I rapporti fra natura, società e cultura, e la concezione naturalistica dell’uomo

La vita sulla terra evolve in forma dialettica. Homo sapiens è anch’esso il risultato di un lungo processo evolutivo, fisico e mentale, e le società umane interagiscono e co-evolvono con la natura nel suo complesso. Con la progressiva evoluzione e il definitivo consolidamento della coscienza estesa negli ominidi, per la prima volta la natura, sub specie hominis, prende coscienza di sé stessa.


I rapporti fra natura, società e cultura, e la concezione naturalistica dell’uomo

I rapporti fra natura, società e cultura

 

Il dibattito sui rapporti fra natura, società e cultura risale alla seconda metà dell’Ottocento, attraversa tutto il XX secolo e continua tuttora. Nel suo “Dialettica della natura” [1], elaborato tra il 1873 e il 1882, ma pubblicato solamente postumo nel 1925, Engels, richiamandosi anche al concetto marxiano di “universale metabolismo della natura” [2], sostiene che è il lavoro umano, capace di modificare significativamente la natura, a costituire quella sorta di trait d’union che collega dialetticamente la società e la cultura con la natura stessa [3]. Più articolata appare al riguardo la posizione di György Lukács che nel suo saggio, apparso in quegli stessi anni, “Storia e coscienza di classe” [4], sosteneva che il metodo dialettico doveva limitarsi ad analizzare la storia e le società umane, in quanto gli aspetti determinanti di tale metodo, cioè l’interazione fra soggetto e oggetto, l’unità di teoria e prassi, le trasformazioni storiche che stanno alla radice dell’evoluzione del pensiero ecc., erano assenti dalla nostra concezione della natura. Lo stesso Lukács però modificò sensibilmente la sua posizione originaria negli anni successivi, rilevando che “dato che il metabolismo fra società e natura è anch’esso un processo sociale, è sempre possibile che le concezioni da esso derivanti retroagiscano sul terreno della lotta di classe” e “dato che la vita umana è fondata su un rapporto metabolico con la natura, è evidente che certe verità che noi acquisiamo nel processo di realizzazione di tale metabolismo assumano validità generale” [5]. Per il secondo Lukács, dunque, la concezione marxiana di lavoro e produzione come relazione metabolica fra umanità e natura esterna è la chiave per la comprensione dialettica del mondo naturale, anche perché gli esseri umani possono comprendere dialetticamente la natura solo nella misura in cui essi stessi, organicamente, ne fanno parte. 

Il dibattito si arricchisce negli anni fra le due guerre e nel secondo dopoguerra, anche grazie alle nuove scoperte nel campo della biologia evoluzionistica (la genetica delle popolazioni, la struttura e le funzioni degli acidi nucleici e, più recentemente, l’epigenetica, la paleoantropologia e le neuroscienze). L’interpenetrazione di natura e società/cultura, basata sul materialismo dialettico, costituisce il filo conduttore delle ricerche di scienziati come Oparin [6] in Unione Sovietica e quelli della scuola anglo-americana nel periodo fra le due guerre. Quest’ultima, nel secondo dopoguerra, prende ulteriore vigore con gli studi di Steven J Gould [7] e dei suoi collaboratori, due dei quali, Richard Levins e Richard Lewontin, pubblicano, nel 1985, “The dialectical biologist (il biologo dialettico)” [8], un testo fondamentale che fa il punto sullo stato dell’arte delle scienze naturali dell’epoca e del loro rapporto con le scienze sociali. Alcuni degli spunti di riflessione contenuti nel loro volume hanno contribuito a gettare nuova luce sulle scoperte scientifiche successive collocandole in una prospettiva dialettico-materialistica. 

