Abolizione del carcere, giustizia sociale e lotta alla criminalità organizzata: un ripensamento radicale della giustizia

Riceviamo e pubblichiamo a favore di dibattito un breve saggio che si propone di offrire un punto di vista sul tema delle carceri affrontandone l’evoluzione storica e illustrando gli approcci abolizionisti


Abolizione del carcere, giustizia sociale e lotta alla criminalità organizzata: un ripensamento radicale della giustizia

Introduzione

Il carcere è una delle istituzioni più antiche e radicate nella società, considerato da molti il pilastro della giustizia e della sicurezza pubblica. Il pensiero dominante lo descrive come un sistema necessario per punire i colpevoli, dissuadere potenziali criminali e rieducare chi ha commesso reati. Tuttavia, questa visione è sempre più messa in discussione da movimenti e studiosi che evidenziano le profonde contraddizioni del sistema carcerario: invece di ridurre il crimine, il carcere spesso lo amplifica, trasformandosi in una "università della delinquenza" in cui chi entra per un reato minore rischia di uscirne più alienato e incline alla recidiva.

Il movimento abolizionista carcerario nasce da una critica radicale al sistema penale, considerandolo non solo inefficace, ma anche dannoso. Sin dal XIX secolo, pensatori anarchici come Pëtr Kropotkin, Emma Goldman e Aleksandr Berkman [1] hanno denunciato il carcere come strumento di repressione e controllo sociale, evidenziando come esso non serva né a prevenire né a rieducare, ma sia piuttosto un mezzo per perpetuare ingiustizie e disuguaglianze. Secondo questa prospettiva, il sistema carcerario non è progettato per garantire giustizia, ma per istituzionalizzare la vendetta e il dominio delle classi privilegiate sulle fasce più deboli della popolazione.

Nei secoli successivi, il movimento abolizionista ha continuato a svilupparsi, ampliando la sua analisi e proponendo alternative concrete alla detenzione. La giustizia riparativa, i programmi di riabilitazione, la mediazione dei conflitti e le misure di supporto sociale sono solo alcune delle strategie proposte per sostituire un modello punitivo con un approccio basato sulla riparazione e sulla reintegrazione. Queste alternative sono sostenute da numerosi studi e dati che dimostrano come l'incarcerazione non solo non riduca la criminalità, ma contribuisca a esacerbare i problemi sociali e a colpire in modo sproporzionato le classi più svantaggiate, spesso criminalizzando la povertà e l’emarginazione.

Un caso emblematico che dimostra le contraddizioni del sistema penale è il sovraffollamento delle carceri. In molti Paesi, la maggior parte della popolazione carceraria non è composta da criminali pericolosi o violenti, ma da persone condannate per reati minori, come piccoli furti o spaccio di droga. Questo fenomeno evidenzia come il carcere sia spesso utilizzato per gestire problemi sociali piuttosto che per garantire giustizia. Inoltre, le statistiche mostrano che la recidiva tra gli ex detenuti è estremamente alta, dimostrando l’incapacità del sistema di rieducare e reintegrare le persone nella società.

Un ulteriore aspetto da considerare è il legame tra criminalità e disuguaglianza economica. La povertà e la mancanza di opportunità giocano un ruolo determinante nella spinta verso il crimine, soprattutto per i reati legati alla sopravvivenza, come i furti e lo spaccio su piccola scala. Di fronte a questa realtà, alcuni studiosi sostengono che una redistribuzione più equa delle risorse economiche potrebbe ridurre drasticamente il tasso di criminalità, eliminando alla radice molte delle condizioni che portano all’illecito.

Infine, il saggio analizzerà il caso della criminalità organizzata, in particolare il fenomeno mafioso, che rappresenta una delle sfide più complesse per la giustizia penale. La mafia può essere considerata una forma di "capitalismo a mano armata", in cui il potere economico e la violenza si intrecciano per creare un sistema di controllo sociale e territoriale. Il sequestro e la nazionalizzazione dei beni mafiosi sono strumenti cruciali nella lotta contro queste organizzazioni, ma la loro efficacia dipende dalla capacità dello Stato di gestire e reinserire questi beni nel tessuto produttivo in modo trasparente e utile alla collettività.

Questo saggio si propone di analizzare criticamente il sistema carcerario, mettendo in discussione la sua efficacia e proponendo alternative che potrebbero portare a una giustizia più equa e funzionale. Attraverso una riflessione sulle radici sociali della criminalità, sulle disuguaglianze economiche e sulle possibili strategie 

di prevenzione e reintegrazione, si cercherà di rispondere a una domanda fondamentale: è davvero possibile immaginare un mondo senza prigioni? E se sì, quali sarebbero le soluzioni per garantire sicurezza e giustizia senza ricorrere all’incarcerazione?

La nascita del sistema carcerario: storia, evoluzione e funzione

L’idea della punizione è sempre stata centrale nelle società umane, ma la prigione come strumento principale di pena è un’invenzione relativamente recente. Prima che il carcere diventasse il mezzo predominante per disciplinare i trasgressori, le società utilizzavano metodi di punizione molto diversi, spesso basati sulla violenza fisica e sull’umiliazione pubblica. Le punizioni corporali erano tra le più comuni: fustigazioni, amputazioni e marchi a fuoco venivano inflitti come deterrente per chi infrangeva la legge. Nei casi di reati più gravi, la pena di morte era la soluzione più diffusa e veniva eseguita pubblicamente, trasformandosi in uno spettacolo di potere e di intimidazione per la popolazione.

Oltre alle pene fisiche, le società antiche e medievali utilizzavano l’esilio e la servitù forzata come strumenti di repressione. I colpevoli venivano allontanati dalle comunità o costretti ai lavori forzati, spesso in condizioni di schiavitù. In Europa, nel Medioevo, la gogna e la berlina erano strumenti di punizione particolarmente diffusi: i condannati venivano esposti nelle piazze pubbliche per essere derisi e umiliati dai cittadini, in un rituale che rafforzava il controllo sociale attraverso la vergogna.

In questo scenario, il carcere esisteva già, ma con una funzione molto diversa da quella odierna. Le prigioni medievali non erano luoghi destinati alla rieducazione o alla detenzione a lungo termine, bensì spazi di custodia temporanea, in cui i prigionieri attendevano il processo o l’esecuzione della loro pena. Non esisteva ancora l’idea della privazione della libertà come punizione in sé; il carcere era piuttosto un passaggio obbligato prima di una pena più definitiva.

