Denuncia Marx che la ricchezza delle nazioni – di cui amano riempirsi la bocca, a partire da A. Smith, gli apologeti della società borghese – sorge sulla base dell’esclusione sia dalla ricchezza che dalla nazione della gran massa dei lavoratori.
La concentrazione nelle città di moltitudini di diseredati pronti a vendere nelle peggiori condizioni l’utilizzo della propria forza-lavoro e quella dei loro figli ha la sua origine – come mostra denunciando cosa si cela dietro l’accumulazione primitiva del capitale – nella “spudoratissima profanazione del ‘sacro diritto della proprietà’”[1] e nel più grossolano atto di violenza contro la libera volontà delle persone. L’immediatezza dello scambio – che avviene sul piano della circolazione che appare come il dominio della libertà e dell’uguaglianza fra gli uomini – mediante cui il capitalista si appropria del valore d’uso della forza-lavoro – è in realtà un risultato mediato dalla più profonda antitesi fra il lavoratore e le condizioni della produzione a lui contrapposte nel capitale, in cui si sono venute accumulando.
Ecco come Marx denuncia la mistificazione dell’ideologia dominante dei rapporti sociali e di produzione reali sottesi al libero scambio: “‘le relazioni tra il proprietario e il fittavolo sono relazioni tra due commercianti’, dice il ‘Times’. Questa è la petitio principi che pervade tutto l’editoriale del ‘Times’. Il fittavolo irlandese bisognoso appartiene al suolo, mentre il suolo appartiene al lord inglese. Allo stesso modo si potrebbe chiamare relazione tra due commercianti quella che passa tra il rapinatore che punta la pistola e il viaggiatore che allunga il suo portafoglio” [2].
Se l’uomo, dunque, in quanto cittadino è libero ed eguale solo formalmente, nella sfera giuridica, in quanto individuo socialmente determinato è nella stragrande maggioranza dei casi libero ed eguale solo ideologicamente, in quanto potenzialmente proprietario dei mezzi di produzione e di sussistenza, mentre realmente è ridotto alla necessità di alienare la propria essenza sociale, la propria forza-lavoro a un altro, il capitale, in cui non può in alcun modo riconoscersi ed essere riconosciuto se non quale strumento del plusvalore e del profitto. Il lavoro, dunque, quale appropriazione della natura da parte dell’uomo si manifesta al salariato, denuncia a ragione già il giovane Marx, quale estraniazione, “l’attività propria come attività per un altro e come attività di un altro” [3]. “Perciò l’operaio solo fuori del lavoro si sente presso di sé; e si sente fuori di sé nel lavoro. È a casa propria se non lavora; e se lavora non è a casa propria. Il suo lavoro quindi non è volontario, ma costretto, è un lavoro forzato. Non è quindi il soddisfacimento di un bisogno, ma soltanto un mezzo per soddisfare bisogni estranei” [4].
Il privilegio, su cui si strutturava lo Stato feudale nel medioevo, diviene una prerogativa esclusiva della moderna società civile. Il diritto dell’uomo in quanto tale, della Dichiarazione dei diritti borghese, lo riduce a un individuo “cui strappa ogni determinatezza, per classificarlo come capitalista o come lavoratore” [5]. Il modo di produzione capitalistico degradando l’uomo a merce lo riduce, denuncia Marx, “corrispondentemente a questa funzione, ad un essere tanto spiritualmente che fisicamente disumanizzato” [6]. Nel momento in cui il proletario considera la sua attività generica, il lavoro sociale non quale fine in sé, ma soltanto quale mezzo di sopravvivenza, nel momento in cui vede negli altri dei meri strumenti del proprio interesse privato, ha alienato la sua essenza sociale in un qualcosa di a lui estraneo. Va così smarrita l’umanità dell’individuo che, proprio nell’attività generica, nel lavoro produttivo è degradato ad animale, dal momento che non è più libero, in quanto il suo operare è ridotto a mero strumento funzionale a colmare il suo bisogno immediato di autoconservazione e in quanto non può riconoscersi nel prodotto del proprio lavoro, dal momento che gli si contrappone nella forma alienante e a lui ostile del capitale.
Il primato della persona, la sua elevazione a fine della struttura giuridica si rovescia, paradossalmente, nel proletario che viene nel modo capitalistico di produzione degradato da fine a mezzo dell’attività sociale. Il lavoratore non può riconoscersi né nel proprio corpo, che ha alienato al capitalista quale merce, né nella propria essenza generica, dal momento che l’attività sociale gli è estranea, né può riconoscersi negli altri, la cui attività gli è altrettanto estranea. Al punto che il lavoratore si sente libero “soltanto nelle sue funzioni animali, (…) e invece si sente nulla più che una bestia nelle sue funzioni umane” [7].
In tal modo, come mette in evidenza acutamente Marx, che la sua stessa soggettività, fondamento della persona giuridica, si rovescia nell’oggettività della forza-lavoro mercificata e alienata in cambio dei mezzi di sussistenza e di riproduzione. Ecco, dunque, che “in relazione all’operaio, che si appropria la natura col lavoro, l’appropriazione si presenta come estraneazione, l’attività propria come attività per un altro e come attività di un altro, la vitalità come sacrificio della vita, la produzione dell’oggetto come perdita dell’oggetto in favore di un potere estraneo, di un uomo estraneo” [8].
L’arcano della sfera fenomenica della circolazione, luogo idilliaco nella rappresentazione borghese della realizzazione dei diritti umani, è svelato da Marx nel momento in cui rivela il processo che si svolge alle spalle di tale parvenza. L’essenza di tale fenomeno è individuabile, dunque, unicamente seguendo l’operaio che ha alienato la propria forza-lavoro ed è ora costretto a calarsi nel laboratorio nascosto della produzione, da cui i diritti umani nella rappresentazione ideologica borghese pretenderebbero di poter prescindere, assumendo gli individui come volontà astratte da ogni determinazione di classe, quali appunto appaiono nel momento in cui operano nella sfera dello scambio.