Nelle parole di Levins e Lewontin, “Secondo Marx, la storia umana rientra nella storia naturale, con ciò intendendo che la specie umana, al pari degli altri animali, emerge interagendo con la natura e che la storia dell’umanità va intesa come i modi in cui essa e le relazioni sociali che si sviluppano al suo interno, interagendo con la natura, realizzano produzione e riproduzione. Engels dal canto suo (1880) sviluppa ulteriormente questo tema nel saggio ‘Il ruolo del lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia’ … [dove] coglie il tratto essenziale dell’evoluzione umana, cioè il reciproco condizionamento fra l’agire dell’uomo e il suo evolversi. L’’ambiente’ non è visto come una forza selettiva passiva, esterna all’organismo, ma piuttosto come il prodotto dell’attività umana, essendo la caratteristica specifica della nicchia ecologica umana il lavoro produttivo e la cooperazione, a loro volta interagenti con lo sviluppo di mano, laringe e cervello” [9]. E ancora “La visione semplicistica secondo la quale l’ambiente esterno si modifica in base a sue proprie dinamiche interne cui gli organismi [passivamente] sono esposti non tiene conto degli effetti che gli organismi esercitano sull’ambiente stesso. L’attività di tutte le forme viventi trasforma il mondo esterno in modi che favoriscono ovvero inibiscono la vita degli organismi stessi. La costruzione di nidi, la marcatura di sentieri e la delimitazione di territori, la creazione di interi habitat come nel caso dei castori costruttori di dighe, tutti aumentano le possibilità di sopravvivenza [e riproduzione] dei loro creatori... In tal modo, l’ambiente è un prodotto dell’organismo tanto quanto l’organismo è un prodotto dell’ambiente” [10].

Si potrebbe aggiungere a tale elenco d’interazioni dialettico-evolutive fra specie viventi e ambiente la produzione dell’ossigeno da parte dei vegetali che, modificando radicalmente l’ambiente atmosferico, determinò la pressoché totale scomparsa dei batteri ossigeno-sensibili selezionando invece organismi, dapprima ossigeno-resistenti e poi ossigeno-dipendenti come noi. Un analogo reciproco condizionamento è quello che si svolge fra i coralli, la formazione delle barriere coralline e le ricadute di queste ultime, non solo sull’evoluzione dei coralli stessi ma su quella d’infinite altre specie, acquatiche e non solo. Quanto all’influsso sull’evoluzione degli ominidi, oltre che di tutti i viventi in generale, “retro-esercitato” dalle modifiche ambientali apportate in misura sempre maggiore dagli uomini stessi, la presente fase geologica, il capitalocene, ne rappresenta l’esempio più eclatante.

Negli stessi anni in cui Steven J Gould e i suoi collaboratori illustrano e sviluppano il pensiero dialettico-evoluzionista, in Italia il rapporto dialettico fra natura, società e cultura è oggetto degli studi di Sebastiano Timpanaro che, nel suo saggio “Sul materialismo” parla di “storicità della natura”: “il problema non è più di contrapporre la storicità della società umana all’astoricità della natura, ma di trovare la saldatura e insieme la differenziazione delle due storicità” [11], che ovviamente si svolgono lungo archi temporali molto diversi. E, più avanti, “la polemica storicista contro ‘l’uomo in generale’, giustissima finché nega che siano proprie dell’umanità in generale certe caratteristiche storico-sociali come la proprietà privata o la divisione in classi, diventa errata quando trascura il fatto che l’uomo come essere biologico, dotato di un certa (non illimitata) adattabilità all’ambiente esterno, dotato di certi impulsi all’attività e al raggiungimento della felicità, soggetto a vecchiezza e morte, non è una costruzione astratta e non è nemmeno un nostro antenato preistorico, una specie di pitecantropo ormai superato dall’uomo storico-sociale, ma esiste tuttora in ciascuno di noi” [12].

 

La concezione naturalistica dell’uomo

Ciò che accomuna la nostra specie con le altre dotate nel corso dell’evoluzione di un sistema neuro-ormonale sono le proprietà emergenti di tale sistema che consistono nel movimento, nella percezione sensoriale, nei riflessi, negli istinti e nei livelli di coscienza più elementari. Il sistema neuro-ormonale, infatti, nasce e si sviluppa inizialmente in funzione del mantenimento in vita dell’organismo pluricellulare d’appartenenza, presupposto alla sua crescita e alla sua possibile riproduzione. Il movimento, che nei pluricellulari permette lo spostamento del corpo nello spazio, è indispensabile sia alla ricerca del cibo necessario alla crescita, sia alla realizzazione del contatto sessuale propedeutico alla riproduzione, e si afferma di pari passo con la percezione sensoriale. 

