Anche una forza sindacale ben più efficace di quelle attualmente presenti nel nostro paese, incapaci di difendere le conquiste sindacali del passato, non sarebbe in grado di attuare il “fine alto e universale che si era inizialmente proposto” il sindacato, ovvero superare in senso progressivo la società capitalista fondata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo [1]. Anzi Gramsci sostiene che anche un sindacato in grado di realizzare essenziali conquiste come la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, degli aumenti salariali reali e dei più ampi diritti sul piano della legislazione sociale non sarebbe comunque in grado di mettere in discussione il profitto, reale movente e fine ultimo del modo di produzione capitalistico.
Così, ad esempio, “la giornata lavorativa di otto ore, l’aumento di salario, i benefici della legislazione sociale non toccano il profitto; gli squilibri che immediatamente l’azione sindacale determina nel saggio del profitto si compongono e trovano una sistemazione nuova nel gioco della libera concorrenza per le nazioni a economia mondiale come l’Inghilterra e la Germania, nel protezionismo per le nazioni a economia limitata come la Francia e l’Italia” (34). Così, la riduzione dell’orario di lavoro strappato in sede contrattuale dai lavoratori della Volkswagen in Germania fu ad esempio pagata da un aumento del tasso di sfruttamento dei lavoratori della medesima azienda impiegati in Spagna. Dunque, persino una essenziale conquista come la riduzione dell’orario di lavoro, strappata da un sindacato a livello nazionale, sarebbe compensata da un aumento del plusvalore in altri paesi o da misure protezionistiche, come propongono i sovranisti che mirano a uscire da destra dall’Unione europea.
Il protezionismo provocherebbe misure analoghe che colpirebbero le esportazioni del paese, aumentando con i licenziamenti l’esercito industriale di riserva - i sottoccupati e disoccupati utilizzati come strumento di ricatto nei confronti degli occupati - oltre a causare l’aumento del costo delle merci, nazionali e internazionali con il risultato di diminuire il salario. Si avrebbe così una riduzione dell’orario di lavoro e una corrispondente diminuzione del salario, che è esattamente quello che il padronato sta da anni mirando a realizzare con la progressiva precarizzazione della forza-lavoro.
Anche quando un capitalista particolare non fosse in grado di riversare, come avviene abitualmente, “sulle masse amorfe nazionali o sulle masse coloniali le accresciute spese generali della produzione industriale”, potrebbe, come avvenuto sempre più spesso negli ultimi anni, delocalizzare la produzione in paesi dove è possibile aumentare il tasso di sfruttamento, allungando e/o intensificando la giornata lavorativa o diminuendo l’equivalente di valore necessario per la riproduzione della forza-lavoro. Infine, anche se ciò non dovesse avvenire, una vincente politica sindacale che riuscisse a imporre una diminuzione del tasso di profitto, impedendo la delocalizzazione o l’aumento altrove del tasso di sfruttamento, indurrebbe i capitalisti a investire altrove, in attività finanziarie e speculative i loro capitali, per impedire la diminuzione del saggio di profitto. Anche nel caso in cui il capitalista fosse costretto al fallimento, in quanto da una parte i sindacati fossero in grado di aumentare i salari o di diminuire il tempo di lavoro o i suoi ritmi e il capitalista non fosse in grado di ottenere una compensazione del profitto perduto in altri paesi o settori, i lavoratori finirebbero con l’essere disoccupati, aumentando l’esercito industriale di riserva e diminuendo di conseguenza i salari e i diritti degli occupati, e alla concorrenza fra diverse imprese si sostituirebbe il monopolio o un cartello fra grandi produttori, che comporterebbe un aumento dei prezzi. In ogni caso, ne conclude Gramsci: “l’azione sindacale si rivela così assolutamente incapace di superare, nel suo dominio e coi suoi mezzi, la società capitalista” (34).
Allo stesso modo il sindacato, nel suo sviluppo storico, ha finito per tradire, in modo egualmente necessario, la seconda grande missione che si era dato al suo sorgere. Osserva a questo proposito Gramsci: “secondo le dottrine sindacaliste, i Sindacati avrebbero dovuto servire a educare gli operai alla gestione della produzione. Poiché i sindacati d’industria, si disse, sono un riflesso integrale di una determinata industria, essi diventeranno i quadri della competenza operaia per la gestione di quella determinata industria; le cariche sindacali serviranno a rendere possibile una scelta degli operai migliori, dei più studiosi, dei più intelligenti, dei più atti ad impadronirsi del complesso meccanismo della produzione e degli scambi” (34-35). In tal modo i dirigenti sindacali nei più diversi luoghi di lavoro sarebbero stati i più capaci a gestire, una volta espropriati gli espropriatori e preso il controllo della produzione, quel determinato settore.
Come di tante altre buone intenzioni di cui è lastricata la strada dell’inferno, anche in questo caso si è trattato, come ha osservato a ragione Gramsci, di una “illusione colossale”, in quanto “la scelta dei leaders sindacali non avvenne mai per criteri di competenza industriale, ma di competenza meramente giuridica, burocratica o demagogica” (35). Anzi, tale tipologia di selezione delle dirigenze sindacali, che ha tradito completamente l’altro principio costitutivo del sindacato stesso, si è venuta sempre più affermando via via che è aumentato il peso e la funzione dei sindacati. Nota a questo proposito Gramsci: “e quanto più le organizzazioni andarono ingrandendosi, quanto più frequente fu il loro intervento nella lotta di classe, quanto più diffusa e profonda la loro azione, e tanto più divenne necessario ridurre l’ufficio dirigente a ufficio puramente amministrativo e contabile, tanto più la capacità tecnica industriale divenne un non-valore ed ebbe il sopravvento la capacità burocratica e commerciale” (35).