Il cambiamento fondamentale avvenne tra il XVIII e il XIX secolo, quando il carcere iniziò a sostituire progressivamente le punizioni corporali e le esecuzioni pubbliche come principale strumento punitivo. Questo processo fu il risultato di trasformazioni politiche, economiche e culturali profonde. Da un lato, l’Illuminismo promuoveva una nuova concezione della giustizia, più razionale e umanitaria, in cui la punizione non doveva più essere un’esibizione di crudeltà, ma uno strumento di correzione del comportamento deviante. Dall’altro, la nascita degli Stati moderni e la centralizzazione del potere politico richiedevano sistemi di controllo più organizzati ed efficienti.

L’economia ebbe un ruolo determinante in questa trasformazione. Con la rivoluzione industriale, le città si riempirono di lavoratori migranti, disoccupati e poveri, creando un contesto sociale instabile. Le élite economiche e politiche vedevano nel carcere un mezzo per disciplinare questa nuova classe operaia, insegnando obbedienza e ordine. La detenzione divenne quindi una forma di controllo sociale, volta a rendere i lavoratori più docili e a prevenire rivolte e disordini.

Con la nascita del carcere moderno, vennero introdotti due modelli principali di reclusione: il sistema pennsylvaniano e il sistema auburniano. Il primo, nato negli Stati Uniti, prevedeva l’isolamento totale dei detenuti, che trascorrevano intere giornate in celle singole, senza contatti con altri prigionieri. L’idea era che il silenzio e la solitudine avrebbero spinto i criminali alla riflessione e al pentimento, ma in realtà questo regime produceva gravi danni psicologici, con frequenti episodi di follia e suicidio. Il sistema auburniano, invece, manteneva l’isolamento notturno, ma consentiva ai detenuti di lavorare insieme durante il giorno, sotto stretta sorveglianza e in assoluto silenzio. Questo modello divenne il più diffuso, perché permetteva di sfruttare la manodopera carceraria, rendendo la detenzione economicamente produttiva per lo Stato.

Il carcere non fu mai solo un mezzo per punire il crimine, ma sempre anche un dispositivo di gestione delle classi popolari e di normalizzazione dei comportamenti sociali. Con l’aumento della criminalità urbana e l’espansione delle metropoli industriali, la prigione divenne lo strumento principale per controllare la devianza. Molti dei detenuti non erano pericolosi criminali, ma individui considerati socialmente problematici, come vagabondi, piccoli ladri, prostitute e mendicanti. L’incarcerazione divenne così un modo per nascondere e neutralizzare la povertà, piuttosto che affrontarne le cause strutturali.

Durante il XX secolo, il sistema carcerario continuò a evolversi, introducendo alcune riforme che miravano a migliorare le condizioni dei detenuti e a favorire la loro riabilitazione. In alcuni Paesi si iniziarono a sperimentare pene alternative, come la libertà vigilata e il lavoro di pubblica utilità. Tuttavia, il carcere rimase lo strumento dominante per il controllo della criminalità, nonostante le prove della sua inefficacia nella riduzione dei reati.

Con la criminalizzazione delle droghe e l’inasprimento delle leggi negli anni ’70 e ’80, molti Stati occidentali aumentarono il numero di detenuti, portando a una crescita esponenziale della popolazione carceraria. Negli Stati Uniti, ad esempio, il fenomeno del prison-industrial complex trasformò il sistema carcerario in un’industria altamente redditizia, con aziende private che gestivano prigioni e traevano profitto dall’incarcerazione di massa. Questo dimostra come la detenzione non sia solo una questione di giustizia, ma anche un meccanismo economico che genera enormi profitti per determinati settori.

Oggi il carcere è considerato un’istituzione imprescindibile, ma la sua storia dimostra che non è né naturale né inevitabile. È il prodotto di scelte politiche ed economiche che hanno privilegiato la punizione e il controllo sociale rispetto a soluzioni alternative più efficaci. Se in passato la pena si basava sulla violenza fisica e sulla pubblica umiliazione, oggi la privazione della libertà ha preso il loro posto, ma senza modificare la logica sottostante: eliminare, isolare e reprimere chi è considerato una minaccia all’ordine costituito.

Di fronte alle sue evidenti contraddizioni e fallimenti, diventa legittimo chiedersi se il carcere debba continuare a esistere o se sia possibile immaginare una società in cui la giustizia non sia fondata sulla punizione, ma sulla prevenzione e sulla riparazione del danno. Nei capitoli successivi, esploreremo le critiche al sistema penale e le alternative proposte per un futuro senza prigioni.

Il carcere come strumento di disciplina e controllo sociale

Il carcere non è semplicemente un luogo di reclusione per chi ha infranto la legge, ma un dispositivo essenziale nel sistema di controllo sociale moderno. Attraverso la punizione e la sorveglianza, la prigione funge da strumento per rafforzare le gerarchie sociali esistenti e reprimere le fasce marginalizzate della popolazione. La funzione disciplinare del carcere non si limita all'isolamento fisico dei detenuti, ma si estende alla loro trasformazione in soggetti docili e controllabili.

Le istituzioni penitenziarie operano come parte di un sistema più ampio di regolazione della società, in cui il potere non si esercita solo con la coercizione diretta, ma anche attraverso la normalizzazione dei comportamenti. Le prigioni, insieme alle scuole, alle fabbriche, agli ospedali psichiatrici e alle caserme, costituiscono una rete di istituzioni disciplinari che plasmano gli individui sin dalla giovane età, insegnando loro a conformarsi alle aspettative del sistema.

Michel Foucault, nella sua opera Sorvegliare e punire (1975) [2], analizza la nascita del sistema penale moderno e il suo legame con il potere disciplinare. Secondo Foucault, il carcere non è semplicemente un luogo di reclusione per chi ha infranto la legge, ma uno strumento attraverso cui lo Stato esercita il controllo sociale. Le prigioni non hanno lo scopo di rieducare, bensì di disciplinare i corpi e le menti, trasformando la punizione in un dispositivo di sorveglianza diffusa che va oltre le mura carcerarie e pervade l'intera società.

Foucault evidenzia come il carcere sia una delle tante istituzioni disciplinari che emergono nella modernità per controllare gli individui e normalizzare i comportamenti. Insieme alla scuola, alla caserma, all'ospedale psichiatrico e alla fabbrica, il carcere rappresenta un meccanismo attraverso cui il potere si esercita in modo capillare, intervenendo sulla vita delle persone sin dall'infanzia. L'obiettivo non è tanto punire il reato in sé, ma costruire una società in cui il controllo sia interiorizzato, dove la sorveglianza sia così pervasiva da rendere la disciplina un meccanismo automatico di autoregolazione.

