Il 2019 si è chiuso con una lunga intervista al Ministro dell’economia Roberto Gualtieri che dalle colonne de “la Repubblica” dichiara che in Italia “serve più Stato”. Siamo rassicurati: chi pensa sia necessario un intervento pubblico in economia non si vedrà scomunicato e condannato all’inferno liberista, anzi...
D’altronde, che qualcosa fosse cambiato l’avevamo intuito già con lo scoppio della crisi nel 2008, quando governi di mezzo mondo e ancora di più le banche centrali si affrettarono a salvare società finanziarie altrimenti condannate al fallimento (Mps, Popolare di Vicenza, Veneto Banca solo per citare i casi nostrani più noti). E misero in piedi una delle più spettacolari socializzazioni delle perdite che sia mai stata vista, con i contribuenti (o meglio, soprattutto con i lavoratori dipendenti, data la situazione dell’evasione fiscale) a finanziare i capitalisti in difficoltà. Niente di nuovo, si disse giustamente, l’avevamo già visto con Mussolini (si veda “Capitalismo di Stato e imperialismo fascista“ del comunista Pietro Grifone e “I padroni del vapore” del liberista Ernesto Rossi), Hitler, Roosevelt...
Ma a distanza di oltre dieci anni, l’economia non si è ancora ripresa e ‘il movimento reale che conserva lo stato di cose presente’, oltre all’aiutino da quasi un miliardo concesso alla Banca popolare di Bari - mascherato da ricapitalizzazione del Mediocredito centrale con la scusa di rilanciare i prestiti nel Mezzogiorno, come se il problema del Sud fosse l’assenza di liquidità! -, spinge per il soccorso anche di importanti aziende produttive. il nostro attuale Ministro dell’economia ne cita solo due: l’ex-Ilva e Alitalia. Per loro, come per la popolare di Bari, il governo cerca di favorire “soluzioni di mercato” mediante l’evergreen della “formula dell'azionariato misto pubblico-privato [che] ha dato buona prova di sé anche nel contesto delle privatizzazioni”. D’altronde, riconosce Gualtieri, “le più importanti multinazionali italiane sono ancora oggi società a partecipazione pubblica”.
Tuttavia, per Gualtieri, lo Stato non si deve limitare ad accollarsi parte dei costi necessari al risanamento e rilancio delle aziende in crisi e alla bonifica e risarcimento dei danni che queste causano, ma deve intervenire per “promuovere gli investimenti e l'innovazione nei settori strategici” che “danno anche ottimi dividendi al bilancio pubblico”. E deve pure continuare sulla strada delle privatizzazioni per quelle aziende “che possono lavorare meglio se aperte a soci privati”.
In ogni modo, il tipo di nazionalizzazione proposta dal Ministro non si limita alla socializzazione delle perdite - vale a dire all’acquisto a prezzo pieno di aziende in crisi non più convenienti, per risanarle a spese dei contribuenti e poi rivenderle a prezzi di saldo al ‘peggior offerente’ - ma serve a “favorire lo sviluppo del paese” (la ‘patria’ di mussoliniana memoria). E a chi teme l’ira di Bruxelles, Gualtieri manda a dire che anche lì il vento è cambiato e ora “c’è più attenzione sia al ruolo delle politiche pubbliche sia alla necessità di contemperare le esigenze della concorrenza con quelle di favorire la crescita di imprese che possano concorrere a livello globale”. Se non altro perché “Stato e mercato possono coesistere proprio per far funzionare meglio il mercato, e d'altronde è quello che avviene in tutti i grandi paesi avanzati”. Ma il nostro lo è ancora?
Questa strategia, tuttavia, presenta un limite e una contraddizione evidenti. La contraddizione è rappresentata dal volere, la nazionalizzazione di settori strategici per sviluppare il paese e nel contempo difendere la gestione privatistica come per le più importanti multinazionali italiane a partecipazione pubblica (es. ENI spa). Ma se si vuole sviluppare il paese non si può non pretendere che le infrastrutture - portuali, aeroportuali, autostradali, energetiche, di telecomunicazione, ecc - forniscano un servizio uniforme su tutto il territorio nazionale e non solo là dove è più conveniente, e che tale servizio sia venduto a prezzi che non rispondono alla necessità di staccare dividendi agli azionisti, come le vicende Tim e Atlantia ogni giorno dimostrano, ma al loro mantenimento, sviluppo e soprattutto all’accumulazione dei loro clienti, le piccole, medie e grandi imprese che non possono fare a meno di utilizzarle.
In poche parole, infrastrutture che lavorino a prezzo di costo, con evidente risparmio per tutti gli altri. Come avvenuto nel secondo dopoguerra. Ma questo può farlo solo un gestore pubblico che non guardi alle trimestrali di cassa come se non ci fosse un domani. La stessa Corte dei conti nel 2010 espresse un giudizio poco lusinghiero sulle privatizzazioni effettuate nei venti anni precedenti, evidenziando che il recupero di redditività delle aziende cedute dallo Stato si è verificato certamente, ma attraverso l’incremento di tariffe di servizi come energia, autostrade, banche, cioè in gran parte attraverso prezzi di monopolio o di oligopolio che andando ad incidere sul tessuto produttivo ne hanno accelerato la crisi. Per non parlare degli sgravi fiscali e contributivi di cui pure hanno beneficiato.