Tale processo di crescente deriva burocratica, già allora con tanta precisione indicato da Gramsci, oggi è purtroppo più che mai sotto gli occhi di tutti. Tanto che quanto scrive Gramsci a questo proposito sembra proprio descrivere l’attuale processo degenerativo: “si venne così costituendo una vera e propria casta di funzionari e giornalisti sindacali, con una psicologia di corpo assolutamente in contrasto con la psicologia degli operai, la quale ha finito con l’assumere in confronto alla massa operaia la stessa posizione della burocrazia governativa in confronto dello Stato parlamentare: è la burocrazia che regna e governa” (35).
Proprio per questo il sindacato, in quanto tale, non è in nessun modo non solo il fine necessario a porre fine allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ma nemmeno lo strumento per raggiungere una società in cui sarà messa fuori legge ogni forma di sfruttamento. A questo scopo sarebbe al contrario indispensabile l’unico strumento realmente adatto a raggiungere un tale fine, uno strumento di cui, in tale epoca di dominio quasi incontrastato del pensiero unico liberale, nessuno parla più e tantomeno lo fanno i sindacalisti: “la dittatura proletaria”, di cui al contrario discute Gramsci.
Per quanto questo strumento possa apparire il residuo di un passato che nessuno ha più voglia di rimembrare, in un’epoca in cui l’ideologia dominante ci assicura costantemente che a dominare sono finalmente la libertà e la democrazia, resta agli occhi di Gramsci – oggi troppo spesso fatto salire a forza sul carro della liberaldemocrazia imperante – l’unico mezzo realmente efficace per chi vuole realmente contrastare la dittatura della borghesia, destinata a perpetuare il dominio e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. A parere, dunque di Gramsci è proprio la dittatura del proletariato ad avere come fine la soppressione dell’“ordine della produzione capitalistica”, della stessa “proprietà privata, perché solo così può esser soppresso lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo”. Dunque, a parere di Gramsci, se si vuole davvero conseguire un così elevato, morale e universale fine non si può rinunciare allo strumento necessario per la sua realizzazione. Tanto più che, sostiene Gramsci, “la Dittatura proletaria vuole sopprimere la differenza delle classi, vuole sopprimere la lotta delle classi, perché solo così può essere completa la emancipazione sociale della classe lavoratrice” (35).
Strumento necessario per potersi dotare di questo mezzo necessario per la compiuta emancipazione dell’uomo da ogni forma di dominio e sfruttamento non è il sindacato, ma il “Partito comunista” che ha, secondo Gramsci, il compito essenziale di educare “il proletariato a organizzare la sua potenza di classe, e a servirsi di questa potenza armata per dominare la classe borghese e determinare le condizioni in cui la classe sfruttatrice sia soppressa e non possa rinascere” (35). Quindi, al contrario di quanto avviene nella nostra epoca in cui molti, in assenza del partito rivoluzionario, fanno di necessità virtù ripiegando sul sindacato – credendo di poterne fare un surrogato dello strumento rivoluzionario, dandogli così una funzione che nei fatti gli è estranea – Gramsci non solo rivendica la funzione essenziale del partito comunista per portare a compimento l’espropriazione degli espropriatori, ma ritiene che esso mantenga una funzione essenziale anche nello Stato socialista.
Osserva a questo proposito Gramsci: “Il compito del Partito comunista nella Dittatura è dunque questo: organizzare potentemente e definitivamente la classe degli operai e contadini in classe dominante, controllare che tutti gli organismi del nuovo Stato svolgano realmente opera rivoluzionaria, e rompere i diritti e i rapporti antichi inerenti al principio della proprietà privata” (35). Detto fra parentesi, anche da questo autorevole punto di vista sarebbe utile riflettere sullo stato di salute e l’operato dei partiti comunisti oggi al potere. Se da questo punto di vista necessariamente negativo, in quanto volto a espropriare gli espropriatori, diversi dei partiti comunisti oggi al potere sarebbero da giudicare negativamente, dal punto di vista opposto, positivo, sottolineato da Gramsci, gli stessi partiti potrebbero ricevere una valutazione decisamente diversa.
Nel ragionamento dialettico di Gramsci il superamento della società borghese da parte della società socialista non può aver successo se ci si limitasse astrattamente a una negazione assoluta del modo di produzione precedente. Al contrario tale negazione, agli occhi di Gramsci, non può che essere determinata; deve certo togliere, negare e anche distruggere, ma deve al contempo superare dialetticamente, ovvero tesaurizzare gli aspetti progressivi del modo di produzione precedente e, al contempo, svilupparli ulteriormente. Perciò per Gramsci “quest’azione distruttiva e di controllo”, svolta dal Partito nella Dittatura proletaria, “dev’essere immediatamente accompagnata da un’opera positiva di creazione e di produzione. Se quest’opera non riesce, è vana la forza politica, la Dittatura non può reggersi: nessuna società può reggersi senza la produzione, e tanto meno la Dittatura che, attuandosi nelle condizioni di sfacelo economico prodotto da cinque anni di guerra esasperata e da mesi e mesi di terrorismo armato borghese, ha bisogno anzi di una intensa produzione” (36).
Nota
[1] Le citazioni di questo scritto sono tratte da “I Sindacati e la Dittatura”, articolo di Gramsci pubblicato il 25 ottobre 1919 su “l’Ordine Nuovo”, ora anche in Bordiga-Gramsci, Dibattito sui consigli di fabbrica, Samonà e Savelli, Roma 1971. Nel testo, fra parentesi tonde, indicheremo la pagina di quest’ultima pubblicazione corrispondente ai brani dell’articolo citato.