Un aspetto chiave della sua analisi è il concetto di panoptismo, ispirato all’architettura della prigione panottica progettata da Jeremy Bentham. Il panopticon è una struttura circolare in cui un unico sorvegliante può osservare tutti i detenuti senza che questi sappiano quando sono effettivamente osservati. Questo induce nei prigionieri un senso costante di visibilità, che li porta ad autodisciplinarsi. Foucault utilizza questa metafora per descrivere il funzionamento del potere nelle società moderne, in cui la sorveglianza non si limita alle istituzioni carcerarie, ma si estende a ogni ambito della vita quotidiana, attraverso strumenti burocratici, tecnologici e culturali.

Questa logica disciplinare si traduce anche in un sistema penale che tende a rafforzare le disuguaglianze sociali, concentrando la punizione sulle fasce più deboli della popolazione mentre riserva trattamenti più indulgenti alle élite economiche. Il carcere, più che una risposta alla devianza, diventa un dispositivo di gestione delle classi marginalizzate, impedendo loro di avere un’effettiva possibilità di riscatto sociale. Foucault critica inoltre la pretesa di umanizzazione del sistema penale, sottolineando come la retorica della riforma e della riabilitazione sia spesso solo un ulteriore strumento di controllo, piuttosto che una reale volontà di reintegrazione.

Il pensiero foucaultiano si collega così alle critiche mosse da altri teorici contemporanei, come Giorgio Agamben, che ha sviluppato il concetto di stato di eccezione [3], per descrivere come i regimi moderni sospendano sistematicamente i diritti fondamentali di intere categorie di persone, tra cui i detenuti. In questa prospettiva, il carcere non è solo una forma di punizione, ma un laboratorio politico in cui si sperimentano tecniche di disciplinamento e di riduzione dell’individuo a homo sacer, un soggetto privato di diritti e considerato sacrificabile dallo Stato.

Angela Davis, nel suo libro Are Prisons Obsolete? [4], sottolinea come il sistema penale sia strettamente legato al razzismo e al capitalismo. Secondo Davis, le prigioni moderne non sono semplicemente strumenti di punizione, ma istituzioni progettate per mantenere l'ordine economico e sociale, incarcerando in modo sproporzionato le comunità marginalizzate. Il complesso industriale carcerario statunitense è un perfetto esempio di come il carcere sia diventato un business, con enormi profitti generati dalla detenzione di massa.

Davis evidenzia come le carceri private, che proliferano negli Stati Uniti, operino con un modello economico in cui la detenzione di massa diventa una fonte di guadagno per le aziende coinvolte. Società private stipulano contratti con il governo per gestire le prigioni, generando profitti attraverso la riduzione dei costi operativi e il mantenimento di alti tassi di incarcerazione. Questo crea un incentivo perverso per la criminalizzazione delle comunità più povere, alimentando politiche repressive come la War on Drugs e le pene minime obbligatorie, che hanno portato a un drastico aumento del numero di detenuti, in particolare tra gli afroamericani e i latini.

Un altro aspetto rilevante sottolineato da Davis è la stretta connessione tra il sistema penale e il mercato del lavoro. Le prigioni forniscono manodopera a basso costo per le grandi aziende, attraverso programmi di lavoro forzato che pagano i detenuti pochi centesimi all'ora per svolgere compiti essenziali per il settore manifatturiero, tecnologico e agricolo. Questa forma di sfruttamento ricorda le dinamiche del lavoro forzato della schiavitù, mostrando come il sistema penale moderno continui a riprodurre disuguaglianze storiche.

Davis critica anche il ruolo della politica nella crescita dell’industria carceraria. I finanziamenti statali destinati alle carceri superano spesso quelli per istruzione e servizi sociali, indicando una chiara priorità nel controllo delle classi subalterne piuttosto che nella loro emancipazione. Le lobby delle carceri private esercitano inoltre una forte influenza sulla legislazione, promuovendo normative che favoriscono la detenzione di lungo termine e limitano le possibilità di reinserimento sociale dei detenuti.

Lo studioso italiano Alessandro Baratta [5] ha sviluppato una visione critica del sistema penale in chiave marxista, evidenziando come il carcere sia uno strumento di repressione utilizzato per controllare le classi subalterne. Secondo Baratta, la criminalizzazione di certi comportamenti dipende dalle dinamiche del potere economico e politico, piuttosto che da un'autentica volontà di garantire giustizia.

Baratta ha anche sottolineato come il diritto penale non persegua tutti i reati allo stesso modo: mentre le trasgressioni delle classi inferiori vengono punite con pene severe, i crimini dei colletti bianchi, della finanza e della politica spesso rimangono impuniti o vengono trattati con indulgenti pene alternative. Questa discrepanza rafforza l’idea che il sistema penale sia uno strumento per il controllo dei poveri piuttosto che un autentico meccanismo di giustizia.

Un altro punto cruciale della sua analisi riguarda la funzione ideologica del carcere, che serve a legittimare le disuguaglianze sociali. In una società capitalista, la punizione non è finalizzata alla rieducazione del singolo, ma all’intimidazione collettiva, per scoraggiare il dissenso e mantenere l’ordine sociale imposto dalle élite. Il carcere diventa così un elemento essenziale per la gestione della marginalità, attraverso la neutralizzazione di coloro che sono considerati pericolosi per l’ordine economico dominante.

Ruth Wilson Gilmore, nel suo libro Golden Gulag [6], evidenzia come la crescita della popolazione carceraria negli Stati Uniti sia strettamente collegata a processi economici di deindustrializzazione, disoccupazione e surplus di forza lavoro. Sostiene che il sistema carcerario serva come una valvola di sfogo per gestire le conseguenze economiche del capitalismo avanzato, piuttosto che per migliorare la sicurezza pubblica.

Secondo Gilmore, l’espansione delle prigioni non risponde a un aumento del crimine, ma a una necessità di gestione delle eccedenze di popolazione prodotte dalle crisi economiche. Con la chiusura di molte industrie e la delocalizzazione del lavoro, milioni di persone si sono trovate senza occupazione stabile e senza prospettive economiche, diventando vulnerabili alla criminalizzazione. Lo Stato, invece di investire in programmi di welfare, ha optato per la costruzione di nuove prigioni come strumento per contenere e controllare le popolazioni impoverite.

