Nella precedente parte I del vademecum sull’immigrazione si è illustrato il concetto di protezione internazionale e di rifugiati, così come disciplinato dalla fondamentale Convenzione di Ginevra del 1951 e anche dalla Carta Costituzionale italiana, che all’art. 10 comma 3 prevede il diritto d’asilo. Passiamo ora, quindi, all’analisi dei principali interventi normativi nella legislazione italiana in materia di diritto d’asilo e protezione internazionale.
Asilo in Italia: un diritto (teoricamente) pieno e tutelato
Ripartiamo proprio dal diritto d’asilo di cui all’art. 10 co. 3 della Costituzione. Esso costituisce un diritto perfetto cui corrisponde, in presenza di un impedimento de facto ostativo all’esercizio delle libertà democratiche, la natura dichiarativa del suo riconoscimento allo straniero da parte dell’autorità giudiziaria ordinaria adita. Natura dichiarativa significa che il giudice si limita ad accertare che una persona si trovi nello status di rifugiato (secondo i requisiti visti nel precedente articolo), che dunque pre-esiste alla pronuncia stessa del giudice: in altri termini, lo status di rifugiato non è attribuito da un giudice ma è solamente constatato da quest’ultimo.
Si aggiungeranno, ora, sul punto altre due osservazioni che rendono palese l’importanza che riveste anche il contributo dato in sede di interpretazione giurisprudenziale alla ricostruzione dei lineamenti dell’istituto in questione. Infatti, è grazie alla giurisprudenza di merito (soprattutto la sentenza della Corte d’appello di Milano 27/11/1964, quale “caso principe”, e quella della Cass. Sez. un. 26/05/97 n.4674) che è stato già da tempo possibile annoverare l’art. 10 co. 3 tra le norme immediatamente precettive e non tra quelle programmatiche della Costituzione (come, invece, da prassi iniziale e ricorrente), riconducendo l’asilo nell’alveo dei diritti soggettivi e degli status che, come tali, ricadono nella sfera di cognizione del giudice ordinario e non già di quello amministrativo: una precisazione essenziale, se si considera a quale potenziale e intollerabile rischio si sia esposta la persona del richiedente asilo – per antonomasia costretto ad una situazione incerta e problematica (un carattere comune, per la verità, a tutti i casi di emigrazione forzata in un paese straniero) - in presenza del “combinato disposto” dal sostanziale e perdurante vuoto legislativo sul punto e dalla discrezionalità dell’amministrazione nell’adozione di misure invasive o svantaggiose nei confronti del richiedente asilo. Annoverabile sempre tra i meriti della giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. Sez. un. 17/12/99 n.907) è anche il mutamento interpretativo che ha investito lo status di rifugiato come emergente ai sensi della Convenzione di Ginevra nel senso della sua riconduzione all’interno della categoria degli status e dei diritti soggettivi, al pari dell’asilo costituzionale, sulla scorta di quanto previsto dall’art. 16 della stessa Convenzione nel momento in cui dispone per il rifugiato la possibilità di dar corso ad un’azione giudiziaria per l’esercizio di un diritto al pari del cittadino.
Come l’Italia (non) ha affrontato il problema dell’immigrazione: evoluzione della disciplina
La riserva di legge sull’asilo contenuta della Costituzione è da sempre stata evasa.
Inoltre, l’evoluzione autonoma della disciplina legislativa in materia di immigrazione non è stata affatto organica e sistematica, bensì sostanzialmente il risultato di un approccio emergenziale (connesso di volta in volta agli accadimenti politico-sociali) e della ricezione da parte del legislatore di normative sovranazionali.
Nonostante l’ipotetica tutela ribadita anche dalla giurisprudenza prima citata, la situazione di fatto per i richiedenti si presenta lungi dall’essere loro particolarmente favorevole in termini di riconoscimento dello status di rifugiato o diritto d’asilo: infatti sul numero totale delle richieste di asilo (che nel 2017 sono aumentate del 5% rispetto all’anno precedente ma che, in questo 2018 sono in calo, così come sono in calo gli arrivi) solamente all’ 8% circa viene riconosciuta la tutela connessa allo status di rifugiato, e ben il 60% circa delle richieste vengono rigettate [1]. Se da una parte i dati diffusi dal ministero dell’interno rivelano l’assoluta e pericolosa mala fede, nonché il calcolo politico, di chi grida all’invasione (rispetto a un anno fa il calo degli arrivi è di circa del 70%, secondo i report ufficiali), dall’altro lato la situazione emergente da questi dati accende i riflettori sulle difficoltà riscontrabili nei c.d. paesi di prima accoglienza, tra i quali appunto l’Italia, su cui grava gran parte del peso del funzionamento del sistema-asilo europeo - come congegnato in particolare dal Regolamento Dublino III, di cui si parlerà in seguito – in una fase attuale in cui, a causa della prolungata e drammatica instabilità politica e bellica dei paesi del vicino Oriente, dell’Africa, ma non solo, il fenomeno migratorio investe oltre il 3% della popolazione mondiale e si presenta in modo difficilmente categorizzabile, contenendo al proprio interno tanto i c.d. “forced migrants” (nei quali rientrano gli sfollati e i potenziali richiedenti asilo) quanto gli “economic migrants” e altro.
