Ma perché oggi la sinistra vuole una legge sul salario minimo quando negli anni in cui ha governato non ha mai approvato un provvedimento siffatto?
La domanda arriva dai Banchi parlamentari della destra e al di là di tutto meriterebbe una risposta credibile (giusto per non buttarla in caciara, dato che a rimetterci sono solo i lavoratori e le lavoratrici), visto che l'emergenza salariale e la caduta del potere di acquisto dei salari (ma anche delle pensioni delle quali poco si parla) è iniziata circa 40 anni or sono.
Quando il Partito Democratico era al governo, la Cgil giudicava inutile una legge sul salario minimo ritenendo la contrattazione collettiva l'ambito da privilegiare per recuperare il potere di acquisto. Ma stando ai dati Inps e ad articoli pubblicati sulla rete, molti dei contratti nazionali siglati dai sindacati rappresentativi prevedono da anni paghe orarie di gran lunga inferiori ai 9 euro, condannando centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici a salari del tutto inadeguati e dai quali deriva il loro impoverimento e indebitamento.
È bene ricordare che proprio la contrattazione collettiva, di primo e secondo livello, ha impedito il recupero del potere di acquisto e reali aumenti salariali.
L'accordo sulla rappresentanza del 2009 ha palesato da subito limiti e contraddizioni. È ormai acclarato che il codice Ipca da un lato e dall'altra la triennalizzazione dei contratti (con la miseria dell'anticipo della indennità di vacanza contrattuale) sono state le cause della perdita del potere di acquisto.
Ricordiamo ancora quando oltre 30 anni fa l'allora segretario della Cgil Trentin rassegnò le dimissioni dopo l’abolizione della scala mobile che avrebbe dovuto avere come merce di scambio proprio il salario minimo, di cui invece si è persa subito traccia.
Forse è troppo chiedere alla Cgil una seria autocritica del suo operato trentennale o annotare che perfino negli anni cinquanta si era detta favorevole a stabilire una sorta di retribuzione minima per la forza lavoro, proposta di legge gettata nel dimenticatoio dalla ferma opposizione della Democrazia Cristiana che voleva scongiurare aumenti salariali tali da rafforzare il conflitto nei luoghi di lavoro.
Rinfrescare la memoria ai sindacati odierni è un atto dovuto, fare i conti con il passato e gli innumerevoli errori commessi, soprattutto dal compromesso storico in poi, diventa determinante per dare corpo a una iniziativa nel presente a tutela dei salari e del potere di acquisto, iniziativa che dovrà attraversare anche le regole sulla contrattazione e soprattutto l'intera dinamica salariale
Le contraddizioni del centro sinistra e della Cgil sono evidenti. La proposta sul salario minimo troverà per altro l'opposizione della Maggioranza in Parlamento che sembra assai più vicina ai dettami datoriali e padronali, come dimostra l'opposizione di Confindustria a cui premono soprattutto ulteriori sgravi fiscali alle imprese.
E il variegato mondo degli appalti, i contratti nazionali costruiti ad arte per favorire la contrazione del costo del lavoro, determinando al contempo minori diritti e tutele, dovrebbe essere parte integrante di una iniziativa sindacale e politica atta a contrastare concretamente i processi di privatizzazione che restano tra le cause principali della perdita del potere di acquisto oltre a sancire debolezza, subalternità e ricattabilità dei salariati.
E quindi nascondersi dietro una proposta di legge senza rivedere le dinamiche salariali e contrattuali vigenti diventa una sorta di paravento dietro al quale celare l'arrendevolezza sindacale e politica di quelle che dovrebbero essere le forze di opposizione.