Un altro punto fondamentale dell’analisi di Gilmore è il legame tra incarcerazione e sviluppo economico locale. Molte prigioni sono state costruite in zone rurali depresse, presentate come opportunità di crescita e creazione di posti di lavoro. Tuttavia, il sistema carcerario finisce per aggravare le disuguaglianze economiche, poiché assorbe risorse pubbliche che potrebbero essere destinate all’istruzione, alla sanità e ai servizi sociali.

Gilmore sottolinea inoltre come la criminalizzazione delle comunità nere e latine sia una diretta conseguenza di questo modello economico. La War on Drugs e le politiche di tolleranza zero hanno funzionato come strumenti per riempire le prigioni con individui provenienti dalle fasce più deboli della popolazione, creando un ciclo in cui l’incarcerazione di massa diventa una soluzione strutturale alla crisi economica.

Nils Christie, autore di Crime Control as Industry [7], critica il sistema penale come un'industria che prospera grazie alla criminalizzazione di comportamenti marginali. Secondo Christie, le società occidentali hanno reso il crimine una risorsa economica, poiché il sistema carcerario genera profitti attraverso la costruzione di prigioni, il lavoro dei detenuti e la privatizzazione della sicurezza.

Christie evidenzia come la creazione di un sistema penale ipertrofico non sia motivata da un reale aumento della criminalità, ma piuttosto dalla necessità di mantenere in funzione un’industria che coinvolge aziende private, appalti pubblici e interessi economici. La prigione, in questa prospettiva, diventa un enorme mercato che produce profitti attraverso la gestione e la sorveglianza di soggetti marginalizzati, trasformati in merce per l’economia della sicurezza.

Uno degli aspetti più controversi sottolineati da Christie è l’uso della forza lavoro carceraria a basso costo. I detenuti vengono impiegati per la produzione di beni e servizi a costi estremamente ridotti, creando una forma di sfruttamento che avvantaggia le grandi imprese e riduce le opportunità di lavoro nel mercato libero. In questo modo, il sistema carcerario non solo reprime, ma alimenta un ciclo in cui la disuguaglianza economica si perpetua: le persone provenienti da contesti svantaggiati sono più facilmente criminalizzate, incarcerate e sfruttate economicamente.

Christie mette inoltre in evidenza come la privatizzazione del sistema penale abbia aggravato la logica del profitto. Negli Stati Uniti, ad esempio, le carceri private stipulano contratti con il governo che garantiscono un certo numero di detenuti, incentivando politiche repressive e l’adozione di leggi sempre più severe. Questo fenomeno ha portato a una crescita esponenziale della popolazione carceraria, con l’incarcerazione di massa diventata un elemento strutturale della gestione sociale delle classi più povere.

David Garland, nel suo libro The Culture of Control [8], analizza l’evoluzione del sistema penale e mostra come le politiche penali siano guidate più dalla paura e dalla percezione dell’insicurezza che da un’autentica esigenza di giustizia. Secondo Garland, negli ultimi decenni si è verificata una trasformazione radicale nel modo in cui le società occidentali affrontano la criminalità, con un’enfasi crescente sulla punizione e sulla sicurezza piuttosto che sulla riabilitazione e sulla prevenzione.

Garland evidenzia come la crescita del populismo punitivo e il rafforzamento dello stato penale siano una conseguenza della crisi dello stato sociale. La riduzione delle garanzie sociali e la precarizzazione del lavoro hanno portato a un aumento della percezione dell’insicurezza, che è stata strumentalizzata dai governi per giustificare l’inasprimento delle pene e l’espansione del sistema carcerario. In questo contesto, il carcere diventa una soluzione politica più che sociale, utilizzata per rassicurare l’opinione pubblica piuttosto che per affrontare le cause strutturali della criminalità.

Garland introduce il concetto di criminologia della catastrofe, con cui descrive il modo in cui i governi utilizzano la paura del crimine per legittimare politiche repressive. I media, in particolare, svolgono un ruolo fondamentale nella costruzione di un immaginario collettivo in cui il crimine è percepito come un fenomeno in costante crescita, nonostante i dati spesso indichino il contrario. Questo alimenta un ciclo in cui la domanda di sicurezza genera sempre nuove leggi punitive, indipendentemente dalla loro reale efficacia.

Secondo Garland, il sistema penale contemporaneo non è progettato per ridurre la criminalità, ma per gestire e contenere gruppi sociali considerati problematici. In particolare, le classi svantaggiate, i disoccupati, i tossicodipendenti e gli immigrati diventano le principali vittime di un sistema che privilegia la repressione sulla prevenzione. Il risultato è una società in cui il carcere non è più uno strumento eccezionale, ma una componente strutturale della gestione sociale.

César Cuauhtémoc García Hernández [9] mette in luce come la criminalizzazione dell’immigrazione negli Stati Uniti abbia reso il sistema carcerario uno strumento di repressione etnica e politica, favorendo il business delle prigioni private e rafforzando il razzismo istituzionalizzato. Secondo García Hernández, la detenzione di massa degli immigrati non è solo una risposta politica alla questione migratoria, ma un vero e proprio mercato che garantisce enormi profitti alle aziende coinvolte nella gestione delle prigioni.

Il fenomeno della crimmigration, termine coniato dallo stesso García Hernández, descrive la fusione tra il diritto penale e quello dell’immigrazione, che ha portato alla crescente criminalizzazione dei migranti, spesso detenuti senza aver commesso reati, ma solo per il loro status amministrativo irregolare. Questo processo ha rafforzato un sistema in cui l’incarcerazione di immigrati è divenuta una componente strutturale della governance statunitense, utilizzata per rafforzare il controllo sociale e alimentare le tensioni razziali.

García Hernández sottolinea inoltre come le leggi sull’immigrazione siano state progressivamente inasprite per giustificare la detenzione di migranti su larga scala, fornendo così una fonte costante di detenuti alle prigioni private. Queste strutture, spesso gestite da aziende come la GEO Group e la CoreCivic, traggono profitti dalla detenzione di individui che, in molti casi, non rappresentano alcuna minaccia per la sicurezza pubblica.

L’analisi di García Hernández si collega a una critica più ampia del sistema carcerario come strumento di segregazione e oppressione delle minoranze. Il legame tra razzismo, incarcerazione e profitto evidenzia come le politiche migratorie non siano semplicemente una questione di sicurezza nazionale, ma un dispositivo di esclusione e sfruttamento che contribuisce a rafforzare le disuguaglianze economiche e sociali.