Quanto a quest’ultima, in un succedersi di fini aggiustamenti evolutivi si sono sviluppati quelli che chiamiamo i sensi, una sorta di protesi del nostro sistema nervoso, ovvero commutatori naturali in grado di tradurre le onde elettromagnetiche potenzialmente percepibili come luminose in luci e colori, e le vibrazioni ondulatorie potenzialmente percepibili come acustiche, in suoni e rumori, insomma in sensazioni cui attribuiamo nell’ambito di ciascuna specie, a seconda delle sue esigenze, qualità che esse di per sé non possiedono. Anche dal punto di vista quantitativo, però, la nostra mente appare condizionata, anzi, in termini evolutivi, “ritagliata” sulle dimensioni di un “mesocosmo” commisurato ai nostri corpi, e non su quelle del micro- o del macrocosmo [13]. Insomma, la mente umana, sia nella sua conformazione che nel suo modo di percepire ed elaborare, ovvero ideare, è vincolata al suo essere strumento biologico e anche il ragionamento astratto, il linguaggio simbolico e la logica formale, quindi, sono profondamente radicati nella nostra natura biologica, risultante dall’evoluzione. 

Le tonalità edonistiche [14] invece, proprie del “cervello emotivo”, sono le sensazioni generate da una complessa combinazione di cellule nervose secernenti neurotrasmettitori quali dopamina, serotonina ecc. e neuro-ormoni quali endorfine, ossitocina ecc. Tutte queste molecole, se rilasciate in séguito a stimolazione da parte di specifiche percezioni e situazioni, vanno a impattare sui recettori delle cellule bersaglio, inducendo i comportamenti percepiti come più adatti in quelle determinate circostanze, ispirati sostanzialmente ad un programma epicureo: evitare il dolore e ricercare il piacere. 

Secondo Antonio Damasio [15], il cervello dal punto di vista evoluzionistico non sarebbe che uno strumento man mano sempre più perfezionato, funzionale al mantenimento in vita ed alla potenziale capacità riproduttiva del corpo d’appartenenza. Attraverso i sensori propriocettivi diffusi a tutto l’organismo, esso sottopone ad un incessante monitoraggio tutti i parametri vitali di organi, apparati e sistemi operanti al suo interno (pH, temperatura, imbibizione dei tessuti, glicemia, concentrazioni di calcio, potassio, ecc.), traducendone i vari livelli in sensazioni che vanno, passando attraverso tutte le gradazioni intermedie, dall’estremo benessere al più profondo malessere quanto più tali livelli si collocano, rispettivamente, all’interno di quelli che garantiscono l’integrità del corpo o, viceversa, si avvicinano a quelli incompatibili con la vita. Tutto ciò va a impattare sul centro della gratificazione, situato nel sistema limbico, una delle parti più antiche del cervello. È il cervello “emotivo”, dunque, che svolge la funzione essenziale di orientare il nostro comportamento attraverso ciò che chiamiamo gli istinti, legati primariamente alla sopravvivenza dei nostri organismi corporei. 

Gli istinti a loro volta possono definirsi come associazioni geneticamente trasmissibili di tonalità edonistiche positive o negative (piacere, dolore e tutte le gradazioni intermedie) con azioni e percezioni che nelle generazioni passate si sono rivelate, rispettivamente, utili o dannose alla sopravvivenza e quindi generatrici di un maggiore o minore tasso di riproduzione. 

Rientra nei tratti istintivi che condividiamo con gli altri animali anche la tendenza all’aggregazione di singoli individui in raggruppamenti più o meno vasti, a partire dalle complesse organizzazioni degli insetti sociali, alle varie comunità dei vertebrati, fino ai branchi dei mammiferi e ai clan parentali e tribali di primati ed ominidi [16]. 

A differenza di tutti gli altri mammiferi terrestri però, gli ominidi sin dal loro distacco dagli altri primati si distinsero per la stazione eretta che, a cascata, diede origine ad una serie di caratteristiche, tra cui in primo luogo l’autocoscienza e la cultura, che non avrebbero potuto svilupparsi nei quadrupedi e che, nelle specie umane e particolarmente in Homo sapiens permisero invece, interagendo con gli istinti preesistenti, di modularli orientandoli in senso “razionale”. 

