Finalmente Massimo D'Alema riesce a spiegarsi come mai “la sinistra sembra essere il bersaglio principale di quella diffusa protesta contro l'establishment che percorre gran parte dell'Europa”. In un suo articolo sull'ultimo numero della rivista della sua Fondazione Italianieuropei, dal titolo Fondamenti per un programma della sinistra in Europa, senza peli sulla lingua, ammette che, nel corso della globalizzazione selvaggia che ha colpito duramente i diritti sociali, la sinistra “appare una forza che, ben più dei partiti conservatori, è venuta meno alle sue ragioni costitutive e alla sua missione storica”. E aggiunge che ciò è avvenuto per colpa del “cedimento a una visione neoliberista, accettando l'idea che anche il welfare socialdemocratico fosse un peso da alleggerire”. Idea che poi nomina esplicitamente come “Terza via” blairiana, pur dando a quell'esperienza riconoscimenti di circostanza e pur stendendo un velo pietoso sul fatto che l'abbandono del terreno della giustizia sociale sull'altare “degli effetti positivi della globalizzazione” che avrebbe dovuto “produrre sufficiente ricchezza per tutti”, dell'ideologia secondo cui se si produce più ricchezza c'è benessere per tutti, costituisce in realtà non una svista, ma l'abbandono netto, senza se e senza ma, dei valori che il movimento operaio si è dato fin dalla sua nascita.
Non mancano stoccate nei confronti di Renzi e di tutti coloro, “destinati a una breve e disastrosa apparizione”, che ripropongono oggi “quelle vecchie idee degli anni Novanta come se si trattasse di sfolgoranti novità”. Anche in questo, ovviamente, è “generoso” perché queste vecchie idee sanno più di '800 che di anni 90 del '900. O nei confronti di quelli che, come in questi giorni il capo del governo Gentiloni, si limitano a richiedere un po' di flessibilità all'Europa, a “negoziare margini di manovra a livello nazionale”, magari per impiegarli in qualche mancia elettorale. Certo questo per la verità non viene detto esplicitamente, ma si legge fra le righe.
Si potrebbe a ragion veduta obiettare sul pulpito da cui vengono queste prediche, visto che non siamo di fronte a un uomo politico “novello” o incolpevole di tutta una serie di mazzate nei confronti dei lavoratori, dei disoccupati, dei pensionati ecc. pervenute dal lato del centrosinistra proprio in nome dell'Europa. Siamo indulgenti e ipotizziamo pure che in quest'analisi ci sia anche la necessaria componente autocritica.
Dopo qualche meritata stoccata contro Jobs Act, Buona Scuola e riforma costituzionale, dopo questa analisi tutto sommato onesta, per quanto eccessivamente politically correct, la terapia che indica è “la ripresa del ruolo del centrosinistra (ahi, ancora quello! non basta ancora? nda) e del movimento progressista”, che ha il suo “punto focale in Europa”, ove il rischio è la “innaturale collaborazione” fra “i partiti che sostengono il processo europeo”, siano essi socialisti che conservatori, con i socialisti in posizione subalterna, mentre dall'altra parte imperversano i populisti antieuropa. Questa ripresa è demandata al rilancio delle politiche riformiste e keynesiane che, abbiamo detto più volte in questo giornale, in realtà hanno ormai consunto ogni margine di praticabilità se sono scisse da un terreno di lotta per mettere in discussione gli assetti proprietari e per aumentare gli spazi di una socializzazione delle decisioni economiche, a scapito dei profitti.
Si è infatti argomentato che tutto ciò che promuove la domanda (più equa ripartizione del reddito, servizi sociali, pensioni, sanità scuola, investimenti pubblici) comporta una riduzione dei profitti e che le politiche liberiste non sono frutto della stupidità dei governanti, ma di una sorta di rivincita del capitale che – in una fase in cui doveva misurarsi con i paesi del “socialismo reale” – aveva dovuto mollare una fetta della torta.
I teorici che D'Alema indica, chiamandoli per nome, come dispensatori delle giuste ricette sono gli economisti borghesi Stiglitz, Krugman, Mazzuccato, Piketty, Biasco, evitando accuratamente di citare un solo economista marxista, nonostante che questa grave crisi mondiale sia stata annunciata con molti anni di anticipo proprio da diversi marxisti.
È vero che D'Alema propugna “una una forte e visibile alternativa alle politiche tuttora dominanti in Europa”, ma evita accuratamente di mettere in discussione l'architettura istituzionale dell'Unione e quella dell'Euro, che sono funzionali a queste politiche. E quindi ecco la necessità “di un'Europa più unita e più forte”, senza “coltivare l'illusione di una nuova Costituzione europea in tempi brevi” (possiamo quindi aspettare…), quella di “difendere e rilanciare la moneta unica”, aggiungendo, con scarso senso dell'ironia, che si tratta “di una arduo cammino” per una “sinistra europea che abbia il coraggio [sic!] di mettere sul tavolo un programma così netto” (?). Talmente netto che sull'altare del rilancio dell'economia di mercato, accetta che si assicuri alle esauste casse statali il ristoro di un “rinnovamento del welfare” (e qui, visti i precedenti, c'è da fare gli scongiuri!) “mantenendo, però, la capacità di questo sistema di proteggere effettivamente le persone dalla povertà, dall’esclusione, dalle malattie, evitando il rischio di una americanizzazione selvaggia delle società europee”. In sostanza non i diritti universali, previsti dalla Costituzione e reclamati a furor di popolo il 4 dicembre scorso, ma un liberismo meno aggressivo, condito con un po' di caritatevole solidarietà.
Questa, data l'autorevolezza di chi lo scrive, è di fatto la traccia del programma attorno al quale si vuole aggregare la sinistra del PD, pezzi di Sel e compagnia.
Per concludere con la chiosa finale di D'Alema: quanto sopra costituisce una missione del “socialismo europeo all’altezza di ciò che la migliore socialdemocrazia ha saputo realizzare [...] nell’Europa democratica”. Appunto…