Il carcere non è progettato per la riabilitazione, ma per il controllo sociale. La sua funzione principale non è mai stata quella di reintegrare il detenuto nella società, ma di punirlo e mortificarlo. La degradazione, attraverso l'isolamento, l'imposizione di divise e il trattamento disumano, serve a spezzare la dignità dell'individuo. Il sistema penale opera secondo una logica repressiva, che si concentra sulla punizione piuttosto che sulla prevenzione del crimine.

La critica del sistema penale

Uno dei principi fondamentali su cui si basa il movimento abolizionista carcerario è la critica al sistema penale come strumento di giustizia. Gli abolizionisti sostengono che il sistema carcerario non solo non risolve i problemi sociali, ma, anzi, li amplifica, perpetuando disuguaglianze e ingiustizie. Il carcere si configura come una "università del crimine", poiché coloro che vi sono rinchiusi tendono a uscire più inclini a commettere reati più gravi rispetto a quelli per cui erano stati inizialmente incarcerati. Inoltre, il sistema penale è accusato di essere razzista e punitivo, piuttosto che giusto e rieducativo.

Le persone incarcerate appartengono in larga parte a classi sociali marginalizzate, con minori opportunità economiche ed educative. Ciò dimostra come il sistema carcerario sia uno strumento che colpisce soprattutto le fasce più deboli della popolazione, senza affrontare le reali cause della criminalità. Molti detenuti finiscono in carcere per reati di natura economica o legati alla tossicodipendenza, problemi che potrebbero essere affrontati con soluzioni alternative alla detenzione, come programmi di supporto sociale, educazione e politiche di reinserimento lavorativo.

In molti casi, il carcere diventa un ricettacolo di problemi sociali non risolti, fungendo da contenitore per coloro che la società non è riuscita a integrare. Le carenze strutturali nel welfare, nell’accesso alla salute mentale e nelle politiche abitative spingono molti individui ai margini, conducendoli a reati spesso dettati dalla necessità o dalla disperazione. Senza interventi mirati per affrontare le cause profonde della criminalità, la prigione si trasforma in un ciclo di oppressione e marginalizzazione, piuttosto che in una soluzione effettiva al problema della sicurezza pubblica.

Negli Stati Uniti, il sistema carcerario riflette profonde disuguaglianze sociali, economiche e razziali. La sovrarappresentazione di minoranze etniche, in particolare degli afroamericani e dei latini, all'interno delle carceri è uno degli aspetti più critici e controversi del sistema penale statunitense. Gli afroamericani, pur costituendo circa il 13% della popolazione, rappresentano quasi un terzo della popolazione carceraria, mentre i latini, che costituiscono circa il 16%, rappresentano il 23% dei detenuti [10]. Questi numeri evidenziano un sistema punitivo che colpisce in maniera sproporzionata le comunità più vulnerabili, amplificando le disuguaglianze economiche ed educative e perpetuando la marginalizzazione.

La "guerra alla droga" lanciata negli anni '80 ha avuto un impatto devastante sulle comunità nere e latine. Le leggi sui reati legati alla droga, come le pene minime obbligatorie, hanno contribuito a un drammatico aumento delle incarcerazioni di afroamericani e latini, nonostante il consumo di droga sia simile tra tutte le etnie. Questa politica ha rafforzato la criminalizzazione delle comunità già emarginate, portando a un circolo vizioso in cui la prigione diventa la risposta principale a problemi di natura sociale. Invece di affrontare la tossicodipendenza come un problema di salute pubblica, si è scelto di rispondere con la repressione penale, incrementando la stigmatizzazione e l'esclusione di interi gruppi sociali.

Oltre a perpetuare le disuguaglianze, il sistema penale si rivela inefficace anche nel garantire sicurezza alla società. L'alto tasso di recidiva dimostra che la prigione non aiuta a ridurre il crimine, ma anzi contribuisce a creare condizioni di marginalizzazione e di esclusione sociale, aggravando il problema anziché risolverlo. In Italia, il tasso di recidiva si attesta intorno al 68%, indicando che oltre due terzi dei detenuti tornano a delinquere dopo il rilascio [11]. Questo dato evidenzia la fallacia dell'idea che il carcere possa agire come deterrente efficace, dimostrando invece come esso rinforzi un ciclo di criminalità e detenzione da cui è difficile uscire.

Le cause della recidiva sono molteplici e includono la mancanza di opportunità di reinserimento lavorativo, l’assenza di supporto sociale e l’effetto stigmatizzante della detenzione. Molti ex detenuti si trovano esclusi dal mercato del lavoro e dalle reti di supporto comunitario, condizioni che li spingono nuovamente verso attività illecite. Inoltre, il carcere stesso può rafforzare legami con ambienti criminali, contribuendo alla formazione di identità deviate che rendono ancora più difficile il reinserimento sociale.

Questi dati suggeriscono che l'attuale sistema carcerario non solo non riesce a prevenire la recidiva, ma potrebbe anche contribuire a perpetuare un ciclo di criminalità e detenzione. Investire in programmi di formazione e inserimento lavorativo per i detenuti appare quindi una strategia più efficace per migliorare la sicurezza pubblica e promuovere la reintegrazione sociale.

Il sistema penale, inoltre, soffre di un'intrinseca parzialità: mentre colpisce con durezza i crimini dei più poveri, riserva spesso trattamenti più indulgenti ai reati dei colletti bianchi e alla criminalità finanziaria. Le persone ricche e influenti riescono frequentemente a eludere il carcere attraverso avvocati costosi, patteggiamenti o sentenze più leggere, dimostrando come il sistema sia costruito per favorire chi detiene potere economico e sociale. Questa disparità mina ulteriormente la legittimità della giustizia penale, evidenziando come il carcere sia principalmente un mezzo di repressione per le classi sociali meno abbienti piuttosto che un effettivo strumento di equità e sicurezza.

Le critiche alla risposta punitiva nei casi di crimini gravi

Un punto di dibattito nel movimento abolizionista riguarda come trattare i crimini gravi, come omicidi e violenze estreme. Gli abolizionisti non negano che la protezione della comunità sia fondamentale, ma propongono soluzioni alternative alla detenzione carceraria. La riabilitazione intensiva, che include trattamenti psicologici, terapie comportamentali e supporto a lungo termine, è vista come una strada per affrontare le cause profonde di atti violenti. Inoltre, si prospettano strutture di custodia alternative che garantiscano la sicurezza della comunità senza ricorrere al carcere.

