La profonda affinità di Hegel con Marx sulla questione cruciale di stabilire sulla base del lavoro l’interazione uomo-natura, salvaguardando la specificità delle determinazioni finalistiche dell’uomo, appare a György Lukács del tutto fuori discussione. Riferendosi alla famosa metafora marxiana dell’ape e dell’architetto nel Capitale, Lukács sottolinea fortemente il fatto che in Hegel la finalità non può trascendere i limiti imposti dalla legalità degli oggetti, così come non può prescindere dalla loro conoscenza: “ogni invenzione degli uomini può consistere solo nello scoprire nessi causali oggettivi finora nascosti e nel farli quindi cooperare nel processo lavorativo. Il carattere specifico della finalità, come vedono giustamente Hegel e Marx, consiste solo nel fatto che la rappresentazione della mèta è presente prima della messa in moto del processo lavorativo; che il processo lavorativo ha lo scopo di realizzare questa mèta con l’aiuto dei nessi causali – sempre più profondamente conosciuti – della realtà oggettiva” [1].
L’approfondimento della dialettica del lavoro, compiuto da Hegel a Jena, sta a fondamento della successiva sistemazione delle categorie logiche e, per quanto riguarda il loro contenuto, nulla muta secondo il parere di Lukács nella Scienza della logica, dove Hegel inserisce il tema della dialettica tra meccanismo-chimismo-teleologia nella sezione dell’oggettività della logica del concetto. In pieno accordo con il giudizio espresso da Lenin nei Quaderni filosofici del 1914-15, Lukács identifica in questo luogo hegeliano l’embrione della soluzione marxiana del rapporto teoria-prassi, consistente nell’inclusione dialettica del “lato attivo” idealistico – correttamente inteso – nell’oggettività naturale: “il rapporto di teoria e prassi ha ottenuto così una chiarificazione più alta di quanto avesse potuto conseguire finora in tutta la storia della filosofia. Un’altezza a cui Marx poté direttamente ricollegarsi e da cui poté sollevare il rapporto di teoria e prassi all’altezza definitiva della chiarificazione filosofica” [2].
Nei classici dell’economia politica le categorie economiche non travalicano l’ambito della società civile e dell’agire produttivo; ma in Hegel, il quale parte dai loro risultati, esse acquistano un significato ben più ampio e un valore euristico che investe la concezione generale della storia e del suo mutamento. Il nesso dialettico libertà-necessità non riguarda soltanto il rapporto uomo-natura, ma vige nella totalità della realtà storico-sociale ed è fondativo della filosofia della storia hegeliana.
Hegel, al pari degli economisti, fa dell’individuo la base della considerazione della società moderna; il risultato dell’attività dei singoli individui, mossi da interessi e scopi particolari, è la totalità dei rapporti sociali che appare come prodotto casuale di una molteplicità d’iniziative non coordinate preventivamente tra loro. Grande merito della scienza economica consiste nel trovare in questa massa di rapporti casuali interagenti le leggi oggettive e necessarie del movimento dell’intera società. È questo il nucleo originario del principio della filosofia della storia hegeliana: l’astuzia della ragione. Nella dialettica libertà-necessità, all’interno del processo orientato teleologicamente, scaturisce l’eterogenesi dei fini, l’astuzia della ragione, il cui significato viene così illustrato da Lukács: “tradotta in prosa, quest’espressione significa che gli uomini fanno bensì essi stessi la loro storia, che il motore effettivo degli eventi storici risiede nelle passioni degli uomini, nelle loro ispirazioni individuali ed egoistiche, ma che dalla totalità di queste singole passioni scaturisce – secondo la tendenza fondamentale – qualcosa d’altro da quello che gli uomini agenti desiderano e si propongono; e che tuttavia quest’altro non rappresenta affatto qualcosa di accidentale, ma proprio in ciò si manifesta la legalità della storia, o – secondo le espressioni di Hegel – «la ragione nella storia», lo «spirito»” [3].
Poiché i momenti essenziali della concezione hegeliana della storia coincidono, per Lukács, con i momenti dell’unità dialettica di teoria e prassi, il superamento dell’idealismo soggettivo e del dualismo di attività morale astratta e di meccanicismo naturale è pienamente attuato. La comprensione teorico-filosofica della società borghese moderna è, quindi, assicurata dalla natura logica e insieme storica delle categorie in questione: infatti l’atto conoscitivo in Hegel non prescinde dal processo dialettico che ha condotto al presente e cioè al risultato necessario della prassi degli uomini, al di là delle loro intenzioni consapevoli.