In altri termini, se l’azionista di riferimento di un’azienda strategica è “pubblico” ma si comporta come un privato qualsiasi, forse si possono avere buoni ritorni in termini di dividendi, e quindi qualche miliardo in più per il bilancio dello Stato (su quasi 600 di entrate totali, sai che svolta!), ma sicuramente a pagarne i successi sono i cittadini e le imprese, per non parlare dei lavoratori direttamente impiegati. Con tanti saluti all’obiettivo di sviluppo del paese.
Ma la proposta di nazionalizzazione del Ministro presenta anche un grande limite: individuare l’azionariato misto quale unico strumento a disposizione, cancellando tutte le altre soluzioni che pure sarebbero possibili in regime capitalistico. Ed il motivo è presto detto: nelle Spa si realizza la miglior separazione tra la proprietà del capitale, che può essere “pubblica”, e la sua gestione, necessariamente di stampo privatistico; e a differenza di altri tipi di enti, la loro proprietà può essere facilmente alienata in caso di bisogno. Ma che questo strumento non sia l’unico a disposizione non è soltanto la storia a ricordarcelo. La costituzione, infatti, prevede che la legge può trasferire allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale. Molti dei settori strategici dell’economia, inoltre, vengono condotti grazie a concessioni amministrative, vale a dire atti con cui la pubblica amministrazione consente al concessionario l’uso di risorse e/o l’esercizio di attività non disponibili da parte dei privati in quanto riservate ai pubblici poteri.
La concessione di un bene pubblico conferisce, per es., diritti d’uso del demanio marittimo (spiagge, arenili) per lo svolgimento di attività quali la gestione di stabilimenti balneari, o di complessi turistici, o di impianti di raffinazione di idrocarburi; oppure diritti d’uso del demanio idrico (acque dei fiumi) a fini di irrigazione o di conduzione di attività industriali (es. centrali idroelettriche). La concessione di servizio pubblico consente lo svolgimento di attività economiche quali la distribuzione dell’energia elettrica o del gas. La concessione di opera pubblica attribuisce il diritto di costruire e di gestire opere quali strade o autostrade. Vi sono, infine, concessioni che consentono l’esercizio di funzioni fortemente autoritative, come l’esazione dei tributi.
Pertanto, lo Stato del capitale - non quello diretto dai lavoratori - se volesse potrebbe gestire direttamente, senza l’intermediazione di imprese terze per quanto sue “controllate”, i beni, i servizi e i lavori pubblici. Dunque, revocare la concessione alle autostrade per assegnarla nuovamente a qualche azienda privata, magari di proprietà dello Stato (ad es. ANAS spa) non risolverebbe i problemi se questa azienda continuasse ad agire con criteri privatistici. Ed inoltre la forma di società per azioni non sembra essere quella più adeguata per garantire i fini pubblicistici. Si tratta di verificare le opzioni amministrative a disposizione o inventarne di nuove, come fu fatto all’epoca dell’istituzione del servizio sanitario nazionale.
Infine, non tutte le crisi aziendali debbono essere risolte necessariamente mediante una statalizzazione. La legge, ad es., prevede che nel caso di affitto o di vendita di aziende, rami d'azienda o complessi di beni e contratti di imprese sottoposte a fallimento, concordato preventivo, amministrazione straordinaria o liquidazione coatta amministrativa, hanno diritto di prelazione per l'affitto o per l'acquisto le società cooperative costituite da lavoratori dipendenti dell'impresa sottoposta alla procedura, con fondi ed agevolazioni messi a disposizione dal Ministero del lavoro. Troppo poco, ovviamente, per frenare la crisi, come dimostrano le mappe delle imprese recuperate (qui un esempio), ma uno strumento che esiste e che può essere potenziato, addirittura senza violare le leggi europee.
Tutto ciò non significa che la nazionalizzazione senza indennizzo e sotto controllo operaio debba scomparire dal programma dei comunisti. Al contrario, per realizzarla è necessaria la presenza un ‘movimento reale che abolisce lo stato di cose presente’ che al momento latita. E per favorirne la formazione è necessario sfruttare gli spazi e le contraddizioni che lo Stato e le classi dominanti offrono partendo dal livello di coscienza che la maggior parte dei lavoratori e delle classi popolari hanno della questione per elevarlo progressivamente. Oggi il bisogno di queste nazionalizzazioni in casi come l’Ilva o l’Alitalia è tale che nazionalizzare può divenire da subito una parola d’ordine per radicarsi nelle masse e tornare per loro comprensibili.
D’altra parte, la stessa riduzione dell’orario di lavoro a parità di retribuzione dei lavoratori - di cui ha parlato il presidente dell’INPS, Pasquale Tridico, non propriamente un bolscevico - non può essere praticata su larga scala senza il controllo pubblico dei nodi essenziali della produzione e del credito. Controllo che è assolutamente necessario anche per una seria politica progressista nei confronti dell’Unione Europea e delle sue politiche regressive: per difendersene e per smontarle.