Le trasformazioni della dirigenza scolastica dagli anni Novanta ad oggi, dall’introduzione dell’autonomia da parte di Luigi Berliguer, passando per i dicasteri Moratti e Gelmini, fino alla legge Brunetta rispondono al profondo cambiamento economico-culturale frutto dell’avanzata neoliberista. Gli ultimi residui costituzionali stanno per essere spazzati via e la completa aziendalizzazione della scuola sta per essere compiuta con la riforma Renzi.
di Renata Puleo*
Strade parallele e crocevia
Per comprendere le trasformazioni della dirigenza scolastica fino all’attuale Legge 13 luglio 2015 n.107, bisogna ripercorrere i passaggi legislativi, e dunque squisitamente politici, delle “rottamazioni” [1] subite dall’intero impianto della scuola pubblica. Lo faccio con uno sguardo parziale, sia al tema specifico – la dirigenza – sia alla numerosità dei provvedimenti relativi al pubblico servizio, spesso di difficile lettura essendo la materia di cui trattano fitta di sovrapposizioni e di richiami.
Il giro di boa mediante il quale si arriva all’attuale normativa avviene durante il decennio ’90 del secolo scorso e non riguarda solo il “riordino” dell’istruzione o del pubblico impiego, ma gli stessi concetti di pubblico e di statale.
Tra il 1993 e il 1994 vengono liquidati due provvedimenti i cui effetti dureranno nel tempo: la contrattualizzazione del pubblico impiego e l’emanazione del Testo Unico sull’istruzione.
Il primo atto (DLvo 3/02/1993 n.29) priva gli insegnanti e i funzionari scolastici del titolo di impiegati civili dello stato, inserendo tutto il personale nell’unico calderone del comparto-scuola, le cui condizioni di impiego, da quel momento, sono oggetto di contrattazione fra organizzazioni sindacali e l’agenzia ARAN a livello nazionale, in forma decentrata nelle singole istituzioni.
Il secondo (Legge 16/04/1994 n. 297) apre il percorso di trasformazione dell’intero ordine dei cicli in un tentativo di apparente riordino e semplificazione, testo nel tempo soggetto a continue revisioni.
Analizzando ciò che segue al primo atto troviamo il filone definito di “razionalizzazione” della Pubblica Amministrazione, dalle norme-Bassanini del 1997-‘99 (ben quattro riforme coordinate per la cosiddetta “semplificazione”) fino al testo di Brunetta (DLvo 27/10/ 2009 n.150, per delega della Legge 4/03/2007 n.15).
Sulle tracce lasciate dal secondo testo dedicato all’istruzione, troviamo le riforme di Luigi Berlinguer (dal 1996 al 2000 a guida del dicastero nei governi Prodi e D’Alema).
Quel che mi interessa evidenziare è il punto di congiunzione fra i due cammini legislativi: l’introduzione dell’autonomia scolastica (DPR 8/03/1999 n.275 Regolamento in materia di istruzione scolastica ai sensi dell’art 21 della Legge 25/03/ 1999 n. 59 sulla semplificazione amministrativa, contenente la delega). Si tratta di un’autentica deriva valoriale, politica, concettuale, che introduce un nuovo vocabolario nel mondo dell’educazione e dell’istruzione, meglio rispondente al profondo cambiamento economico-culturale frutto dell’avanzata neoliberista.
La frattura riformista, operata dalla sinistra di governo, permette lo sfondamento praticato dalla squadra di Berlusconi, con i dicasteri di Moratti e di Gelmini. Rispettivamente, mediante la Legge 28/03/ 2003 n. 53 e i provvedimenti dell’anno 2008 che entrano nel merito del lavoro scolastico, come esercizio della professione-docente e come organizzazione, ha luogo un superamento costituzionalmente inammissibile dell’impianto della scuola pubblica, ottenuto con una sorta di sua riduzione a “servizio a domanda”, soprattutto per quanto concerne il tempo-scuola, con la conseguente manovra di taglio di “risorse umane” e finanziarie (circa 8 miliardi).
Che l’autonomia sia lo snodo culturale profondo che giustifica lo stravolgimento di una visione costituzionale della scuola, risulta evidente se si incrociano i percorsi delineati più su. Quando Berlinguer liquida il testo concernente la qualifica dirigenziale attribuita ai direttori didattici e ai presidi unificandone la carriera (DLvo 6/03/1998 n.59), i giochi sono fatti, il cammino diventa irreversibile, soprattutto indiscutibile. L’entusiasmo nelle fila dei nuovi dirigenti è pressoché unanime, nelle organizzazione corporative, in casa CGIL: tutti si aspettano grandiosi risultati per un processo che allora si chiamava innovazione, più pudicamente di rottamazione, ma animato dallo stesso insensato giovanilismo, troppo ignaro di storia delle istituzioni per capire la portata dei provvedimenti adottati. I corsi di formazione per i neo-dirigenti, affidati alle Università e ai privati con le solite pratiche italiane poco chiare, si articolano fra la managerialità di importazione e la paradossale utilizzazione del metodo della centratura sul cliente, ispirata a Carl Roger, in versione economica (inizia il tormentone sulle “risorse umane” e sul nesso mercantile domanda-offerta) [2].
