Ripensare l’Ilva

A far discutere sull’accordo Ilva non è la sacrosanta lotta sindacale per il mantenimento dell’occupazione, ma il continuare a dare ad una multinazionale la possibilità di fare profitti a costo di danni ambientali e sanitari. Occorre nazionalizzazione e controllo popolare.


Ripensare l’Ilva Credits: https://comune-info.net/2016/11/ilva-50-milioni-sfumature/

“Nel contratto c’è scritto chiaramente che si lavorerà per la chiusura dell’Ilva”. Forse, o forse no. Certamente non ora e non si sa quando. Per ora è stato firmato solo (rispetto ad ben più ambizioso piano di riconversione del sito produttivo) un accordo per tutelare i posti di lavoro. Non tutti. E se un qualche miglioramento c’è stato rispetto alle ultime ipotesi sul tavolo, il merito è da attribuire non al ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio ma alla determinazione del sindacato conflittuale seduto al tavolo delle trattative.

Le reazioni dei sindacati

L’Usb, che con Sergio Bellavita era seduto al tavolo sindacale, esprime un “giudizio più che positivo sui contenuti dell'accordo sindacale”, dal momento che “abbiamo alla fine ottenuto la salvaguardia integrale dell'occupazione, il mantenimento di tutti i diritti acquisiti retributivi e di legge, in particolare il mantenimento dell'articolo 18 a tutela dei licenziamenti discriminatori. Quindi a tutti i lavoratori assunti da Arcelor Mittal non verrà applicato il Jobs Act”, oltre che - continua il sindacalista - “un Piano di Ambientalizzazione significativamente migliorato rispetto a quello contenuto nel contratto di cessione sottoscritto da Calenda”. Ma le voci critiche non sono mancate.

Così, ad esempio, lo Slai Cobas “Pur riconoscendo che l’accordo è migliorativo rispetto a quello che si paventava nei giorni passati”, la valutazione complessiva resta negativa, in quanto “non tutela il lavoro per tutti, le condizioni di lavoro e il piano ambientale” risulta insufficiente. Ancora più duro l’FlmuCub, secondo cui “L’accordo va rigettato. Non garantisce nessun posto di lavoro tutelato, diminuisce drasticamente i lavoratori oggi dipendenti Ilva, non tutela la salute dei lavoratori e dei cittadini”.

Critica è anche l’opposizione in Cgil che fa riferimento all’area Il sindacato è un’altra cosa. L’area di minoranza della Fiom sintetizza così la sua valutazione rispetto all’accordo: “Tanto tuonò che alla fine non piovve”, dal momento che “l’intesa non prevede differenze sostanziali rispetto a quel piano Calenda che giustamente aveva portato le organizzazioni sindacali a rompere il tavolo a maggio e dopo lo stallo delle ultime settimane a proclamare sciopero”.

Probabilmente sarebbe stato difficile, sul piano strettamente sindacale e nel contesto dato fare di più ed è lo stesso Usb a dirsi insoddisfatto “per un'operazione di cessione dell'acciaieria più grande d'Europa, che contribuisce alla progressiva spoliazione del nostro patrimonio industriale”, tanto da continuare “a pensare che la nazionalizzazione di un settore strategico dell'economia nazionale come la produzione dell'acciaio sia l'unica strada per coniugare lavoro, diritti, salari, politiche industriali e ambientalizzazione”. Una necessità ribadita anche dall’opposizione in Cgil, che fa notare come “sarebbe stato giusto e necessario, oltre che di grande attualità e forza, tornare a portare al centro la rivendicazione della nazionalizzazione sotto controllo operaio dell’acciaieria più grande d’Europa e la sua riconversione a spese di chi ha distrutto Taranto”.

Il punto dirimente è proprio questo.

La continuità Calenda-Di Maio

Quel che è certo, è che anche rispetto all’intricata vicenda Ilva il governo giallo-verde si è posto su una linea di sostanziale continuità con i suoi predecessori. Per questo, seppure in tanti gridano vittoria sulla conclusione della trattativa, il governo, ed in particolare la componente pentastellata, ne esce di fatto sconfitta. Su questa vicenda, infatti, a torto o ragione, e come da tradizione italiana, tutti possono vantare un proprio ruolo positivo.

  • I sindacati (legittimamente), per aver difeso, del tutto giustamente i posti di lavoro. Ma qui il merito dovrebbe andare al sindacato conflittuale, che fino all’ultimo non ha accettato accordi al ribasso e che in questi anni ha portato avanti una lotta per la tutela dell’occupazione.
  • Il precedente governo, con l’ex ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda che rivendica come suo il contenuto dell’accordo.
  • Di Maio, che quell’accordo lo ha, infine, portato a conclusione.

