Lo svuotamento della funzione parlamentare se, da una parte, è una conseguenza del maggiore potere decisionale del governo, dall’altra è un effetto della perduta autonomia dell’azione politica della sinistra radicale, che rischia di essere subordinata agli interessi e alle strategie dei detentori del potere economico e finanziario.
di Rosalinda Renda
Nell’articolo Il trasformismo delle classi dirigenti (ne “il manifesto” del 17/ 02/2015) Alberto Burgio fa notare la quasi totale latitanza della stampa nazionale sugli episodi di trasformismo che hanno caratterizzato la recente vita parlamentare del nostro paese. Settori e/o gruppi di diversa provenienza politica (Scelta Civica, esponenti di Sel, dissidenti di M5S) sono confluiti nel partito del Presidente del Consiglio, rafforzando così la stabilità del governo e avallando lo stile dirigistico e decisionista impresso al potere esecutivo, a detrimento della funzione legislativa del Parlamento.
Tale fenomeno, appunto perchè è passato sotto silenzio (come se fosse una vicenda di normale dialettica parlamentare), riveste un carattere di estrema gravità. Infatti, per Burgio, non si tratta di esprimere una condanna morale su episodi di squallido opportunismo: con la pratica del trasformismo viene alterato il ruolo di rappresentanza che la Costituzione assegna al Parlamento, per cui il fenomeno riveste una dimensione squisitamente politica, essendo il segno della grave crisi in cui versa lo stato della democrazia nel nostro paese e, perciò, richiede per la sua comprensione un’adeguata analisi storico- politica.
Per un valido orientamento critico della questione è opportuno, secondo Burgio, rivolgersi all’interpretazione avanzata da Gramsci nei Quaderni del carcere del processo risorgimentale e della costruzione dello Stato nazionale in Italia nei primi decenni della sua storia unitaria. L’egemonia e la direzione politica dal partito moderato, guidato da Cavour, sui democratici (Mazzini, Garibaldi), si prolunga dopo l’Unità: la dirigenza politica resta saldamente in mano allo schieramento liberale, il quale esercita un forte potere di attrazione nei confronti dei quadri del Partito d’Azione, dando luogo al fenomeno del «trasformismo», ovvero all’«assorbimento degli elementi attivi sorti dalle classi alleate e anche di quelle nemiche» [1].
Con l’avvento al potere della Sinistra storica (1876), il ricorso al trasformismo diviene una prassi corrente e sistematica dei governi, i quali si assicurano così l’appoggio di larghe maggioranze con l’esclusione delle ali estreme dello schieramento parlamentare; ponendosi come un “partito” al di sopra dei partiti esistenti, il potere esecutivo ne accelera il processo di disgregazione, con la conseguente esautorazione delle prerogative del Parlamento.
Alberto Burgio è dell’avviso che l’analisi gramsciana di ottanta anni fa e relativa all’Italia post- unitaria è oltremodo attuale e calza a pennello nello scenario politico odierno che, però, rispetto al trasformismo storico, presenta un elemento di novità. Burgio individua nel protagonismo di Renzi non solo la capacità di attrarre verso il PD forze parlamentari originariamente esterne al partito, ma di provocare anche all’interno dello stesso partito spinte disgregatrici, tendenti ad annullare il peso politico delle sue componenti di “sinistra”, tramite la loro convergenza sulle posizioni del Segretario-Premier. Stabilita la schietta “natura politica” anche del trasformismo attuale – che «si conferma efficiente strumento di costruzione di maggioranze che immunizzano i governi dalla dialettica parlamentare» [2] –, Burgio ritiene che il fenomeno richiede di essere inquadrato all’interno di un problema più generale e di fondo che, a sua volta, va interrogato e chiarito per la sua rilevanza sociale e cioè la “questione morale”, sulla quale egli dichiara di volersi soffermare in un successivo intervento.
