Se n’è parlato, non se n’è parlato. Abbastanza, non abbastanza. Centrando il punto, facendo un minestrone di argomenti. Il caso di Saman Abbas si è affacciato tra le notizie di cronaca nera, ha alimentato a singhiozzi e per una manciata di giorni le prime pagine, ha lasciato l’amaro in bocca a ognuno/a per motivi – forse – diversi ed è rapidamente sceso dal palcoscenico lasciando spazio solo all’assordante silenzio che avvolge le campagne di Novellara, il paese emiliano dove viveva e dove presumibilmente è stato sotterrato il suo corpo senza vita.
Lei è – era, chissà – una diciottenne pakistana che aveva un fidanzato che non era quello che i suoi familiari avevano pianificato che sposasse e che, pertanto, si sospetta essere stata uccisa dai familiari stessi per essersi opposta all’imposizione di un matrimonio non voluto. Aveva tentato di scappare di casa ma non poteva farlo senza tornare in possesso dei suoi documenti, custoditi con la forza dal padre; aveva denunciato alle autorità la violenza che stava subendo ma evidentemente esiste una soglia di allerta, molto alta, sotto alla quale nessuna tutela preliminare scatta in aiuto alle donne, a giudicare da quante “morti annunciate” si è costretti a contare ogni anno.
Comunque, al di là dei dettagli della vicenda inerenti la testimonianza del fratellino, il ruolo dello zio e dei cugini nell’esecuzione di Saman, la fuga dei familiari in Pakistan, i depistaggi e altre “succose novità” che, in casi simili, la stampa nostrana aspetta con la bava alla bocca per titolare le peggio cose, il fatto è che ancora una volta una donna è trucidata perché non libera di autodeterminarsi. Esattamente come accade alla donna di qualsiasi nazionalità o religione che pianta il marito violento, lo denuncia milioni di volte senza essere creduta o ascoltata davvero, e poi viene casualmente uccisa un bel giorno dall’ex che non poteva farsi una ragione di essere stato lasciato. O esattamente come la ragazza di qualsiasi nazionalità o religione indotta al suicidio perché presa di mira per qualche caratteristica fisica non conforme al canone di bellezza attuale, o perché vittima di revenge porn ecc. Insomma, le casistiche sono purtroppo numerose e, pur avendo ogni caso le proprie assolute peculiarità, resta in tutte il lugubre leitmotif di fondo ossia che una donna muore di violenza sessista e patriarcale perpetrata da persone fisiche e dalle istituzioni complici e/o sorde e assenti.
Nonostante ciò, però – anzi, proprio a dimostrazione di ciò, in un certo senso – sul caso di Saman o si è taciuto o si è strumentalizzata oltremodo la vicenda per fare deteriore propaganda politica. Dietro a entrambi i riprovevoli atteggiamenti c’è l’equivoco di fondo (che sia voluto o non voluto, poco cambia) di identificare questo fatto fondamentale, ossia l’uccisione di una donna per violenza patriarcale, con le circostanze specifiche del caso di specie, ovvero l’appartenenza religiosa e culturale della ragazza, giungendo alla completa sostituzione del colpevole dell’omicidio che non è più, come sarebbe evidente, un qualcuno completamente permeato di ideologia sessista e patriarcale all’interno di un contesto sociale in cui tale ideologia è ancora dominante, ma è una entità inconsistente e senza volto specifico, ossia la religione e la cultura islamica in questo caso. In tal modo, quindi, si crea un bersaglio più comodo, un capro espiatorio che distolga dall’autoanalisi e uno specifico target di persone viene trasformato nei “responsabili’ della barbarie, l’intera società in cui viviamo è, infine, redenta dalla colpevolezza intrinseca di tali “barbari” e viene così celebrata ancora una volta la presunta superiorità del mondo occidentale con la sua sedicente libertà assoluta tanto agognata dal resto del mondo. E allora ecco i Sallusti che dicono che “se Saman è morta, è morta di Isalm”, le Santanché che si spacciano per femministe perché, nel silenzio della sinistra, provvedono loro a puntare il dito contro l’Islam, o i Renzi che autonomamente desumono che Saman è stata uccisa presumibilmente dallo zio perchè voleva “vivere all’occidentale”, dando quindi per assodato che la pratica del matrimonio forzato sia un destino ineluttabile, qualche cosa di endemico alle società e alle religioni non occidentali (nonché dando per scontata l’assenza, in Occidente, di pratiche sociali o familiari ancestrali e altrettanto opprimenti e violente). Nulla di più deprimente? In realtà si scende ancora più di livello perché, quel che è peggio, la sedicente “sinistra” si fa pure bacchettare su questo terreno dagli avversari politici di destra, ne accetta le argomentazioni pecorare e ne introietta il punto di vista trincerandosi nel silenzio per non sapere districare la contraddizione che credono esistere tra la sorte di Saman e le politiche di accoglienza portate avanti sull’immigrazione, in opposizione alle destre. In altri termini, certa a-sinistra si sente tragicamente colta in fallo perché, al fondo, condivide la lettura che vuole l’Islam come il responsabile di queste tragedie.
Con ogni evidenza tutto ciò non fa altro che aggiungere drammatiche strumentalizzazioni attorno a un fatto tragico, misconoscendone per giunta gli elementi costitutivi essenziali.