Il sistema carcerario tradizionale fallisce nel prevenire la recidiva e spesso non offre strumenti efficaci per il recupero e la responsabilizzazione dell'autore del crimine. Al contrario, molte esperienze internazionali dimostrano che approcci basati sulla riabilitazione hanno risultati migliori nel ridurre il rischio di recidiva. Ad esempio, in Norvegia, i programmi di reinserimento per detenuti condannati per crimini gravi hanno dimostrato che un ambiente più umano e basato sulla responsabilizzazione produce tassi di recidiva notevolmente inferiori rispetto ai sistemi punitivi più rigidi.

Anche in questi casi gravi, la giustizia riparativa può essere applicata in un contesto dove le vittime e gli autori del crimine partecipano a un processo di confronto e responsabilizzazione, con l'obiettivo di riparare, per quanto possibile, il danno. Questo processo, già sperimentato in diversi paesi, offre alle vittime la possibilità di ottenere risposte concrete e agli autori del crimine un'opportunità per comprendere l'impatto delle proprie azioni e contribuire alla riparazione del danno.

Alcuni modelli di giustizia riparativa prevedono incontri tra vittime e responsabili del reato in contesti strutturati, con la mediazione di facilitatori esperti. Questi processi non solo favoriscono il recupero emotivo delle vittime, ma consentono agli autori dei crimini di sviluppare una maggiore consapevolezza del danno causato e di intraprendere percorsi di trasformazione personale. Inoltre, è stato osservato che la giustizia riparativa porta a una riduzione significativa della recidiva, dimostrando che il confronto diretto con le conseguenze delle proprie azioni può avere un effetto deterrente più efficace della semplice reclusione.

Parallelamente, si discute della necessità di sistemi di custodia protettiva per individui che, pur non essendo idonei al rilascio immediato, necessitano di un ambiente che favorisca il loro recupero piuttosto che il loro deterioramento. Strutture di detenzione alternative, che includano programmi di formazione, supporto psicologico e strategie di reintegrazione graduale, possono rappresentare un'opzione più efficace rispetto alle carceri tradizionali, che spesso peggiorano le condizioni di coloro che vi vengono reclusi.

L’abolizionismo carcerario non implica, dunque, un lasciar correre i crimini gravi, ma piuttosto un ripensamento del modo in cui la società gestisce la violenza e la devianza. L'obiettivo è creare un sistema che non solo protegga le persone dalla criminalità, ma che lavori attivamente per prevenire la violenza e trasformare chi l'ha commessa in un soggetto capace di contribuire alla comunità. Questo approccio si basa sull’idea che una giustizia efficace non debba necessariamente punire, ma piuttosto riparare il danno e ricostruire i legami sociali infranti.

Il legame tra povertà e criminalità

Una delle argomentazioni centrali nel movimento abolizionista è che la criminalità, in particolare quella minore, ha spesso radici nella povertà e nelle disuguaglianze sociali. Numerosi studi confermano che i detenuti sono, nella maggior parte dei casi, provenienti da contesti economici e sociali svantaggiati. Furti, spaccio di droga e reati contro il patrimonio sono frequentemente il risultato di difficoltà economiche, disagio psicologico o mancanza di opportunità.

La redistribuzione del reddito, unitamente a politiche sociali che affrontano la disuguaglianza, potrebbe ridurre significativamente i crimini legati alla povertà e, di conseguenza, la popolazione carceraria. Un esempio concreto di questa dinamica si osserva nei paesi scandinavi, dove le diseguaglianze di reddito sono meno marcate rispetto ad altri paesi e i tassi di criminalità risultano più bassi.

In nazioni come la Svezia, la Norvegia e la Danimarca, la presenza di un robusto stato sociale e di politiche redistributive efficaci ha contribuito a contenere la criminalità legata alla marginalità economica. Ad esempio, la Svezia ha storicamente mantenuto bassi livelli di disuguaglianza grazie a un forte welfare state. Tuttavia, negli ultimi decenni, l'aumento delle disuguaglianze ha avuto un impatto sulle dinamiche sociali, con una crescita di alcuni fenomeni criminali. Nonostante ciò, i tassi di criminalità in questi paesi restano significativamente inferiori rispetto a nazioni con maggiore disuguaglianza economica.

Se si confrontano i dati, si nota che nei paesi scandinavi, caratterizzati da un indice di Gini basso (che misura la disuguaglianza del reddito), i tassi di criminalità sono inferiori rispetto a Paesi con un indice di Gini più alto. Ad esempio, la Norvegia ha un indice di Gini di circa 27 e un tasso di criminalità significativamente più basso rispetto agli Stati Uniti, dove l’indice di Gini supera il 40 e la criminalità violenta è notevolmente più alta [12]. Questo suggerisce che un sistema di welfare forte, che garantisca accesso all’istruzione, alla sanità e a opportunità di lavoro dignitose, possa prevenire molte forme di criminalità.

La relazione tra disuguaglianza economica e criminalità, pur non essendo deterministica, appare evidente nei modelli sociali nordici, dove la percezione della sicurezza è generalmente più alta e il carcere viene utilizzato con una frequenza molto inferiore rispetto ad altri paesi occidentali. L’approccio scandinavo, basato sulla prevenzione, sull’integrazione sociale e su misure alternative alla detenzione, dimostra come sia possibile ridurre il crimine senza ricorrere massicciamente alla repressione.

In contrasto, paesi con maggiori disuguaglianze economiche tendono a registrare tassi di criminalità più elevati. Ad esempio, nazioni come il Brasile e il Sudafrica, caratterizzate da un indice di Gini molto alto (oltre 50), registrano livelli di criminalità significativamente superiori rispetto ai paesi scandinavi. L’alta disuguaglianza economica in questi contesti crea profonde fratture sociali, alimentando la criminalità e la violenza.

Tuttavia, è importante sottolineare che la criminalità non è solo una questione economica. Crimini violenti, come omicidi, stupri e reati legati alla criminalità organizzata, non sono sempre direttamente collegati alla povertà e richiedono una risposta più complessa. La violenza di genere, ad esempio, è un fenomeno trasversale che riguarda ogni strato della società e non può essere spiegata unicamente in termini economici. Allo stesso modo, le organizzazioni criminali spesso si radicano in territori poveri, ma il loro funzionamento dipende anche da strutture di potere e da connivenze politiche.

