivo di vita, anzi, la sua capacità stessa di lavoro, sia costretto a vendere la sua primogenitura per un piatto di lenticchie. È quindi cosa naturale che il prolungamento della giornata lavorativa, che il capitale cerca di imporre per coercizione statale agli operai adulti, dalla metà del sec. XIV fino alla fine del sec. XVII, coincida all’incirca col limite del tempo di lavoro che nella seconda metà del sec. XIX viene tracciato qua e là, da parte dello Stato, alla trasformazione di sangue dell’infanzia in capitale. Quel che oggi, per esempio nello Stato del Massachussetts, che finora è lo Stato più libero della repubblica americana del nord, viene proclamato come limite statutario al lavoro dei fanciulli al di sotto dei dodici anni, era in Inghilterra, ancora alla metà del sec. XVII, la giornata lavorativa normale di artigiani nel pieno delle forze, di robusti servi agricoli e di giganteschi fabbri ferrai” ibidem.
[3] Marx, K., Manoscritti…, op. cit., p. 76. Anche in questo caso conviene riportare per intero questa riflessione di Marx: “l’uomo è un essere appartenente ad una specie non soltanto perché della specie, tanto della propria quanto di quella delle altre cose, fa teoricamente e praticamente il proprio oggetto, ma anche (e si tratta soltanto di una diversa espressione per la stessa cosa) perché si comporta verso se stesso come verso la specie presente e vivente, perché si comporta verso se stesso come verso un essere universale e perciò libero” ibidem.
[4] “Gli animali non sono in grado di mettere in comune le caratteristiche diverse della loro specie; né contribuire in nulla ai vantaggi e alle comodità comuni della loro specie. Altrimenti accade agli uomini, tra cui le doti e le forme di attività più disparate si avvantaggiano reciprocamente, perché essi possono raccogliere i loro diversi prodotti in una massa comune, da cui ciascuno può trarre i suoi acquisti” ivi, p. 148.
[5] “Nel salario anche il lavoro non appare come fine a se stesso, ma è al servizio della retribuzione” ivi, p. 84.
[6] “Fin dall’inizio della tempesta rivoluzionaria la borghesia francese osò sottrarre agli operai il diritto d’associazione che si erano appena conquistato. Con decreto del 14 giugno 1791 la borghesia dichiarò che ogni coalizione operaia era un «attentato contro la libertà e la dichiarazione dei diritti dell’uomo», punibile con 500 livres di multa e con la privazione dei diritti civili attivi per un anno. [L’articolo I di questa legge suona: «Poichè l’annullamento di ogni specie di corporazione di cittadini dello stesso ceto e della stessa professione è una delle basi fondamentali della costituzione francese, è proibito ristabilir di fatto, sotto qualunque pretesto e sotto qualunque forma». L’articolo IV dichiara: «Se dei cittadini che esercitano le stesse professioni, arti e mestieri prendono deliberazioni, fanno convenzioni tendenti a rifiutare d’accordo o a concedere soltanto a un prezzo determinato l’ausilio della loro industria o del loro lavoro, le dette deliberazioni e convenzioni (...) verranno dichiarate incostituzionali, attentati alla libertà e alla dichiarazione dei diritti dell’uomo ecc», cioè delitti contro lo Stato, proprio come negli antichi statuti operai (Révolutions de Paris, Parigi, 1791, voI. III, p. 523).] Questa legge che costringe, con una misura di polizia statale, entro limiti comodi al capitale la lotta di concorrenza fra capitale e lavoro, è sopravvissuta a rivoluzioni e a cambiamenti dinastici. Perfino il Terrore la lasciò intatta. Solo di recente è stata cancellata dal codice penale Non c’è niente di più caratteristico del pretesto di questo colpo di Stato borghese. Dice il relatore, Le Chapelier: «Benché sia desiderabile che il salario diventi un po’ più elevato di quello che è in questo momento, affinché colui che lo riceve sia fuori di quella dipendenza assoluta, causata dalla privazione dei mezzi di sussistenza necessari, che è quasi la dipendenza della schiavitù’» gli operai non debbono tuttavia accordarsi sui loro interessi, non debbono agire in comune moderando cosi quella loro «assoluta dipendenza che e quasi schiavitù», perché con ciò essi ledono appunto «la libertà dei loro c i - d e v a n t m a î t r e s, degli attuali imprenditori» (la libertà di mantenere gli operai in schiavitù!), e perché una coalizione contro il dispotismo degli antichi padroni delle corporazioni — indovinate — è un ristabilimento delle corporazioni abolite dalla costituzione francese! [BUCHEZ DE ROUX, Histoire Parlementaire, vol. X, pp. 193-195 passim]” Marx, K. – Enfels, F., Il capitale, op. cit. pp. 804-05.