Saman Abbas è stata vittima, viva o morta che sia, di violenza patriarcale e sessista. Cosa c’entra l’Islam con questo? Tralasciando la follia di stampo fascista e xenofoba sopra descritta e stendendo un velo pietoso sulla subalternità a queste posizioni ottuse di una sinistra in cerca di autore, a mio avviso sbaglia purtroppo anche chi, pur volendo giustamente ribadire la centralità della violenza di genere sostenendo quindi, con ragione, che la responsabilità del femminicidio non sia dell’Islam, finisce però con l’esagerare all’estremo opposto, ossia addirittura finisce per difendere a spron battuto questo universo culturale tout court. È vero, dall’Unione delle Comunità islamiche in Italia è arrivata la fatwa che condanna i matrimoni forzati quali pratiche tribali e, infatti, il problema non è la “religione” in sé e cosa prevede la lettera della sacra scrittura, ma gli elementi culturali orbitanti attorno alla religione – quale che sia: quegli elementi che annacquano il valore eminentemente spirituale di un credo, si assommano come pesanti glosse alle pratiche religiose e spesso determinano importanti aspetti del funzionamento di una società intera e delle sue regole interne, quell’ignoranza che ritiene ancora valide e cogenti alcune ancestrali tradizioni (come i matrimoni forzati o il delitto d’onore) con buona pace delle lotte di emancipazione consumate in epoca contemporanea: ecco nascere attorno al “bisogno” religioso, alla potenza consolatoria di una fede, i costrutti culturali artefatti che vogliono, per esempio, la donna velata, pura, sottomessa, come lo fu la Madonna tanto quanto le donne musulmane.
Dunque, sebbene sia vero che fatti dovuti all’ignoranza e non al dettame religioso in sé – come appunto la pratica di combinare i matrimoni o la pratica di farsi vendetta da sé dinanzi all’onore leso e via discorrendo – non possono essere strumentalizzati per fare propaganda politica anti-islamica come in questo caso (peraltro omettendo colpevolmente la natura sessista e patriarcale del delitto e il fatto che anche la società occidentale ne sia completamente permeata), è purtroppo vero anche che vi sono ugualmente un milione di ragioni per inserire anche questa istituzione religiosa sul banco degli imputati nel processo contro l’emancipazione femminile e umana in generale. E dico “anche” perché, ovviamente, al medesimo banco vanno ascritte tutte le altre culture religiose e in primis quella cristiana, altrettanto opprimente e regressiva.
Non a caso faccio riferimento al concetto di cultura quale insieme delle cognizioni e istituzioni sociali, politiche ed economiche, alle attività artistiche e scientifiche così come le manifestazioni spirituali e religiose che caratterizzano la vita di una determinata società in un dato momento storico. La cultura così intensa ha una fisionomia che è caratterizzata storicamente e, anche se esistono varie culture, non bisogna cedere alle sirene del relativismo culturale secondo il quale ogni cosa, in ultima istanza, ha la medesima cittadinanza e legittimazione, non importa quanto appia “tribale” e in contraddizione con le conquiste e i progressi dell’umanità che tenta e ha tentato di evolversi sul piano dei diritti umani, civili, sociali.
La cultura si crea laddove le necessità del mondo fisico e naturale creino “spazi di manovra”, tale per cui esistono fatti sufficientemente incontrovertibili e naturali – per esempio la capacità della donna di concepire, gestare ed essere madre – che dunque non attengono alla cultura e invece fatti che sono culturali come, nell’esempio della donna, quello di considerarla destinata unicamente alla funzione di sposa e madre, considerarla un oggetto da possedere e/o uno strumento del potere maschile e patriarcale. Bene, sotto questo versante le varie culture religiose tendono ad assumere e a conservare caratteri reazionari che vanno condannati, per quanto una fatwa possa essere intervenuta per condannare i matrimoni forzati o una normativa possa avere eliminato dall’ambito del lecito il delitto d’onore.
Bisogna quindi fare attenzione sia a non mescolare i piani di analisi sia a non creare compartimenti stagni inesistenti e incriticabili: Saman è stata vittima dell’ignoranza culturale dei suoi familiari che le volevano imporre un matrimonio non voluto, è stata vittima altresì dell’ignoranza culturale di una società, quella italiana e occidentale in cui viveva, che è abituata a misconoscere la violenza di genere perché semplicemente l’ha normalizzata e integrata all’interno di un sistema che mercifica la donna e la relega di fatto ad angelo del focolare all’interno della famiglia, tanto più se si tratta di un soggetto migrante, quindi, in quanto tale, triplamente resa subalterna nella battaglia tra oppressi creata ad arte da un capitalismo putrescente e affamato di schiavi da cui estrarre profitto. È stata, infine, uccisa dalla violenza sessista e patriarcale, elemento trasversale a numerosissimi universi culturali. La religione, in sé, in questa vicenda assume rilievo nella sola misura in cui esorta i subalterni a ricercare la loro felicità e soddisfazione nel presunto aldilà, anziché crearne le condizioni nel mondo concreto e tangibile, motivo per cui gli osservanti creano complessi apparati psuedonormativi e comportamentali da attuare per guadagnarsi la benevolenza dell’idolo di turno e i benefici riservati a chi si conforma alla presunta volontà del dio.
Si poteva evitare di accostare il delitto di Saman, ascrivibile alla visione patriarcale del mondo, alle problematiche esistenti nell’universo culturale legato all’Islam? Senz’altro, anzi, sarebbe stato addirittura doveroso onde evitare le strumentalizzazioni vomitevoli cui assistiamo. Detto questo, per contrastare queste strumentalizzazioni, bisogna giungere a sposare le conclusioni del relativismo culturale, corrente di pensiero che, limitando l’esperienza alla mera osservazione dei fenomeni giudicati tutti indistintamente validi, esorta a rinunciare alla elaborazione e alla conquista di una superiore forma di organizzazione valida per l’emancipazione di tutti gli uomini e le donne? No, senz’altro, dal mio punto di vista.