Il primum movens della biforcazione evolutiva fra quadrupedi e bipedi fu il cambiamento climatico. La stazione eretta si impose grazie ai vantaggi decisivi che essa offriva alle specie di ominidi che si erano stabilite nell’ambiente arido della savana creatosi ad est della Rift Valley, molto diverso da quello umido delle foreste situate più a ovest; tra questi vantaggi, la possibilità di un più agevole avvistamento di prede e predatori volgendo il capo in tutte le direzioni, ma soprattutto l’opportunità di svincolare dalla locomozione gli arti anteriori trasformandoli in fini strumenti di mobilità, anche attraverso l’opposizione del pollice alle altre dita. Specularmente, gli arti posteriori e in particolare il piede furono trasformati in solidi fattori di stabilità. La libertà delle mani costituì il presupposto decisivo per la fabbricazione e l’uso degli strumenti, che al tempo stesso innescò e favorì la parallela tendenza all’ingrandimento della massa encefalica e, in primo luogo, della corteccia cerebrale sede delle funzioni più importanti per il ragionamento logico, oltre che per lo sviluppo dell’autocoscienza individuale.  Un’altra conseguenza, sia pur indiretta, del bipedismo fu la neotenia. Nei mammiferi quadrupedi, gli organi e i visceri “pendono” mediante apposite fasce e legamenti dalla colonna vertebrale e tale situazione si mantenne anche nel graduale passaggio evolutivo alla stazione eretta. Il conseguente progressivo restringimento delle ossa del bacino fu premiato dalla selezione perché evitava il frequente prolasso degli stessi organi e soprattutto dell’utero e del prodotto del concepimento attraverso il pavimento pelvico. In parallelo a questa tendenza, ma in rotta di collisione con essa, si andava però irresistibilmente affermando l’aumento del volume cerebrale medio delle specie ominidi. Si arrivò così al compromesso evolutivo tra due pressioni selettive egualmente potenti, ma in conflitto tra loro, di un feto che alla nascita presentasse un cranio della massima ampiezza possibile ancora in grado di passare attraverso un canale del parto dal diametro necessariamente ridotto. Col risultato che negli altri mammiferi il parto, oltre a essere molto meno doloroso, permette la nascita di un cucciolo ormai maturo, in grado cioè di svolgere tutte le funzioni di un adulto, mentre nell’uomo sono presenti, in uno spazio cerebrale forzatamente ridotto, solo le funzioni sin dall’inizio indispensabili per la sopravvivenza, mentre tutte le altre (camminare, parlare, ragionare ecc.) sono dilazionate di mesi e di anni. Curiosamente, però, questo stesso svantaggio (derivante da due vantaggi in contrasto fra loro) si trasformò a sua volta in un beneficio per il genere Homo e in particolare per H. sapiens. La nostra specie, infatti, è l’unica a prolungare di vari anni lo stadio infantile, un fenomeno chiamato neotenia che, permettendo nel corso del tempo l’acquisizione nella neocorteccia encefalica (a ciò nel frattempo predisposta) di una serie di esperienze e di conoscenze, rappresentò un fattore decisivo per il successo e la diffusione sul pianeta degli esseri umani. 

 

Mente e coscienza

 

Il combinato disposto di bipedismo, manualità, incremento del volume cerebrale e neotenia, co-evolventi ed interagenti fra loro, determinò il graduale emergere nell’uomo, unico fra tutte le specie viventi, della coscienza estesa autobiografica, sviluppatasi a partire dagli stadi di coscienza precedenti. A partire dalla biforcazione fra gli ominidi e gli altri primati, quindi, si assiste allo sviluppo di una mente “razionale” che però non esclude, anzi convive e si integra con quella emotivo-istintiva che condividiamo con tutti gli altri animali dotati di sistema neuro-ormonale. 

Pertanto, come sostiene anche Timpanaro [17], la stessa coscienza non è una proprietà apparsa ex abrupto nel passaggio dai proto-ominidi a Homo sapiens, ma il prodotto di un graduale processo evolutivo. Secondo l’espressione di Damasio, “la coscienza nasce da ciò che non ha coscienza” [18] e, del resto, il cervello nasce e si perfeziona nel corso dell’evoluzione come strumento di sopravvivenza del corpo d’appartenenza e non viceversa, seguendo la logica per cui è primariamente il corpo a proteggere l’integrità dei geni che costruiscono l’organismo attorno a sé stessi - almeno sino al momento della riproduzione. 

Da cui deriva che le società umane, “innervate” dalla coscienza, possono anch’esse essere considerate frutto dell’evoluzione di tutti questi fattori interdipendenti e reciprocamente condizionanti. 