La legislazione italiana in tema d’asilo ha da sempre “rincorso” le criticità connesse ai fenomeni migratori, sin da quando, a partire dagli anni ’90, è risultato evidente che l’Italia passava dall’essere un paese prevalentemente di emigrazione all’essere un paese interessato anche dalle rotte migratorie in entrata - sia quale terra di transito sia come destinazione definitiva o, comunque, di presenza stabile dell’immigrazione regolare e non. Un primo punto di svolta sulle tematiche dell’accoglienza e della disciplina della condizione giuridica dello straniero in Italia è rappresentato dalla già citata legge Martelli (L. 39/1990) che ha convertito un intervento governativo di decretazione d’urgenza (d.l. 416/89) recante “norme urgenti in materia di asilo politico, ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e apolidi già presenti sul territorio italiano”. Tale legge, nonostante l’intitolazione, si concentrava però solamente sulla disciplina concernente lo status di rifugiati, inaugurando una lunga serie di interventi nei quali l’istituto dell’asilo costituzionale e quello del rifugio convenzionale, nonostante la diversità strutturale già rimarcata, venivano confusi e sovrapposti. Oltre ad dichiarare cessati gli effetti della clausola limitativa geografica della convenzione di Ginevra già citata nella parte I, la legge Martelli abbozzava (prevedendo futuri interventi normativi maggiormente sistematici) una regolamentazione per l’accesso alla procedura di protezione che prevedeva la presentazione della domanda (motivata) alla polizia di frontiera, la quale aveva il potere, in presenza di alcune condizioni ostative, di negare la protezione o rifiutare l’accesso del richiedente. Il di poco successivo dpr. 136/90, istituendo la Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato, rispondeva alle necessità di riordino degli organi deputati all’esame delle richieste.
Nel complesso, tuttavia, tali misure si sono rivelate fortemente inadeguate (a causa, soprattutto, della lunghezza effettiva delle procedure, delle difficoltà connesse all’emergenza sull’accoglienza abitativa dei richiedenti e sull’erogazione del contributo di prima assistenza), tanto più che, frattanto, sia il crollo politico e sociale dell’Unione Sovietica e del blocco degli ex-paesi socialisti che il successivo conflitto nei Balcani, contribuivano ad originare una nuova “ondata migratoria” di potenziali soggetti bisognosi di protezione da gestire.
Dalla Turco-Napolitano alla Bossi-Fini
Se la preoccupazione ingenerata dalla portata di tali eventi aveva portato altri paesi europei ad una modifica in senso restrittivo dell’istituto dell’asilo come precedentemente prevista all’interno delle proprie Carte fondamentali (revisione costituzionale, nel 1993, sia in Francia che in Germania), diversamente accadde in Italia, dove con la legge Turco-Napolitano 48/1998 (poi confluita nel Testo Unico Immigrazione, d.lgs. 286/1998), ancorché non riferibile né alla disciplina del diritto di asilo né a quella dello status di rifugiato, il legislatore adottava una politica di contrasto all’immigrazione clandestina e allo sfruttamento criminale dei flussi migratori (ingressi limitati, programmati e regolati) ma al contempo prevedendo misure miranti all’integrazione nel contesto sociale e lavorativo italiano per i nuovi immigrati regolari e per quelli già presenti sul territorio. Inoltre, tra le ipotesi che permettono il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari (previsto dall’art. 18 T.U., rinnovabile fino ad un massimo di 18 mesi e convertibile in un permesso per motivi lavorativi o di studio) vi è quella, prevista all’art. 20 T.U. del ’98, del riconoscimento di misure di protezione temporanea per rilevanti esigenze umanitarie, in occasione di conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità in Paesi non appartenenti all’Unione Europea; all’art. 19, invece, viene ribadito il divieto in ogni caso di respingimento (non refoulement) dello straniero verso paesi in cui rischia la persecuzione o la tortura – con particolare riferimento anche ai minori non accompagnati e prevedendo limitazioni per le altre categorie di persone vulnerabili, quali donne incinte, anziani, disabili, vittime di violenza psico-fisica ecc.
