“Se l’Europa continuerà a dimostrare disinteresse e abbandono verso l'Italia non vorrei dover ricorrere a non identificare più nessun immigrato che arriva, non inserendo i dettagli anagrafici nella banca dati europea, in modo tale che chiunque sia libero di andare dove vuole. A mali estremi, estremi rimedi”.
Questo, secondo i giornali, il commento di Matteo Salvini alla forzatura del blocco navale che impediva l’avvicinamento a Lampedusa alla nave Sea Watch 3 capitanata dal comandante Carola Rackete e con a bordo 42 migranti. Un atto obbligato dopo che anche la Corte europea dei diritti dell’Uomo aveva avallato la linea oltranzista del Viminale.
Ma con queste parole il Ministro svela come ci sarebbe un modo molto semplice per iniziare ad affrontare i problemi legati all’immigrazione e all’Unione europea: lasciare i cittadini stranieri che approdano sulle nostre coste senza un regolare permesso di ingresso o di soggiorno liberi di muoversi. E allora perché Salvini non lo fa?
Al netto delle semplificazioni tipiche della destra, né il governo né l’opposizione parlamentare darebbero seguito a tali minacce giacché equiparare sotto questo profilo gli irregolari a qualunque cittadino italiano o straniero (anche extra-comunitario) che viaggia in Europa come lavoratore regolare, turista, uomo d’affari o parente di persone residenti, avrebbe il sicuro effetto di far cadere il velo di ipocrisia che ancora avvolge l’Europa e di minare la libera circolazione delle persone che, al di là di come viene presentata, consiste nel diritto del capitale a poter disporre il più facilmente possibile della manodopera di cui ha bisogno. E questo la borghesia (di destra e di sinistra) proprio non se lo può permettere.
Se qualunque cittadino del mondo che arriva in Italia fosse privo dei vincoli sovrastrutturali che ne limitano la possibilità di circolare regolarmente sul territorio europeo, oggi difficilmente sceglierebbe l’Italia come meta ultima. Le nazioni europee che offrono maggiori e migliori opportunità occupazionali attirerebbero ancora più facilmente di quanto già non succede oggi la manodopera in cerca di lavoro che arriva sulle nostre coste.
Ma la libera circolazione del capitale, incluso quello variabile, vale a dire la forza-lavoro, favorisce, per dirla con Marx, “la distruzione delle antiche nazionalità e spinge all’estremo l’antagonismo tra borghesia e proletariato”. Dunque, dopo pochi anni, come conseguenza di tale liberismo estremo, non si avrebbe che l’esplosione della guerra tra poveri ed il ritorno ai controlli alle frontiere oppure, al contrario, lo sviluppo cosciente di quell’antagonismo. In entrambi i casi una vera iattura per i padroni.
Inoltre, eliminare i vincoli giuridici, amministrativi ed in ultima analisi politici che impediscono l’equiparazione dei cittadini clandestini a tutti gli altri stranieri presenti in Italia diminuirebbe l’abbassamento dei salari generato dalla concorrenza tra manodopera regolare e irregolare. Le limitazioni sofferte da quest’ultima, lungi dall’essere costruite per impedirne l’afflusso a beneficio degli autoctoni, come va cianciando la propaganda sovranista, servono unicamente a fluidificarne l’impiego rendendola maggiormente ricattabile e additabile quale causa del problema. Pertanto, con l’eliminazione di tali vincoli, chi si lamenta che gli immigrati ci rubano il lavoro vedrebbe il problema ridursi anziché aumentare.
L’impossibilità che hanno i clandestini di spostarsi liberamente e ancor più di adire tribunali, di iscriversi presso un medico di base o mandare i figli a scuola, di rivolgersi alla polizia, ecc aumenta la loro ricattabilità sul posto di lavoro, costringendoli ad accettare condizioni molto più dure e infami di quelle che erano costretti ad accettare gli emigrati meridionali che andavano a lavorare nelle grandi industrie del Nord o quelle che il nostro padronato riserva oggi agli immigrati regolari. Condizioni dure e infami che aumentano i profitti dei padroni, la cui tutela è il vero obiettivo di Salvini e delle sue politiche.
L’Italia contemporanea, infatti, ha smesso di essere la terra degli emigrati che hanno contribuito a popolare l’Argentina, gli Stati Uniti e ad arricchire col proprio lavoro gli imprenditori di mezzo mondo. Ma non è neanche più, se mai lo è stata, una terra così attraente per gli italiani e gli stranieri, che dai dati sul saldo migratorio forniti dall’Istat non sembrano avere tutta questa voglia di rimanere qui.
Nel complesso, dal 2002 al 2017 la differenza tra immigrati ed emigrati è positiva, vale a dire arrivano più persone di quante se ne vanno, ma con forti differenze per nazionalità. Gli Italiani e gli europei, ad esempio, sono sempre meno attratti da questo paese. I primi, addirittura, fanno registrare un saldo negativo, vale a dire se ne vanno più di quelli che ritornano. Per le altre nazionalità, invece, il saldo è positivo ed in crescita ma dal 2010 ciò vale solo per gli africani mentre gli asiatici ed americani da quell’anno non fanno che andarsene.
Dunque, dal punto di vista della sinistra di classe, sarebbe auspicabile che Salvini mettesse in atto la propria minaccia. Ma ciò, evidentemente, non avverrà. Né potrebbe farlo alcun governo di centrosinistra, dato che sono stati proprio loro a spianare la strada a Maroni prima e Salvini poi con i vari Turco-Napolitano e Minniti-Orlando. E comunque non basterebbe ad affrontare in maniera seria il fenomeno migratorio.
Per garantire effettivamente la libera circolazione degli individui non basta impedirne la registrazione su un’anagrafe europea volta a perseguitarli, ma è necessario eliminare tutti i vincoli politici che ne impediscono il movimento, come ad es. i Daspo e le condizionalità che legano il permesso di soggiorno, e quindi il diritto alla mobilità, al lavoro. Ma soprattutto, è necessario eliminare i vincoli economici che impediscono ai lavoratori di realizzarsi dove meglio credono in accordo con le necessità del paese da cui partono e del paese in cui arrivano. Ma questo significa porre la questione migratoria dentro la più ampia questione della pianificazione dell’economia e della democratizzazione dei rapporti di lavoro e delle relazioni internazionali. Quindi del socialismo.