Un editoriale della rivista Left attacca un esponente di sinistra per aver osato esporre un paradosso: i lavoratori “devono” votare Trump per affossare il TPP. Apriti cielo: evitare la firma del trattato di libero scambio nell’area dell’Oceano Pacifico diventa immediatamente “protezionismo sfrenato che ci riporta a qualche secolo fa”. Addirittura, la mancata approvazione del TPP viene paragonata all'infame ampliamento del muro col Messico. Chi si felicita per la fine del TPP viene accusato di “scodinzolare dietro Trump”.
Due punti saltano all’occhio:
1)Il TPP non c’è. Non approvarlo non alza alcuna barriera. Lascia quelle esistenti. Il TPP, inoltre, è stato pensato come barriera contro la Cina.
2)Il muro al confine messicano c’è già. Iniziato da Bill Clinton, finito da Bush Junior col voto favorevole di Hillary Clinton. Mai smantellato dal Premio Nobel per la Pace Barack Obama. 6000 esseri umani sono morti su quel muro. Vale la pena di ricordare che Bill Clinton è stato il presidente del libero scambio tra USA e Messico. Libero scambio per le merci. Muri per gli esseri umani. Mettere sullo stesso piano le due cose è quindi falso. Ma non è solo un errore. È il segno di mancanza di autonomia culturale.
Non è una notizia di oggi che la “sinistra riformista” abbia abbracciato la causa del libero scambio. Da più di vent’anni le “liberalizzazioni” sono state fatte più da sinistra che da destra. Più da Bersani che da Berlusconi. Quello che è preoccupante è che anche la sinistra cosiddetta radicale, di fronte a un mondo che cambia ad altissima velocità, confonde la libera circolazione delle merci e dei servizi con la circolazione degli esseri umani. Una sinistra che vive nell'illusione di resuscitare lo stato sociale ma trema all’idea di rimettere mano al regolazione del commercio e della finanza, come accadeva durante l’epoca d’oro dello stato sociale. Una sinistra che, alla fin fine, si lamenta di chi “scodinzola da Trump” ma, pur di dire sempre l’esatto contrario di Trump, si fa dettare la linea da Trump stesso.
La “caccia ai rossobruni”
Mentre il mondo cambia, nella sinistra cosiddetta radicale sembra essersi aperta la stagione di caccia ai “rossobruni”. Ma non si tratta di combattere, per esempio, contro i fascisti che usano la statua della Vittoria di Stalingrado come simbolo di “resistenza contro l’invasione islamica”. Non si tratta di combattere l’inquinamento che i fascisti travestiti da rossi possono spargere tra i giovani e in generale tra chi non ha più nessun punto di riferimento politico.
No, si tratta della caccia ai compagni che parlano di sovranità, di ruolo dello stato-nazione, di uscita dall’Unione Monetaria, di mondo multipolare. Intendiamoci, la confusione è tanta e le sbandate a destra esistono. Ma in un mondo che cambia a grande velocità rifiutarsi di discutere queste questioni non farà altro che consegnare questi temi alla Lega e a tutte le forze reazionarie. Si è pensato per anni che l’europeismo potesse essere una nuova forma di internazionalismo. Si è pensato che approfondendo l’integrazione europea avremmo unito le classi lavoratrici europee. E invece ci troviamo con un continente diviso, con le classi lavoratrici divise.
Forse dovremmo ricordare che le pochissime lotte ad aver veramente mobilitato le classi lavoratrici di tutta Europa sono state quelle contro l'integrazione dei mercati del lavoro e contro il libero commercio: contro la Direttiva Bolkenstein e contro il TTIP. Lotte che, con la retorica in voga in questi giorni, potrebbero essere condannate come “alzare i muri”. Forse è venuto il momento di fermare la caccia ai rossobruni e riflettere su quanto ci facciamo dettare la linea da Trump, Le Pen e Salvini.