Ma al di là di variazioni su numeri e date, ed al netto della tutela dei posti di lavoro e dei diritti dei lavoratori grazie alla lotta sindacale, una sostanziale continuità permane circa le sorti della più grande acciaieria d’Europa e sulla martoriata città di Taranto.

Privatizzazione dei profitti, socializzazione dei costi

A Taranto, per anni ed ancora oggi, anche usando l’arma ideologica del ricatto occupazionale, è stata ed è tuttora messa in atto tra le più grandi e riuscite pratiche di privatizzazione dei profitti e socializzazione dei costi, questi ultimi di natura non solo economica, ma sociale, sanitaria, ambientale. Così, l’Ilva è stata dichiarata insolvente dal Tribunale Fallimentare di Milano, rilevando un indebitamento di poco meno di 3 miliardi di euro, ma la famiglia Riva ha i suoi patrimoni al sicuro in qualche paradiso fiscale. Intanto l’acciaieria registra da anni perdite stimate tra i 30 ed i 40 milioni di euro al mese, ma usufruisce di garanzie di Stato (come quelle sui prestiti bancari per 1,2 miliardi di euro) e di prestiti con soldi pubblici (che ad oggi ammontano ad oltre 400 milioni di euro). Ed è così che riesce ancora a stare sul mercato, oltre che con i risparmi sulla tutela ambientale e la sicurezza.

A pagare, in termini economici, sociali, sanitari e ambientali, è la collettività, che non misura, come invece faceva Riva e farà ArcelorMittal, l’impatto dell’acciaieria sul territorio in milioni di euro, ma in centinaia di morti ogni anno, con eccessi di patologie nella popolazione, con il degrado territoriale, con l’inquinamento ambientale. La mappa dei tumori relativa al periodo tra il 2006 ed il 2012 pubblicata dalla Asl nel dicembre 2017, riporta dati che fanno tremare le vene e i polsi: in questo breve periodo vengono registrati 21.313 nuovi casi di tumore. In questo contesto da emergenza sanitaria, tra i soggetti più colpiti ci sono i bambini, per cui, secondo studi epidemiologici, l’incidenza di tumori nella fascia 0-14 anni è pari al 54%, mentre nel primo anno di vita l’eccesso di mortalità per tutte le cause è del 20%.

Tra gli operai Ilva si sono registrati eccessi di tumore dello stomaco (+107%), della pleura (+71%), della prostata (+50%) e della vescica (+69%). Tra le malattie non tumorali, eccessi di malattie neurologiche (+64%), cardiache (+14%). E non sono risparmiati i lavoratori con la qualifica di impiegato per i quali si sono registrati eccessi di mortalità per tumore della pleura (+153%) e dell'encefalo (+111%).

Senza contare i viaggi della speranza, a cui troppo spesso sono costretti i cittadini del Mezzogiorno d’Italia con evidenti costi e sacrifici individuali e familiari, il costo sociale sopportato dal territorio di Taranto, Secondo l’Agenzia europea dell’ambiente, raggiunge la cifra di 463 milioni di euro. È la traduzione in termini economici del peso sull’ambiente e sulla salute dell’Ilva. Un dramma sociale di enormi proporzioni, di quelli che si verificano in territori colonizzati.

Italia colonia industriale

D’altronde, come affermava Luciano Gallino descrivendo La scomparsa dell’Italia industriale, le cessioni a imprese estere e le privatizzazioni di grandi gruppi, specie in settori strategici, come l’Ilva ed in generale il settore siderurgico, concorre ad avvicinare uno Stato alla condizione di colonia industriale. “Magari relativamente prospera, eppur colonia”. E “nelle colonie, com'è noto, sono i governatori, nell'interesse dei paesi che rappresentano, a stabilire in quale direzione deve procedere, o arrestarsi, l'economia locale. Non i dirigenti o i lavoratori di questa”. Non c’è ragione di pensare che non debba essere così anche in questo caso, con la cessione dell’Ilva alla cordata ArcelorMittal.

D’altronde, a parte le roboanti enunciazioni propagandistiche del M5S, sul tavolo delle trattative la questione è stata posta fondamentalmente in termini di tutela dell’occupazione. Aspetto non secondario, soprattutto in un contesto come quello tarantino dove la crisi occupazionale si fa sentire in maniera particolare. Ma se un governo non è in grado di portare in nessun tavolo di discussione altre soluzioni, diverse dal mantenimento del sito produttivo e se le ipotesi di ambientalizzazione scritte nell’accordo non risultano sufficienti, si ripropone di fatto la dicotomia lavoro-ambiente. È nei fatti che i livelli occupazionali vengono garantiti a costo della salute, che la produzione si pone in alternativa alla salute, che si mette la popolazione di fronte alla scelta tra salario e salute. È evidente, insomma, come si tenti (e spesso si riesca) di scavalcare l’antagonismo capitale-lavoro - che vedono contrapposte le classi padronali e quella lavoratrice - per rappresentare un conflitto lavoro-salute che viene esercitato prevalentemente all’interno delle classe popolari, producendo una sua frantumazione.