L’ambito d’effettualità del diritto borghese è dunque, come mostra Marx, esclusivamente la sfera della circolazione nella quale la persona giuridica del lavoratore salariato tende inevitabilmente a coincidere con quella del “libero” venditore in funzione del consumo e non del produttore. Ciò diviene evidente spostandosi dal piano dello scambio della merce forza-lavoro con i mezzi di sussistenza a quello del consumo della capacità di lavoro da parte del capitalista che la ha acquistata, dove è evidente che i diritti alla libertà dell’individuo, all’eguaglianza, alla proprietà e alla sicurezza, come denuncia Marx, restano appannaggio esclusivamente del capitalista. Per la maggior parte degli uomini, che per poter sopravvivere sono costretti ad alienare la loro stessa essenza generica, la libertà dell’individuo, posta in cima ai diritti umani, si riduce alla “libera” vendita della propria forza-lavoro, mentre per la minoranza che la consuma per il proprio profitto, si riduce a vivere dello sfruttamento dell’altrui capacità di lavoro. Il che, come mette in evidenza acutamente Marx, è immediatamente evidente nel mutamento della “fisionomia delle nostre dramatis personae” nel momento in cui lasciano il piano superficiale dello scambio per recarsi nel laboratorio oscuro della produzione. Ecco, allora, che “l'antico possessore del denaro va avanti come capitalista, il possessore di forza-lavoro lo segue come suo lavoratore; l'uno sorridente con aria d'importanza e tutto affaccendato, l'altro timido, restio, come qualcuno che abbia portato al mercato la propria pelle e non abbia ormai da aspettarsi altro che la… conciatura” [9].
Il diritto dell’uomo considerato dall’ideologia borghese come una monade isolata, fondato sull’eguaglianza giuridica della persona e la libera proprietà privata si capovolge nel suo contrario: il privilegio, trasferito dal piano politico del medioevo alla sfera sociale moderna quale monopolio del capitalista sui mezzi di produzione e riproduzione della forza-lavoro. Del resto, la proprietà privata borghese è in origine il prodotto necessario dell’alienazione dell’attività sociale e generica dell’uomo ridotta a lavoro salariato, ovvero è – come sottolinea Marx – “il capitale, cioè la proprietà privata dei prodotti del lavoro altrui” [10] ne diviene poi la causa in un rapporto d’azione reciproca. Il fondamento di tale rapporto è, dunque, individuato da Marx nel lavoro alienato. Tanto più che lo stesso diritto al libero godimento dei propri beni da parte dei proprietari monopolistici dei mezzi di produzione industriali e dei proprietari terrieri è egualmente il frutto legale della rapina perpetrata ai danni del lavoro salariato. Entrambi, denuncia Marx, amano raccogliere dove non hanno seminato e i proprietari fondiari arrivano a pretendere “una rendita pure per il prodotto naturale del suolo” [11].
D’altra parte, Marx mostra come la liberazione politica dei lavoratori salariati nel passaggio dalla servitù della società feudale alla libertà della società civile borghese, celi il riprodursi dell’asservimento sociale del lavoro salariato, in una società in cui la maggior parte dei cittadini è libera proprietaria unicamente della propria forza-lavoro e di quella della propria prole, che è costretta ad alienare come merce ad un prezzo appena sufficiente alla sua riproduzione ai detentori sempre più monopolistici dei mezzi di produzione e di sussistenza. Così, come mostra Marx, dinanzi all’esplicitarsi del dominio della proprietà privata nulla possono le “determinazioni locali, nazionali, ecc. della proprietà privata, considerata come un essere esistente al di fuori di essa, e pertanto sviluppa un’energia cosmopolitica, universale, che travolge ogni barriera ed ogni vincolo per porsi al loro posto come l’unica politica, l’unica universalità, l’unica barriera e l’unico vincolo” [12]. Come Lutero, negando la religiosità esterna la ha posta quale essenza interiore dell’uomo, così nella società borghese l’uomo “vien posto nella determinazione della proprietà privata” [13]. Tale uomo, però, è nella maggioranza dei casi il proletario privato di ogni mezzo di produzione e di sussistenza, che ha alienato la sua stessa essenza generica.
Dunque, la stessa “libertà” del proprietario della sola forza-lavoro si definisce nel modo di produzione capitalistico solamente in negativo, quale libertà d’alienare il proprio diritto umano alla stessa libertà individuale. Tanto più che, come osserva a ragione Marx, nel modo di produzione capitalistico “la separazione della proprietà dal lavoro si presenta come legge necessaria di questo scambio tra capitale e lavoro” [14].
Note
[1] K. Marx, Il capitale, vol. I, tr. it. di D. Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1989, p. 791.
[2] K. Marx, F. Engels, Opere complete, marzo 1853–febbraio 1854, tr. it. di F. Codino, vol. XII, Ed. Riuniti, Roma 1978, p. 162.
[3] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, tr. it. di N. Bobbio, Einaudi, Torino 1968, p. 86.
[4] Ivi, p. 75.
[5] Ivi, p. 143.
[6] Ivi, p. 90.
[7] Ivi, p. 75.
[8] Ivi, p. 86.
[9] Id., Il capitale, vol. I, cit, pp. 208-09.
[10] Id., Manoscritti economico-filosofici, cit., p. 29.
[11] Ivi, p. 50.
[12] Ivi, 102.
[13] Ivi, pp. 101-02.
[14] Id., Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, tr. it. di E. Grillo, Nuova Italia, Firenze 1968, p. 279.