Per affrontare efficacemente la criminalità in tutte le sue forme, è necessario un approccio multidimensionale che, oltre alla riduzione delle disuguaglianze economiche, includa programmi di educazione alla legalità, accesso a servizi sociali e sanitari e strategie di contrasto alle dinamiche culturali che alimentano la violenza. Solo combinando prevenzione, supporto sociale e interventi mirati sarà possibile costruire un modello di sicurezza basato sulla giustizia sociale piuttosto che sulla punizione indiscriminata.

Il caso della mafia: un capitalismo a mano armata

La mafia, spesso descritta come una forma di "capitalismo a mano armata", rappresenta un altro aspetto critico del sistema penale. Le organizzazioni mafiose operano come entità economiche che accumulano potere e ricchezza attraverso attività illegali, come il traffico di droga, l’usura, il riciclaggio di denaro e la gestione di appalti pubblici. Il loro potere si fonda non solo sulla violenza e sull’intimidazione, ma anche sulla capacità di inserirsi nei meccanismi legali dell’economia e della politica.

Sebbene il sequestro dei beni mafiosi e la loro nazionalizzazione siano passi significativi nella lotta contro le mafie, la vera sfida consiste nell'affrontare le cause strutturali che permettono a queste organizzazioni di prosperare. La criminalità organizzata non si sviluppa nel vuoto, ma si radica in contesti di povertà, disoccupazione e scarsa presenza dello Stato, dove diventa una forma alternativa di governo e di welfare.

Il sequestro e la confisca dei beni rappresentano colpi diretti al potere economico della mafia, poiché privano le organizzazioni criminali delle risorse finanziarie necessarie per mantenere il controllo del territorio. Tuttavia, senza un cambiamento profondo nelle disuguaglianze sociali e nelle connivenze politiche, tali misure potrebbero risultare insufficienti. La mafia trova terreno fertile nelle aree economicamente depresse, dove lo Stato è percepito come assente o inefficace. Per questo motivo, un approccio integrato che combini riforme sociali, educazione alla legalità e vigilanza sulle infiltrazioni mafiose è fondamentale per ridurre il consenso sociale che alimenta la criminalità organizzata.

Un punto essenziale riguarda l’uso sociale dei beni confiscati. La loro trasformazione in strumenti di sviluppo per le comunità locali è un elemento chiave per sottrarre alla mafia il consenso popolare. Cooperative agricole, centri culturali e progetti di impresa sociale nati dai beni sequestrati alle organizzazioni criminali hanno dimostrato di essere strategie efficaci per riconvertire l’economia mafiosa in opportunità di lavoro legale e sostenibile.

Inoltre, è necessario un rafforzamento degli strumenti di contrasto alla corruzione e alla collusione politica, che permettono alle mafie di prosperare. Senza una vigilanza costante sulle istituzioni e sui circuiti economici in cui le mafie si inseriscono, il potere criminale rischia di rigenerarsi sotto altre forme. Le mafie moderne non si limitano più alla gestione del traffico di droga o all’estorsione, ma si infiltrano nell’alta finanza, nelle amministrazioni pubbliche e nelle economie globalizzate, rendendo necessarie strategie di contrasto sempre più sofisticate.

Infine, un’efficace lotta alla mafia deve includere un lavoro culturale e educativo a lungo termine. La sensibilizzazione alla legalità nelle scuole, il sostegno alle associazioni antimafia e la protezione di chi denuncia sono elementi cruciali per smantellare il sistema di omertà che garantisce la sopravvivenza delle organizzazioni criminali. La repressione da sola non è sufficiente: è necessario costruire un modello di sviluppo alternativo che renda inutile e indesiderabile il controllo mafioso sulle economie locali.

L’abolizione del carcere e il superamento del sistema penale tradizionale non implicano quindi la rinuncia alla lotta contro le mafie, ma piuttosto un ripensamento delle strategie per sradicare il fenomeno alla radice. Solo affrontando le disuguaglianze economiche, la corruzione e il consenso sociale che alimentano la criminalità organizzata sarà possibile costruire una società realmente libera dalla mafia.

La giustizia riparativa e le alternative proposte

In risposta alla fallimentare politica punitiva, gli abolizionisti promuovono l'idea della giustizia riparativa, che si concentra sul riparare il danno causato dal crimine, piuttosto che infliggere punizioni. Questo approccio coinvolge le vittime, gli autori del reato e la comunità in un processo di dialogo e riconciliazione, con l'obiettivo di trovare soluzioni che riparino il danno e aiutino a reintegrare l'autore del reato nella società.

La giustizia riparativa si basa su principi di responsabilità, riparazione e reintegrazione. A differenza del sistema penale tradizionale, che si limita a punire, essa mira a risolvere il conflitto in modo costruttivo, offrendo alle vittime la possibilità di esprimere il proprio dolore e ottenere una compensazione concreta, mentre agli autori del reato viene data l’opportunità di comprendere l’impatto delle loro azioni e lavorare per rimediare.

Le alternative proposte dagli abolizionisti non si limitano alla giustizia riparativa. Si suggerisce la creazione di strutture di supporto comunitario che possano prevenire il crimine prima che accada, attraverso il miglioramento delle condizioni economiche, l'accesso all'istruzione e ai servizi sanitari, e il sostegno psicologico per chi vive situazioni di disagio sociale. Invece di punire, l'idea è quella di intervenire preventivamente per ridurre le cause profonde del crimine, come la povertà e la disuguaglianza.

Un esempio concreto di alternativa è l’implementazione di programmi di mediazione comunitaria, in cui le dispute vengono risolte senza l’intervento del sistema penale, attraverso il dialogo tra le parti coinvolte. Questi metodi hanno dimostrato di ridurre la recidiva e rafforzare il tessuto sociale, rendendo le comunità più resilienti.

Un altro elemento chiave è la promozione di modelli di giustizia trasformativa, che vanno oltre la semplice riparazione del danno e mirano a cambiare le strutture sociali che favoriscono il crimine. Questo può includere politiche di redistribuzione della ricchezza, investimenti in istruzione, politiche abitative dignitose e accesso universale ai servizi di salute mentale.

Nei paesi in cui sono stati sperimentati approcci basati sulla giustizia riparativa e sulla prevenzione sociale, si è osservata una riduzione significativa della criminalità e della recidiva. L'Islanda, ad esempio, ha investito massicciamente in programmi di sostegno ai giovani, riducendo drasticamente il tasso di criminalità giovanile. Allo stesso modo, modelli di giustizia riparativa in Canada e Nuova Zelanda hanno mostrato come un approccio basato sulla riconciliazione e sulla responsabilità condivisa possa portare a risultati più efficaci rispetto alla reclusione.