Impunità per le multinazionali

A far discutere, infatti, non è la lotta sindacale per il mantenimento dell’occupazione. Il sindacato, quello conflittuale che in questi anni non ha mai smesso di incidere, con la sua azione, sulle sorti che apparivano segnate per i lavoratori Ilva, ha svolto un ruolo cruciale per il mantenimento del livelli occupazionali, per la garanzia di diritti che in fasi come queste non sono affatto scontati ed anzi sono di solito messi in discussione e ridotti in nome della flessibilità e usati come ricatto occupazionale. A far discutere è la continuità che un governo bravo nelle declamazioni non ha saputo interrompere. A far discutere è il ruolo di un esecutivo capace di sbattere i pugni contro migranti che provano a migliorare la propria condizione di vita imbarcandosi su un gommone, ma non contro una multinazionale che potrà continuare a fare profitti con la garanzia dell’immunità penale per i danni ambientali e sanitari che non saranno evitati, perché propri del ciclo produttivo dello stabilimento Ilva di Taranto. Un chiaro segnale di rottura rispetto al passato il governo avrebbe potuto darlo abrogando l’immunità penale per gli acquirenti dell’Ilva e cancellando (e non solo riducendo) la proroga all’attuazione delle prescrizioni contenute nell’Aia (autorizzazione integrata ambientale) che avrebbero bisogno di immediata realizzazione.

A poco valgono, allora, le rassicurazioni del ministro della Salute, Giulia Grillo che esprime eccessiva enfasi nel dichiarare che il governo “non vuole più obbligare i tarantini a scegliere tra Salute e Lavoro”, se poi non restano aperte ipotesi (che pure ci sono, serie e documentate) di chiusura dello stabilimento, bonifica e riconversione del sito e - considerando il ruolo strategico della produzione dell’acciaio - realizzare, in un luogo idoneo e non dentro una città, un nuovo, moderno stabilimento, che rispetti i vincoli di tutela ambientale e sanitari; se il massimo di rassicurazioni che si è grado di dare alla popolazione è niente più che un semplice, ovvio, impegno a vigilare “sui danni che le emissioni e le polveri prodotte dall’IIva sono in grado di provocare”. Perché non solo quell’impegno è del tutto scontato, ma è oltremodo offensivo dal momento che i danni ambientali e sanitari sono già documentati, i dati sono già disponibili, studi epidemiologici sono già stati condotti e si è già giunti alla incontrovertibile conclusione che l’attuale ciclo di produzione, che l’accordo non mette in seria discussione, provoca danni all’ambiente e alla salute pubblica che non possono essere sanati. Quanto costi rendere sostenibile la produzione dell’Ilva di Taranto è dichiarato in una relazione stilata nell’ambito del processo Ambiente svenduto: 8,1 miliardi di euro. Un impegno finanziario che nessun privato si sogna di mettere sul piatto delle trattative senza un ritorno sicuro in termini di profitti.

Nazionalizzazione e controllo popolare

È chiaro, quindi, che anche in questo ambito si inserisce la questione, dirimente, della nazionalizzazione, dal momento che lasciare in mano privata uno stabilimento del genere, non solo significa non avere la possibilità di controllare un settore industriale strategico, non solo porta a rinunciare ad una politica industriale, ma subordina la produzione dell’acciaio e la tutela ambientale e della salute pubblica alle esigenze di profitto di una multinazionale.

Ma non basta. Con la rivendicazione della necessità di nazionalizzare settori strategici come quello siderurgico occorre far emergere il legame oggettivo esistente tra la produzione e l’ambiente sociale nel quale essa si inserisce. Nella lotta deve inserirsi la rivendicazione di una necessaria trasformazione dell’organizzazione del lavoro e del controllo popolare nelle scelte di investimento affinché si renda palese il nesso esistente ed oggettivo tra l’organizzazione del lavoro e l’organizzazione della società, nella distribuzione del potere dentro i luoghi di lavoro e fuori di essi, nei processi decisionali in fabbrica e fuori di essa.

In poche parole, la lotta rivendicativa deve trovare nessi immediati con la lotta politica per dare corpo ed allargare il controllo popolare.


Bibliografia

I dati contenuti in questo articolo sono tratti, tra l’altro, dalla ricca documentazione messa a disposizione dall’associazione Peacelink ed alla quale si rimanda per i necessari approfondimenti. Tra questi, Linee guida per la riconversione ecologica, sociale ed economica di Taranto e Ilva, position paper 2018

15/09/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Carmine Tomeo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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