Una visione dialettica che voglia essere genuinamente materialista e non voglia cadere nell’idealismo deve considerare le nostre radici biologiche nella loro dinamicità evolutiva. Negli ultimi decenni, sempre più è andato affermandosi infatti il concetto della flessibilità genetica che, in contrasto con la visione meccanicistico-riduzionista inizialmente prevalente, considera i geni dialetticamente legati all’ambiente, anzi inconcepibili se non in rapporto ad esso, “sottili strumenti plasmabili dall’esperienza del mondo circostante, disegnati dalla selezione ancestrale” [19]. In conseguenza di ciò, anche la “plasticità cerebrale” aumenta progressivamente, negli ominidi e principalmente in H. sapiens, di pari passo con la complessità dei rapporti sociali e con le loro capacità d’intervento nella trasformazione della società e della natura stessa. Questo stesso potenziale di plasmabilità, gradualmente sviluppato negli stadi evolutivi precedenti, è il motivo per cui nel corso della storia la mente umana, sia individuale che collettiva, risulta così fortemente condizionata dalla realtà culturale, sociale e anche naturale che essa stessa dialetticamente contribuisce a forgiare. Ne sono tipici esempi la produzione materiale che si trasforma in produzione culturale e viceversa, e l’ideologia dominante, proiezione ideologica della classe dominante nelle società di classe, a loro volta risultanti dai sottostanti rapporti di produzione e di divisione del lavoro e delle risorse.

In biologia non esistono categorie fisse e immutabili, la quantità si trasforma in qualità e viceversa, l’organico nasce dall’inorganico, tutto, a cominciare dal DNA, è sottoposto a continue mutazioni e rimescolamenti. La nostra mente invece, essa stessa frutto di evoluzione, tende a classificare anche la realtà biologica, e non solo gli oggetti inanimati (che a differenza della prima, non nascono, non crescono, non muoiono e non evolvono), in categorie fisse e immutabili, sovrapponendo arbitrariamente i propri schemi mentali ad una realtà che invece tende a sfuggire alle definizioni rigide perché mutevole e in continua evoluzione. Ma la rigidità dei confini è nella nostra mente, non nelle cose in sé. Una cosa, ad esempio, è il sesso cromosomico, altra cosa la sessualità, che è in continuo sviluppo e assume individualmente le sfumature più svariate, anche nel corso dell’esistenza individuale. Lo stesso concetto di specie, grazie alle più recenti scoperte paleoantropologiche, è stato relativizzato: la separazione fra le diverse specie non è netta, aumenta gradualmente nello spazio (ricordiamo le forme di passaggio delle “specie ad anello”) [20], a seconda della distanza temporale che le separa dall’antenato comune. Ad esempio, dopo ben 500000 anni (e 25000 generazioni) di separazione, per un breve periodo ci fu ancora la possibilità di incroci fecondi fra H. sapiens e H. neanderthalensis [21]. Lo stesso discorso vale, come abbiamo visto, per la coscienza, che si è sviluppata gradualmente dalle forme più arcaiche a quelle più recenti, andando peraltro incontro a periodi di accelerazione come quello che ebbe luogo attorno a 70-80000 anni fa, prima dell’ultima ondata migratoria di H.sapiens fuori dall’Africa, contraddistinto dalla nascita e dallo sviluppo del linguaggio verbale, potentissimo generatore, a sua volta, di un affinamento delle capacità intellettive della specie, i cui correlati neurali sono rilevabili nella neo-corteccia.

Sappiamo per certo che nell’evoluzione ci sono risultati, ma non sappiamo se ci sono scopi: siamo frutto di un’evoluzione corporea e mentale che intuitivamente ci fa ritenere che tutto abbia un senso e tutto debba avere uno scopo. Il che è da ascriversi alla coloritura emotiva di cui istintivamente rivestiamo ogni cosa con cui noi, e dunque la nostra mente, veniamo in contatto. La vita stessa però è un risultato di selezione, che dal nostro cervello evoluto viene invece implicitamente percepita come scopo. La stessa nascita, comunemente considerata scopo dell’incontro sessuale, in realtà è un risultato dell’istinto all’accoppiamento. L’escatologia religiosa si basa su un finalismo di questo tipo [22, 23]. È anche il motivo per cui alla mente umana l’evoluzionismo, che si basa sui risultati, appare controintuitivo, a differenza del creazionismo, fondato sugli scopi. Infatti, come abbiamo visto, siamo costruiti dall’evoluzione muniti di un sofisticato sistema di gratificazione che condividiamo con gli altri animali e che ci fa percepire sensazioni positive o negative, veri e propri “marcatori” inconsci dell’integrità dell’organismo corporeo e quindi surrogati di sopravvivenza e riproduzione. L’estetica e la stessa etica non avrebbero senso se fossimo macchine esclusivamente razionali, incapaci di vivere le emozioni che invece, come abbiamo visto, sono connaturate al nostro stesso essere biologico. Ecco perché, implicitamente, il nostro parametro di riferimento etico è il benessere (che si traduce in felicità, risultante dal pieno soddisfacimento dei bisogni), in quanto segnale indicativo dell’equilibrio omeostatico presupposto essenziale della sopravvivenza stessa. 