L'abolizione del carcere, quindi, non è semplicemente un'utopia, ma una possibilità concreta che richiede un cambiamento strutturale e culturale profondo. La giustizia riparativa e le alternative proposte dagli abolizionisti dimostrano che un sistema basato sulla prevenzione, sulla riparazione del danno e sulla reintegrazione sociale è non solo possibile, ma anche più efficace nel costruire una società più giusta e sicura.

Conclusione

Il movimento abolizionista carcerario non si limita alla richiesta di chiusura delle prigioni, ma propone una trasformazione radicale della giustizia e della sicurezza sociale. Invece di continuare a punire e incarcerare, gli abolizionisti invitano a riflettere sulle cause profonde del crimine e a investire in alternative come la giustizia riparativa, la riabilitazione e il supporto comunitario. Sebbene la strada verso una società senza prigioni possa sembrare difficile, l'approccio abolizionista offre una visione di un mondo in cui la giustizia non si riduce a punizione, ma si basa sulla riparazione, sulla prevenzione e sulla trasformazione.

L'abolizione del carcere non è solo una proposta teorica, ma un percorso pratico che richiede un cambiamento sistemico nella società. Ciò significa ripensare l’educazione, l’accesso alle risorse e i servizi di supporto per prevenire il crimine alla radice. La sicurezza pubblica non può basarsi esclusivamente sulla repressione, ma deve essere garantita attraverso politiche che promuovano il benessere collettivo, riducendo le condizioni che portano le persone a commettere reati.

Il fallimento del sistema carcerario è evidente nei tassi elevati di recidiva, nelle condizioni disumane di detenzione e nella sua incapacità di affrontare le disuguaglianze sociali. In alternativa, il movimento abolizionista sostiene modelli di giustizia che promuovano la responsabilità individuale e collettiva, incentivando la riparazione del danno e la riconciliazione tra le parti coinvolte. La giustizia riparativa e trasformativa non rappresentano solo un’alternativa al carcere, ma una ridefinizione radicale del concetto stesso di giustizia.

In molti paesi, le esperienze di giustizia riparativa, di decriminalizzazione di certi reati e di misure di prevenzione hanno già mostrato risultati positivi, dimostrando che il superamento del carcere non è un'utopia, ma una possibilità concreta. L'obiettivo non è solo smantellare il sistema penale, ma costruire un modello di società in cui la sicurezza non dipenda dalla punizione, bensì da condizioni di vita dignitose, dall’accesso alla salute, all’istruzione e alla giustizia sociale.

Un elemento fondamentale da demolire è la visione pseudoscientifica del crimine ereditata dal positivismo ottocentesco, incarnata dalle teorie di Cesare Lombroso. L'idea del "delinquente nato", secondo cui la criminalità sarebbe una predisposizione biologica innata, non solo è stata ampiamente smentita dalla ricerca scientifica, ma ha fornito per decenni una giustificazione pseudo-scientifica alla repressione indiscriminata delle classi povere e marginalizzate. Lombroso e i suoi seguaci hanno contribuito a diffondere una visione reazionaria della criminalità, rafforzando un sistema che colpevolizza gli individui invece di analizzare le cause strutturali del crimine. Oggi sappiamo che la criminalità è il risultato di condizioni sociali, economiche e culturali, non di tratti genetici o anomalie fisiche. Continuare a basare il sistema penale su preconcetti derivati da queste teorie obsolete significa perpetuare un modello di giustizia iniquo e inefficace.

La società non può più permettersi di criminalizzare la povertà e la marginalità mentre tollera e protegge i crimini delle élite economiche e politiche. Il carcere è lo strumento con cui le classi dominanti mantengono il controllo su quelle più deboli, nascondendo dietro il velo della "sicurezza pubblica" le vere cause della devianza. Superare questo paradigma significa ripensare l'intero sistema giuridico e sociale, con l’obiettivo di costruire una comunità basata sulla solidarietà, l’equità e il rispetto della dignità umana.

L’abolizione del carcere non è solo una questione di giustizia penale, ma un passo fondamentale per la creazione di una società più giusta, inclusiva e sicura per tutti.

Note

  1. Per approfondimenti si rimanda a Anarchia e prigioni. Scritti sull'abolizione del carcere, Pëtr Kropotkin, Emma Goldman, Aleksandr Berkman, Ortica Editrice, 2014.
  2. Foucault, Michel. Surveiller et punir: Naissance de la prison. Gallimard, 1975. Trad. it. Sorvegliare e punire: Nascita della prigione, Einaudi, 1976.
  3. Agamben, Giorgio. Lo stato di eccezione. Homo sacer II, 1. Bollati Boringhieri, 2003.
  4. Davis, Angela. Are Prisons Obsolete? Seven Stories Press, 2003. Trad. it. Aboliamo le prigioni?, Minimum Fax, 2022, traduzione di Giuliana Lupi.
  5. Baratta, Alessandro. Criminologia critica e critica del diritto penale. Introduzione alla sociologia giuridico-penale. Meltemi, 2019.
  6. Gilmore, Ruth Wilson. Golden Gulag: Prisons, Surplus, Crisis, and Opposition in Globalizing California. University of California Press, 2007
  7. Christie, Nils. Crime Control as Industry: Towards Gulags, Western Style? Routledge, 1994. Trad. it. Il business penitenziario. La via occidentale al gulag, Edizioni Gruppo Abele, 2000.
  8. Garland, David. The Culture of Control: Crime and Social Order in Contemporary Society. Oxford University Press, 2001. Trad. it. La cultura del controllo: Crimine e ordine sociale nella società contemporanea, Il Mulino, 2005.
  9. García Hernández, César Cuauhtémoc. Migrating to Prison: America's Obsession with Locking Up Immigrants. The New Press, 2019.
  10. The Sentencing Project. Report on Racial Disparities in the U.S. Criminal Justice System. The Sentencing Project, 2021. Disponibile online: https://www.sentencingproject.org/reports/report-on-racial-disparities/
  11. Ministero della Giustizia. Dati sulla Recidiva in Italia. Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, 2023. Disponibile online: https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14.page
  12. OECD. Income Inequality and Crime Rates: A Comparative Analysis. OECD Publishing, 2023. Disponibile online: https://www.oecd.org/social/income-inequality-and-crime-rates

07/02/2025 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Gabriele Repaci

La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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