La necessità di prendere coscienza degli errori analitici fatti in passato evidenzia la necessità di costruire non tanto una forza antiliberista, quanto piuttosto una forza antimperialista capace di affrontare le sfide del nostro tempo. Una forza di questo tipo può assumere varie forme, ma non può fare a meno di un coerente e organizzato partito comunista che ne sia il cardine e il caposaldo.
di Alessandro Pascale
Il contesto italiano degli ultimi decenni è caratterizzato da un grande equivoco: aver confuso neoliberismo e imperialismo, fino a perderne la comprensione profonda. Se infatti un antimperialista è necessariamente anche antiliberista, non è scontato che un antiliberista sia anche antimperialista. Il che è probabilmente la principale causa delle divisioni interne alla sinistra italiana sulla gran parte dei temi principali dell'agenda politica quotidiana: dalla questione dell'Europa (da riformare o da abbattere?) al recupero del tema della sovranità nazionale (confusione tra patriottismo e nazionalismo, tra internazionalismo e cosmopolitismo), dal rapporto con il PD e il “centro-sinistra” (partito organico alla borghesia o soggetto con cui dialogare?) alle proposte economiche immediate (nazionalizzazioni e controllo operaio o solo diritti civili e tassazioni sui grandi patrimoni?).
Il discorso da fare è lungo e non si pretende di esaurirlo in questo articolo, che anzi vuole essere la proposta di approfondire la tematica attraverso la dispensa di formazione di “Introduzione teorica a Marxismo, Socialismo, Comunismo” al cui tema ha dedicato un intero capitolo (oltre ai rimandi nelle sezioni del Compendio del Capitale ivi presenti).
Qualcosina di più però si può dire: in primo luogo l'imperialismo non è solo un fenomeno politico-militare di aggressione guerrafondaia, bensì un aspetto anzitutto economico, per la cui comprensione occorre aver chiari i caratteri generali della critica marxiana dell'economia politica (teoria valore-lavoro, circolazione merci MDM-DMD', salario e plusvalore, caduta tendenziale saggio di profitto, ecc.). Pensatori della borghesia come Fieldhouse, Schumpeter o Raymond Aron hanno spiegato l'imperialismo a partire da normali considerazioni politiche “di potenza”, dal prevalere umano di pulsioni irrazionali e istintive o da una serie di cause politico-ideologiche (culturali e razziali) innate nell'uomo da millenni. Il marxismo invece muove da altre considerazioni, inserendo la questione nel solco del materialismo storico. Pur sfruttando gli studi svolti da esponenti borghesi quali Hobson e Hilferding (ma anche di un cospicuo dibattito svoltosi nell'SPD tra 1912 e 1916), Lenin, sviluppando le teorie di Marx sull'origine del capitalismo, sul suo passaggio da un regime concorrenziale a uno monopolistico, ha tradotto in una serie di cospicui e accurati dati economici la realtà della globalizzazione liberista e dell'affermazione dell'imperialismo, ossia dell'egemonia del capitale finanziario e del dominio monopolistico teso all'esportazione di capitali.
Tale processo, che pure è stato frenato dall'affermazione dell'URSS e dall'avvento della guerra fredda che per mezzo secolo ha precluso metà del pianeta agli affari del grande capitale, è oggi ancora più accentuato di cent'anni fa, trovando nuova fioritura da trenta anni a questa parte nell'intensificazione di politiche neoliberiste in Occidente e di guerre neocolonialiste nel Terzo Mondo. Chi volesse verificare i dati economici di tali affermazioni troverà nella dispensa degli estratti presi perfino dalle opere di Paolo Ferrero che lo dimostrano. La concentrazione viene confermata in ogni settore, tra cui ad esempio quello del cibo, oppure quello del settore dell'informazione (un esempio è la splendida inchiesta svolta dai compagni del Fronte della Gioventù Comunista), da cui derivano anche una serie di conseguenze culturali ben precise, riuscendo i media a condizionare e determinare un certo controllo linguistico ben preciso, teso a cancellare, distorcere, modificare o rivalutare tutta una serie di parole di uso quotidiano per logiche di potere.
Concretamente l'accentuazione dell'imperialismo significa un peggioramento netto delle condizioni di vita della stragrande maggioranza della popolazione. Un impoverimento relativo per le classi lavoratrici dei paesi occidentali, assoluto invece per le masse di sfruttati che muoiono letteralmente di fame nel resto del mondo. L'accentuazione della disuguaglianza è una conseguenza naturale dell'imperialismo, e non deve stupire quindi che 62 super-miliardari abbiano la stessa ricchezza di 3,7 miliardi di persone, né che in Italia dopo anni di crisi le 10 famiglie più ricche si siano arricchite al punto da avere la stessa ricchezza (circa 100 miliardi di euro) detenuta dai 20 milioni di italiani più poveri.
Si specula su qualsiasi cosa: sul cibo, sulle armi, sulle medicine, sulla vita stessa di miliardi di persone, finanziando guerre e terrorismi che generano a loro volta fiumi di immigrazione (con tutto quel che ciò comporta in termini di concorrenza lavorativa sul piano interno). Questo stato di cose causa inevitabilmente corruzione e degrado morale, così come i suoi ceti politici degradati. Le prediche etiche e i discorsi opportunistici servono a poco se non si mettono in discussione i cardini di questo sistema, che poggia le sue basi sulla struttura reazionaria dell'Unione Europea, nata in funzione anti-sovietica e rimaneggiata in chiave anti-popolare durante gli anni del crollo del muro di Berlino. Né deve stupire infine il ritorno in grande stile dei nazifascismi, siano essi già al potere o in ascesa (Ucraina, Ungheria, Francia, Grecia), giacché, lungi dall'essere superate le categorie di destra e sinistra, i fascismi sono stati storicamente lo strumento più bieco usato dal potere finanziario, di conseguenza è inconcepibile pensare che la proposta politica oggi possa essere “l'unità degli antimperialisti, siano essi di destra o di sinistra”, giacché di antimperialisti di destra ce ne sono solo a livello nominale ma non sostanziale. Questa differenza tra piano linguistico e piano ontologico, un filosofo come Fusaro, propugnatore di tali pratiche rossobrune, dovrebbe conoscerla...
Altro discorso, seppur strettamente intrecciato, è quello dell'incapacità di riuscire a districarsi sulle questioni internazionali, vero e proprio buco nero non solo per la gran parte dell'opinione pubblica italiana, ma anche per buona parte dei militanti in organizzazioni sindacali e politiche. Non prevale quasi mai l'analisi del reale e il realismo politico (che non significa moderatismo!), bensì le tifoserie e i pasdaran, arrivando alla conclusione che o si introiettano le categorie imperialiste che vedono dittatori solo nei paesi non alleati degli USA, oppure si identificano paesi imperialisti ovunque, dimenticando che nell'analisi politica di un certo Paese, in determinate condizioni, occorre sempre valutare la realtà su vari livelli (almeno tre principali: situazioni di genere/etnia/religione; rapporti Capitale-Lavoro; rapporti tra stati sovrani), sforzandosi di recuperare un livello di complessità possibile solo attraverso una riscoperta della metodologia del materialismo dialettico (strumento purtroppo misconosciuto).
La conclusione di questo discorso è solo una: la necessità di prendere coscienza degli errori analitici fatti in passato e di dover impegnarsi a costruire non tanto una forza antiliberista, quanto piuttosto una forza antimperialista capace di affrontare le sfide del nostro tempo. Una forza di questo tipo può assumere varie forme, ma non può fare a meno di un coerente ed organizzato partito comunista che ne sia il cardine e il caposaldo.