Un ulteriore ed importante intervento legislativo che avrebbe modificato parte della normativa contenuta nella L. Turco-Napolitano e nel T.U. e inasprito la condizione giuridica dello straniero in Italia, si ebbe con la c.d. Bossi-Fini (L. 189/2002) che rappresenta l’apoteosi della effettiva assenza di volontà di comprensione e regolamentazione del fenomeno migratorio, conformemente con quanto disporrebbe la Costituzione: la repressione nei confronti della clandestinità fa da specchietto per le allodole in un contesto in cui la regolarità, connessa al requisito del lavoro stabile prima dell’ingresso in Italia, viene ipso facto esclusa nella maggioranza dei casi (migrazioni a carattere economico, migrazioni causate da guerre o carestie ecc). La Bossi-Fini sostanzialmente non è considerabile come una legge specifica sul diritto d’asilo o sullo status di rifugiato, se non nella misura in cui introdusse un processo di decentralizzazione delle procedure di esame delle domande e un sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR): allo scopo di ridurre le tempistiche procedurali, infatti, vennero istituite le Commissioni Territoriali per il riconoscimento dello status di rifugiato – composte da un funzionario della carriera prefettizia e uno della polizia di Stato, e da due rappresentanti, uno dell’UNHCR (Alto Commissariato dell’ONU per i rifugiati) e l’altro dell’ente territoriale designato dalla conferenza Stato-autonomie locali – indirizzate e coordinate da una Commissione Nazionale per il diritto d’asilo, che cessò così di essere l’unico organo deputato ad occuparsi dell’esame delle domande di protezione internazionale.
Lo SPRAR invece prese forma da un protocollo d’intesa intercorso tra Ministero dell’Interno, ANCI e UNHCR che istituzionalizzava una prassi precedente di esperienze di accoglienza decentrate e in rete realizzate principalmente grazie all’apporto di associazioni, enti locali e ONG, e trasposte all’interno di un complesso sistema articolato in centri di permanenza temporanea e assistenziali, in cui ripartire la responsabilità dell’accoglienza tra i livelli decentrati (gli enti locali) e quello centrale (il Ministero dell’Interno). Tale sistema - ancora attualmente in uso, al netto di alcune aggiunte e ridenominazioni ad opera di interventi normativi successivi – dovrebbe mirare a dare corpo ad un “sistema asilo” che non si limiti alla risoluzione del solo problema dell’alloggio dei migranti ma a fornire loro anche un’adeguata serie di misure circa l’informazione del funzionamento dell’accoglienza e della protezione internazionale in Italia e in Europa, l’assistenza sanitaria e sociale, l’accompagnamento e l’orientamento necessario all’inserimento nel contesto sociale ed economico del paese.
Tra il livello ideale e quello concreto ed effettivo di realizzazione del progetto, tuttavia, rientrano (allora come oggi) le difficoltà connesse in particolare al problema della limitazione della libertà personale degli stranieri attraverso modalità difficilmente conciliabili con l’art. 13 Cost.: infatti questa veniva disposta con provvedimento amministrativo, anziché con atto motivato dell’autorità giudiziaria, e, nelle ipotesi di espulsione, gli immigrati venivano costretti a rimanere all’interno dei centri ai fini dell’espletamento dei controlli relativi all’identità, anche nei casi in cui non avevano commesso reati ai sensi della legge penale italiana.
La normativa obbligatoria dell’Unione Europea
L’impianto normativo delineato attraverso la Bossi-Fini è stato sostanzialmente riconfermato all’interno del d.lgs.25/2008, col quale è stata data attuazione in Italia alla prima direttiva “procedure” 2005/85/CE, e del d.lgs. 251/2007, che recepiva la prima “direttiva qualifiche”, attraverso i quali si è delineato meglio un sistema per cui le Commissioni Territoriali per il riconoscimento dello status di rifugiato – sotto l’indirizzo e il coordinamento della Commissione Nazionale - esaminano le istanze per il riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria procedendo attraverso un colloquio personale col richiedente.
Un’enorme incidenza nella costruzione di tale sistema-asilo per come lo conosciamo oggi va, dunque, attribuita alla legislazione di livello comunitario che si è intensificata solamente negli ultimi anni.
Continua sul prossimo numero
Note
[1]I dati sono tratti da qui. Nel riepilogo anno 2017, per l’esattezza, si evince che su un totale di 130.119 richieste presentate nel corso dell’anno, a dicembre ne sono state esaminate circa 81 mila e l’esito è stato un diniego di qualsiasi tipo di protezione nel 58% dei casi, il riconoscimento dello status di rifugiato nell’8%, riconoscimento della protezione sussidiaria ancora nell’8% e, infine, protezione umanitaria nel 25% dei casi. Si vedrà nei prossimi numeri come i livelli di tutele e benefici connessi ai titolari di protezione sussidiaria/status di rifugiato siano significativamente più consistenti di quelli implicati dalla protezione umanitaria, il che aiuta ad adottare una lettura più ragionata delle statistiche e dei numeri (al di là del già di per sé significativo dato del massiccio utilizzo del diniego).