La dirigenza fra de iure condendo e de pleno iure
I termini giuridici del titolo di questo paragrafo li ricavo da un commento del Dirigente Scolastico Francesco Gustavo Nuzzaci intorno agli effetti della legge Brunetta sulla funzione dirigenziale.
Una scelta non casuale fra molte altre riflessioni che dopo l’approvazione della riforma Giannini-Renzi occupano spazi virtuali, cartacei, dibattiti. Infatti, la annoto perché particolarmente interessante ai fini del percorso che ho più su delineato, vista la precisione chirurgica del suo impianto e la particolare solerzia con cui, da anni, questo dirigente scrive di autonomia e di funzione dirigenziale [3].
Dunque “de iure condendo”, ovvero la necessità di rendere compiuto, conseguente con le premesse, un intervento legislativo, nel caso specifico l’articolato della legge Brunetta, compimento che stabilirà finalmente una situazione, secondo Nuzzaci, di “pleno iure” per la funzione del dirigente scolastico. Detto più semplicemente, si tratta di portare l’assetto della dirigenza scolastica ben dentro il quadro delineato dalla legge Brunetta per tutta la dirigenza pubblica, rendere operativi gli strumenti di “premialità”, di merito, di selezione e di valutazione, in simmetria con l’applicazione di misure di sanzionamento per l’inefficacia e l’inefficienza in ambito amministrativo (artt. 67-70) e propriamente scolastico.
Nella legge del 2009, dice Nuzzaci c’è già tutto quel che serve. La nuova disciplina del rapporto di lavoro pubblico è informata ai principi di ottimizzazione, efficacia di azione, efficienza per unità di spesa, performances che, come recita l’art 3 ai commi 2 e 3, prevedono costante monitoraggio, misurazione, valutazione; attività a cui è tenuto ogni ramo dell’amministrazione, sia in scala gerarchica – tutti dipendono in ultima istanza da altri - sia in autonomia per settore di appartenenza (il principio della libera espressione nell’esecuzione del mandato contrattuale, ai diversi livelli professionali).
L’art.19 stabilisce i criteri per la stesura di una graduatoria in tre livelli in cui dovrà essere collocato il personale (alto, 25%; medio 50%; 25% bassa) per la concessione dei bonus. Non tutti, in un sistema statistico, possono essere eccellenti, anche per ragioni di spesa pubblica.
Dunque, c’è tutto quello che serve per realizzare l’autonomia mediante l’aziendalizzazione della scuola, divenuta oggi luogo comune. Ma, secondo Nuzzaci non è così. L’applicazione della legge Brunetta manca della necessaria specificità perché sia operativa nella scuola; è carente di quel “pleno iure” che potrebbero realizzare di intesa il MIUR e il MEF (Ministero di Economia e Finanze ovviamente implicato visto che si parla di efficienza ma anche di soldi). Il problema, continua, sta nel cuore di una dirigenza che nasce ambigua, e che Renzi ha provato a definire in contorni più netti.
Persiste, aggiunge, una maniera di concepirla ancora in osservanza dell’art.33 della Costituzione, da cui si ricava una sorta di nicchia ecologica per il dirigente scolastico rispetto al resto del comparto pubblico. Insomma, un rimasuglio di libertà di azione culturale e didattica, costituzionalmente garantita, che si è estesa, per colpevole arrendevolezza governativa, in questi anni di corporativismo sindacale, dall’insegnamento all’ufficio di dirigenza. E’nato così una sorta di compromesso, un “middle management” che lo spirito della legge Brunetta esclude, laddove non di leader si parla ma esplicitamente di manager. Nessuna infatuazione legata a vecchi percorsi educativi, nessun compromesso con sedicenti forme di cooperazione, semmai collaborazioni ufficializzate in incarichi, creazione di staff, composizione di nuclei di consiglieri ad hoc. Il lavoro docente, se vogliamo parlare di scuola per il terzo millennio, dice Nuzzaci, deve essere necessariamente “proceduralizzato”, regolato, certo non in nesso causale, ma probabilistico, la cui sensatezza razionale è fuori discussione.
