La riflessione su questi temi attiene a problemi profondi, di non facile soluzione, per i quali uno sguardo superficiale o un atteggiamento dogmatico o intellettualistico non ci permettono di cogliere la reale portata della questione che, invece, va colto in un orizzonte storico e con una prospettiva politica che si interroghi sulla radice dei problemi e che sappia osservare i fenomeni giudiziari all’interno del movimento reale della società in cui noi viviamo.
Io stesso, nello scrivere l’articolo, sono attraversato da dubbi, riflessioni, interrogativi e non intendo esporre delle certezze, se non sul piano dei principi generali e della passione che mi muove per la comprensione della storia del paese in cui vivo.
Il Comma 41 bis è stato introdotto nell’ordinamento penitenziario nel 1992, dopo le stragi di Capaci e via d’Amelio. La condizione dei detenuti sottoposti al regime d’isolamento era giustificata con la motivazione e che i detenuti per associazione mafiosa, se non fossero stati isolati, avrebbero potuto continuare l’attività criminale all’interno del carcere: l’isolamento era considerato uno strumento necessario per estirpare i rapporti tra le associazioni mafiose e la società. Per questo motivo il regime di 41 bis doveva essere limitato nel tempo al fine di assumere i caratteri di una misura eccezionale prevista esclusivamente per reati di stampo mafioso. Tale presupposto muove dalla convinzione che le organizzazioni mafiose rappresentino un fenomeno eversivo di stampo reazionario che tende a sovvertire i rapporti sociali in chiave regressiva attraverso l’utilizzo indiscriminato della violenza organizzata. Nel corso del tempo, e in particolare nel 2002, tuttavia, il regime del carcere duro è stato ampliato ad altri reati, in particolare si fa riferimento ad azioni eversive e terroristiche. Essendo una misura di carattere preventivo fondata sulla tempestività ed eccezionalità il suo utilizzo è definito dal ministero di Grazia e Giustizia. Il che può rendere altamente arbitrario l’uso di una norma che nascendo da un carattere d’eccezionalità può – come realmente è avvenuto – estendersi surrettiziamente a tal punto che, riducendo i rapporti sociali, i legami personali del detenuto, limita fortemente i diritti della persona e accentua i caratteri repressivi e autoritari dello Stato. Il fatto che colpisce, tuttavia, è che si tratta del medesimo Stato che ha organizzato la trattativa Stato-mafia, di cui uno degli elementi più importanti su cui si basavano le rivendicazioni di cosa nostra era proprio l’eliminazione del 41bis. Il governo che estende il 41 bis nel 2002 è lo stesso governo il cui presidente del Consiglio – Silvio Berlusconi – deve parte integrante della sua carriera politica ai finanziamenti e agli appoggi politici dati da Cosa Nostra e la cui ascesa è intrecciata per mille rivoli e collegamenti con la trattativa Stato-mafia.
Lo sciopero della fame attuato in carcere da Cospito per la revoca generale del 41 bis ha scoperchiato il vaso di pandora, mettendo in luce, anche se solo in forma embrionale, tutte queste contraddizioni che non attengono solo alla classe politica ma anche alle idee che si è venuta formando l’opinione pubblica trasversalmente alle forze politiche intorno al tema del 41 bis. Il primo punto che è interessante evidenziare in questa vicenda è una questione di principio, che, non a caso è stata sottolineata dalle istituzioni europee sul regime del carcere duro.
La norma presenta dei tratti fortemente repressivi poiché violano i diritti dell’individuo, definendo un regime di isolamento che nulla ha a che fare con la funzione rieducativa della pena che è alla base dei principi giuridici su cui si fonda uno Stato democratico. Non è un caso che la Corte Costituzionale, pur riconoscendo la funzione preventiva del 41 bis per le organizzazioni mafiose, ha più volte tentato di limitare l’utilizzo di questa norma a casi circoscritti e per periodi definiti. Da un punto di vista generale, quindi, non possiamo che denunciare il regime di 41 bis come uno strumento di natura repressiva che, in particolare se allargato a reati politici (la definizione di organizzazione terroristica può essere molto ambigua ed interpretabile da parte della classe dominante), rischia seriamente di ridurre gli spazi di democrazia nel nostro paese, oltre a ridimensionare drasticamente i rapporti personali e i diritti dei detenuti.
Se riflettiamo con attenzione sull’evento e lo contestualizziamo in una società attraversata da una profonda crisi della rappresentanza accompagnata da una grave crisi economica in cui l’oligarchia borghese tende sempre di più a perdere il consenso attivo rispetto alle proprie politiche di fronte a settori sempre più vasti della società quotidianamente impoveriti, sono lecite le preoccupazioni verso un uso sempre più disinvolto delle politiche autoritarie e repressive nel nostro paese. In questo senso è positivo che le proteste di questi giorni abbiano sollevato perplessità e dubbi su un argomento tabù come il 41 bis. D’altro canto, se la magistratura più impegnata nella lotta contro la mafia è dovuta ricorrere a questo strumento eccezionale per combattere associazioni criminali protette e garantite da settori molto influenti dello Stato ciò significa che non è stato possibile rimuovere le cause materiali, storiche e sociali per le quali questo tipo di fenomeno ha continuato a prosperare ancora ai giorni nostri.
Sappiamo benissimo che le cause profonde vanno ricercate nell’aggravarsi della questione meridionale e nella strettissima connessione esistente tra oligarchia finanziaria e settori industriali del Centro-Nord e organizzazioni criminali del Sud presenti in moltissimi settori dell’economia. Il fatto che il principale strumento adottato per contrastare tali organizzazioni sia stato quello della lotta giudiziaria alla mafia ha reso popolare, anche in moltissimi settori della sinistra, lo strumento del 41 bis, ed è per questa ragione che, nonostante i pericoli e le insidie che esso contiene, è ancora difeso e sostenuto da una parte consistente dell’opinione pubblica. Nel momento stesso in cui contrastiamo la pericolosità di uno strumento come il 41 bis non possiamo non tener conto delle impressioni e dei sentimenti che evoca in una parte consistente del nostro paese, a partire dalle masse popolari del Centro-Sud, economicamente e socialmente vessate dalle organizzazioni mafiose, e dalla loro prospettiva sostanzialmente legalitaria, tuttavia dobbiamo gradualmente spiegare che la legalità non sempre corrisponde alla giustizia e che per ottenere giustizia vanno rimosse le cause sociali da cui l’arbitrio, la violenza e l’oppressione sono causate, ampliando e non riducendo i diritti che a volte, sotto l’immagine rassicurante e legalitaria del carcere duro per i mafiosi può nascondere un estensione potenzialmente indiscriminata degli strumenti repressivi.