Fino a quando Hegel rimane saldamente ancorato sul terreno dell’economia politica, egli è in grado di far emergere i nessi reali della società e della storia, illuminando aspetti e problemi particolari fino a lui rimasti insoluti; ma quando prevale la tendenza sistematica, è inevitabile lo stravolgimento idealistico anche di singoli contenuti correttamente impostati col metodo dialettico. Sotto quest’ultimo aspetto l’intera costruzione appare decisa a priori, in quanto riferita a un soggetto unitario, e sfocia nella concezione idealistica del soggetto-oggetto identico: “poiché per l’idealista oggettivo Hegel – non meno che per Schelling – la totalità del processo evolutivo di natura e storia è l’opera di uno «spirito», deve per forza ritornare qui la vecchia idea teologica, già superata da Hegel in tutti i particolari sociali e storici. Poiché se il processo storico ha come portatore un soggetto unitario, se è il risultato della sua attività, è solo coerente, per l’idealista oggettivo Hegel, scorgere nel processo storico stesso l’attuazione di quello scopo che questo «spirito» si è posto come mèta all’inizio del processo” [4].
Il “vizio” idealistico di Hegel si manifesta nel capovolgimento dei rapporti reali, come nel caso della priorità da lui accordata al “riconoscimento” giuridico del possesso – il solo capace di elevare a contenuto universale la proprietà – rispetto ai nudi rapporti economici. Lukács denuncia la sopravvalutazione della sfera giuridica e il posto più alto in cui Hegel la colloca nella sua gerarchia concettuale; tutto ciò è conseguenza dello sdoppiamento delle categorie economiche in “categorie propriamente economiche e giuridiche”, riflesso, questo, dello sdoppiamento dell’uomo in uomo privato (bourgeois) e uomo politico (citoyen) proprio della società borghese. Lo sviluppo di tale concezione conduce Hegel, durante il periodo di Jena, ad assegnare allo Stato il ruolo di “addomesticatore” dell’economia.
Lukács ritiene che in questo periodo siano operanti le “illusioni napoleoniche” di Hegel, ossia la speranza che con Napoleone si potesse aprire un nuovo periodo eroico, una nuova ascesa culturale dell’umanità, sulla base dello scatenamento delle forze produttive e nonostante il carattere contraddittorio dello sviluppo capitalistico.
La critica di Hegel alla società borghese si presenta sotto il segno di una costante duplicità: da una parte, con una spregiudicatezza simile a quella degli economisti, egli non nasconde le contraddizioni che sorgono dallo sviluppo delle forze produttive, anzi tiene fermo alla necessità di questo esito della storia millenaria che si attua tramite il sacrificio degli individui [5]; dall’altra, l’istanza umanistica, l’aspirazione alla totalità dell’uomo contro la sua miseria attuale – da lui condivisa con i grandi esponenti dell’epoca di Goethe –, lo spinge a trovare una conciliazione sul piano speculativo. Hegel ha vissuto in prima persona il conflitto tragico della propria epoca che egli ha esposto senza infingimenti, cogliendone le radici nelle condizioni economico-sociali della società moderna. Aver compreso questa realtà contraddittoria è già un superamento di essa, o perlomeno spiana la via al superamento che sarà attuato da Marx.
Nel saggio Sul diritto naturale (1802-03) la “tragedia nell’etico” è concepita da Hegel come “una tragedia che l’assoluto eternamente con se stesso rappresenta, nel senso che esso esterna se stesso nell’oggettività, in questa sua figura quindi abbandona se stesso alla sofferenza e alla morte, e da questa sua cenere si solleva a trionfale grandezza” [6]. Lukács stigmatizza l’eternizzazione del conflitto e la destoricizzazione della contraddizione specifica della modernità prospettata qui da Hegel: “lo «sdoppiamento» dell’uomo in bourgeois e citoyen appare come una collisione eterna, posta e tolta nella tragedia, dello spirito con se stesso. Per poter attuare questa eternizzazione del conflitto, la vita da bourgeois viene mistificata, in Hegel, come «natura», come il principio del «sotterraneo». Il lato citoyen dell’uomo appare invece come la «luce» che trionfa di questo «sotterraneo», ma che è a esso insieme e indissolubilmente connessa” [7].
Note:
[1] Lukács, György, Der junge Hegel und die Probleme der kapitalistischen Gesellschaft (1948), Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica, traduz. di Solmi, R., Einaudi, Torino 1975, p. 482.
[2] Ivi, p. 491.
[3] Ivi, p. 494.
[4] Ivi, p. 506.
[5] Lukács vuole qui rilevare la distanza di Hegel dalle posizioni romantiche: “La contraddizione nella filosofia della cultura di Hegel non ha quindi nulla a che fare con un anticapitalismo romantico. Essa è molto più profonda, e consiste nella simultanea approvazione della necessità e progressività dell’evoluzione che conduce al capitalismo, con tutte le sue spaventose conseguenze (si pensi all’esposizione hegeliana di povertà e ricchezza nel capitalismo) e – nello stesso tempo – nella lotta appassionata contro l’umiliazione, contro la degradazione e depravazione dell’uomo che questo sviluppo porta altrettanto necessariamente con sé” ivi, p. 561.
[6] Hegel, G.W.F. Sul diritto naturale (1802-03), in Id., Il dominio della politica, traduz. e a cura di Merker, N., Roma, Editori Riuniti 1980, pp. 205-06.
[7] Lukács, G., Il giovane Hegel…, op. cit., p. 563.