Come si vede l’intento di Nuzzaci è quello di sollecitare il governo a fare di più, a lavorare al “de iure condendo”, a metter ancor meglio a fuoco la nuova organizzazione del lavoro nelle scuole, preparata ben sei anni fa dal lungimirante ministro innovatore di Berlusconi.
Riflessioni analoghe si possono trovare scorrendo le pagine del sito dell’Associazione Nazionale Presidi nel frattempo innovatasi (il ringiovanimento è un obbligo, anche quando non è possibile ingannare il tempo, di vita, della Storia), confluita nell’internazionale European School Heads Association (ESHA, alta dirigenza scolastica e amministrativa). Ma ovviamente, come più volte abbiamo ricordato, tutti i gruppi variamente legati ai potentati finanziari e industriali concordano sul legame inflessibile fra managerialità, merito, valutazione.
L’aspetto che mi viene da definire con amarezza grottesco, è che molti dirigenti non si sono accorti durante l’ultimo ventennio di quel che accadeva alla scuola, dunque anche a loro, e siano narcisisticamente felici dei nuovi compiti che la riforma Renzi attribuisce alla dirigenza. Felici come caporali di poter esercitare sugli insegnanti un potere frustrato da un salario sempre in bilico, legato al capriccio di una valutazione premiale, magari stabilita in base ai rapporti stilati da ex colleghi, passati su incarico del MIUR (o dello stesso INVALSI?) ai ranghi ispettivi. Frustrato soprattutto dalle indegne condizioni in cui volge la scuola, fra precariato irrisolto, anzi complicato dalle norme sulle assunzioni, mancanza di finanziamenti, edifici cadenti, territori devastati dalla nuova povertà, risentimento e atmosfera di sospetto nei collegi sempre più burocratizzati e verticalizzati. Un’ex “primus inter pares”, vecchia figura giuridica da rottamare, secondo Nuzzaci, vuole essere un libero professionista, assolutamente fedele ai nuovi compiti di caporalato, fedeltà accecata non solo verso i diritti dei docenti e degli studenti, ma perfino dei propri.
Del resto basta leggere il contratto individuale di lavoro siglato dai dirigenti dopo il 2000. Un coacervo di rimandi a vecchi contratti nazionali, la parte tabellare in cui si sommano diritti di anzianità di servizio, posizione variabile per fascia di istituto diretto, retribuzione di risultato e, il futuro bonus, fatto salvo il buon fine di una valutazione i cui criteri ancora non sono noti. Negli articoli che compongono un contratto individuale [4] dedicati all’oggetto dell’incarico, emerge con forza quello che si definisce il “tratto discendente” dell’autonomia, per meglio dire una sorta di principio di fedeltà al sistema-azienda. Ne riporto qualche aspetto. Fra gli obiettivi connessi all’incarico (non si è più nominati ma “incaricati”), ai rituali richiami al dovere costituzionale di servire la Repubblica si accostano i contenuti del codice civile (artt 2104,2015) sulla fedeltà e la diligenza, anticaglie di un vecchio “Beruf”, di un ufficio di funzionariato, rimaste dopo l’innovazione. L’osservanza di tutte le direttive ministeriali e il compito di monitorare le performances tipiche dell’Offerta Formativa attraverso il lavoro di apposite commissioni, costituisce l’ambiguo ambito delle nuove funzioni manageriali. Compiti poco definiti dunque, a cui ogni Direttore Generale può applicare il proprio punto di vista.
*Maestra elementare dal 1971 al 1981; Direttrice Didattica fino al1998, anno in cui diventa Dirigente.
Note:
[1] Il termine, il cui significato è la demolizione di apparecchi, di veicoli inutilizzabili, è stato usato con la consueta icasticità in stile network da Renzi per definire le svolte da lui operate nel partito e nell’azione di governo.
[2] E’ il caso del corso che ha subito chi scrive, gestito dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, presso l’ospedale Gemelli, nel corso dell’anno scolastico ‘99/2000.
[3] Francesco Gustavo Nuzzaci dirige una scuola a Loverato in Puglia; laureato in Pedagogia e Giurisprudenza; cultore di Diritto Scolastico presso la Facoltà di Giurisprudenza di Lecce, esponente sindacale della CONFEDIR - quadri direttivi della PA, ha svolto attività di formazione nelle SSIS e ha assunto incarichi ispettivi su dirigenti in anno di prova; ho selezionato trasversalmente i suoi commenti da innumerevoli articoli apparsi su Scuola& Amministrazione, nel sito edscuola (pubblicati fino al 2015) e, nello specifico dell’argomento qui trattato, dalla rivista Scienze dell’Amministrazione Scolastica, 2010.
[4] Ho tenuto presente il mio ultimo contratto e quello firmato di recente da una neo-dirigente.