In tale prospettiva, il capitalismo che, nell’attuale epoca del capitalocene caratterizzata dalla depredazione sistematica di forza lavoro e risorse naturali, provoca sofferenza nel singolo e rischio di estinzione per la specie, si rivela proprio dal punto di vista biologico, come un sistema di cui sempre più urgente è il superamento. Si tratta dunque di trovare in noi stessi, per come ci siamo strutturalmente evoluti come individui e come specie, le motivazioni per combattere l’attuale fase distruttiva della globalizzazione capitalistica.

 

Note

 

[1]  Engels, F.: Dialectics of Nature. International Publishers, New York (1940).  Già nel suo “Anti-Dühring” Engels, in nuce, aveva esposto gli stessi concetti, consistenti principalmente nella trasformazione della quantità in qualità, nella compenetrazione degli opposti e nell’hegeliana ’negazione della negazione’ di tesi-antitesi-sintesi

[2]  Marx, K.: Capital. Penguin, London (1981) Vol.3, p. 949

[3]  Marx fonda il suo concetto di “frattura metabolica” fra società e natura, come conseguenza dell’accumulazione capitalistica, su una visione materialistica dei rapporti fra natura e società basata sulle conoscenze scientifiche di allora, in particolare nel campo del progressivo depauperamento dei terreni agricoli dovuto all’agricoltura intensiva e all’inurbamento, in larga misura causati dall’affermazione del modo di produzione capitalistico

[4]  Lukács, G., History and Class Consciousness. Merlin Press, London (1968), p.24

[5]  Lukács, G., Conversations with Lukács. MIT Press, Cambridge MA (1974), p.43

[6]  Alexandr Ivanovič Oparin (1894-1980), biochimico russo pioniere degli studi sulla concezione materialista dialettica dell’origine della vita organica dal substrato inorganico 

[7]  Stephen J Gould (1941-2002), filosofo della scienza e divulgatore scientifico statunitense, promosse la visione dialettico-emergentista dell’evoluzione contrapponendola a quella meccanicistico-riduzionista (ad es. la sociobiologia)

[8]  Levins R. e Lewontin R., The Dialectical Biologist. Aakar Books, Delhi (2009)

[9]  Ibid., p.253

[10] Ibid., p.69

[11] Timpanaro S., Sul materialismo. Unicopli, Milano (1997), p.14

[12] Ibid., p. 18

[13] Boncinelli E. e Ereditato A., Il cosmo della mente. Il Saggiatore, Milano (2018), p.25

[14] Johnston V., Why We Feel. The Science of Human Emotions. Perseus Books, Reading (1999), pp.61-62

[15] Damasio A., The Strange Order of Things. Random House Vintage Books, New York (2019) pp. 117-142

[16] Crocchiolo P., Social media: surrogate tribes? In: The Logic of Social Practices, Springer Verlag, Cham Switzerland (2020), pp. 69-76

[17] Timpanaro S., op. cit., p.31

[18] Damasio A., The Feeling of What Happens. Body and Emotion in the Making of Consciousness. Harcourt Harvest Books, San Diego, CA (2000), p.154

[19] Ridley M., Nature via Nurture. Harper Perennial, London (2004), p. 247

[20] Irwin D.E., Irwin J.H. e Price T.D., Ring species as bridges between microevolution and speciation. Genetica (2001), 112-113: 223-243

[21] Pããbo S., The human condition – a molecular approach. Cell (2014), 157, 1: 216-226 

[22] Pievani T. e Girotto V., Nati per credere. Codice, Torino (2016)

[23] Dennett D., Breaking the Spell. Religion as a Natural Phenomenon. Penguin Books, London (2007)





02/03/2024 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Paolo Crocchiolo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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