A questo punto non possiamo non avanzare delle perplessità sulla totale identificazione del trasformismo attuale con quello ottocentesco analizzato da Gramsci. Burgio molto opportunamente ci ricorda nel suo articolo che Gramsci considera il trasformismo come «un aspetto della funzione di dominio», oltre che «una forma della rivoluzione passiva» [3]; in altri termini, è soltanto entro la cornice della categoria più vasta di “rivoluzione passiva”, desunta dal Cuoco, che il fenomeno del trasformismo può essere compreso e può diventare oggetto di giudizio politico. Ma che cosa intendeva Gramsci per “rivoluzione passiva”? In un passo dei Quaderni del carcere egli si esprime in questo modo: «sia la “rivoluzione-restaurazione” del Quinet che la “rivoluzione passiva” del Cuoco esprimerebbero il fatto storico dell’assenza di iniziativa popolare nello svolgimento della storia italiana e il fatto che il “progresso” si verificherebbe come reazione delle classi dominanti al sovversivismo sporadico e disorganico delle classi popolari con “restaurazioni” che accolgono una qualche parte delle esigenze popolari, quindi “restaurazioni progressive” o “rivoluzioni-restaurazioni” o anche “rivoluzioni passive”» [4].
Si può sostenere che il trasformismo di oggi possa essere considerato come una «una forma della rivoluzione passiva », che contenga cioè, sia pure in maniera distorta e in un quadro di sostanziale moderatismo, elementi di « progresso» provenienti dai bisogni, espressi confusamente dai moti delle masse? Non si tratta piuttosto di un fenomeno pienamente funzionale a una politica di pura e semplice restaurazione del comando del capitale sul lavoro, come reazione alle conquiste dei lavoratori, frutto delle lotte organizzate e tutt’altro che episodiche che il movimento operaio ha condotto nel corso degli anni sessanta e settanta? La fase politica attuale si colloca nel quadro più ampio di offensiva neo-liberista iniziata a livello internazionale negli anni Ottanta e che si è compiutamente dispiegata dopo il crollo dell’ URSS. Che cos’è, infatti, il cosiddetto Jobs Act, approvato grazie a pratiche di spicciolo trasformismo, se non la restaurazione della completa libertà del capitale di disporre a proprio arbitrio del lavoro? Quali sono, in questo caso, gli elementi “progressisti”? In effetti, lo svuotamento della funzione parlamentare se, da una parte, è una conseguenza del maggiore potere decisionale del governo, dall’altra è un effetto della perduta autonomia dell’azione politica in quanto tale, ormai subordinata agli interessi e alle strategie dei detentori del potere economico e finanziario. Basta gettare uno sguardo panoramico sulla composizione dell’attuale legislatura per accorgersi che le differenze tra gli orientamenti politici e ideologici sono risibili: al di là di una sparuta minoranza, il denominatore comune dei vari gruppi politici è la fede liberista, sebbene declinata con sfumature diverse. Un risultato questo ottenuto grazie alle riforme istituzionali, in primis la riforma elettorale maggioritaria, portata a termine in nome della governabilità del sistema e che ha tagliato fuori dal parlamento le forze di sinistra. Il frutto maturo di tali politiche è l’ormai avvenuta “normalizzazione” del PD, capolavoro politico del suo attuale segretario, che si accinge ora con le sue riforme ad archiviare non solo materialmente, ma anche formalmente l’assetto costituzionale.
In questo quadro di sostanziale omogeneità dell’arco parlamentare, i recenti episodi di trasformismo vanno qualificati come atti di mero tornaconto personale dei singoli parlamentari, di becera cura del proprio “particulare”. Ce ne dà conferma lo stesso Alberto Bugio nel prosieguo della sua riflessione (vedi il suo articolo La carriera dorata del parlamentare, uscito ne il Manifesto del 25/02/2015). Pur di mantenere i propri privilegi economici e di carriera, molti parlamentari sono interessati a mantenere in piedi il governo scongiurando così la fine anticipata della legislatura. La corruzione dei singoli diventa così perversamente funzionale agli intenti politici di trasformare l’aula parlamentare in una cassa di risonanza dei decreti governativi.
Matteo, encore un effort! La realizzazione del programma piduista è in dirittura d’arrivo!
NOTE:
[1] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, 4 voll., Torino 1975, Quaderno 1, p. 41.
[2] Alberto Burgio, Il trasformismo delle classi dirigenti, in “Il manifesto” del 17/ 02/2015.
[4] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, 4 voll., Torino 1975, Quaderno 8, p. 957.