Divide et impera. Questa antica tattica di guerra è sempre valida e la vediamo applicata anche oggi, su diversi fronti, dal regime dominante. Mettere i lavoratori l’uno contro l’altro è sempre stato il sogno più bello dei padroni, ma negli ultimi anni sta emergendo una nuova applicazione di questa vecchia prassi: scaricare le responsabilità dei tagli e delle privatizzazioni, quali frutti nefasti della crisi, sulle spalle degli enti locali. In questo modo si sposta la battaglia politica dal livello centrale a quello locale che per ovvie ragioni è più debole e frammentato. Le finanze comunali sono al collasso a causa dei tagli e le amministrazioni, anche quelle cosiddette “virtuose”, si trovano oggi nel paradosso che un proposta di programma alternativo (ricostruzione idrogeologica del territorio e delle vie di collegamento, sostegno alle famiglie con centri per anziani e asili nidi.. ) basato sulla centralità pubblica viene tacciata di “parassitismo” .
di Ascanio Bernardeschi
I primi annunci sul Documento Economico e Finanziario (Def) del governo li abbiamo commentati due settimane fa. Ora è disponibile nel sito del Ministero il testo definitivo di quel documento. Non possiamo che confermare, nell'essenziale, quei commenti, su cui non ritorniamo. Sorvoliamo pure sull'inesistente tesoretto e su altre nuove bugie contenute, la prima delle quali è già nell'incipit: “dopo una crisi molto grave e prolungata, nell’ultimo trimestre del 2014 l’economia italiana è uscita dalla recessione”. Tutti i dati, compresi quelli riportati nelle tabelle del Def, ci dicono che nel 2014 è diminuito il Pil ed è cresciuta la disoccupazione. È stravagante usare un piccolo “rimbalzo” dell'ultimo trimestre per certificare la fine della crisi.
Maggiori informazioni dovremmo invece ricavarle da una miriade di analisi, tabelle e grafici per un totale di un migliaio di pagine, oltre a qualche centinaio di pagine di allegati. Ma entrare nel merito metterebbe a dura prova il lettore. Ci limitiamo quindi a trattare i tagli che interessano i comuni, per l'ovvia ragione che sono quelli che si ripercuotono maggiormente sulle condizioni di vita dei cittadini, ma anche perché è abitudine dei nostri governanti scaricare le difficoltà finanziarie e le conseguenze della crisi sugli enti locali. In questo modo possono raccontare che i tagli li ha voluti l'Europa, costringere i comuni a farsene carico e impedire così che il conseguente malcontento si rivolga verso il governo.
Difatti i comuni sono ormai diventati una sorta di terminale di spesa governativo, obbligato a praticare le politiche restrittive e i massacri sociali indicati in una miriade di leggine che non solo tagliano le risorse, ma indicano anche da dove è possibile prelevare i soldi per far quadrare i conti – generalmente con imposte fortemente regressive o con l'aumento del costo dei servizi, in barba alla Costituzione –, o come ridurre le prestazioni, il personale, come privatizzare ecc.Facciamo un esempio: da molti anni esiste una leggina in base alla quale se i comuni “sforano” tre parametri sono dichiarati in dissesto e rischiano il commissariamento. Uno di questi parametri è la quota di spesa di personale rispetto alle entrate correnti, che non può superare un tetto che varia dal 38 al 40 per cento a seconda delle dimensioni dell'ente. Un comune potrebbe gestire meglio un servizio e spendere anche meno usando il proprio personale – ci sono infatti studi che dimostrano che a parità di trattamento dei dipendenti conviene di più la gestione diretta – ma se supera il parametro, è inguaiato. Quindi quel comune non può assumere, deve spendere di più e affidare il servizio ai privati, i quali faranno risparmiare a scapito della retribuzione e dei diritti dei lavoratori. Cito la norma solo per rendere evidente la sua illogicità, anche da un puro punto di vista economicistico, e il fatto che l'evidente scopo recondito è stato quello di indurre a privatizzare. “È stato”: uso il passato perché altre norme hanno portato il costo del personale ben al di sotto di questo limite, che per anni ha terrorizzato i comuni: blocco del turn-over, blocco assunzioni e del rinnovo dei contratti di lavoro....
Ma certamente il dato eclatante è la progressiva erosione delle risorse economiche, a partire dalle prime leggi “finanziarie” (si chiamavano così fino a qualche anno fa le attuali leggi di stabilità). Per avere un'idea i trasferimenti correnti del 2015 diminuiscono di circa il 43 per cento rispetto a tre anni prima, mentre i tagli ai trasferimenti per investimenti si aggirano intorno al 60 per cento. A questo risultato si è giunti anche grazie a qualche “involontario” errore nel calcolo del maggior gettito di imposte (per esempio si è incluso nel maggior gettito l'ICI sugli immobili di proprietà comunale che ovviamente non corrisponde a nessuna maggiore entrata perché, anche ove i comuni pagassero l'imposta a sé stessi, si tratterebbe di una semplice partita di giro e non di una maggiore entrata netta). In sostanza i Comuni sono stati obbligati con metodi alquanto spiccioli a inasprire la tassazione e le tariffe, a tagliare i servizi e a privatizzare.
Anche secondo gli studi dell'Associazione Artigiani e Piccole Imprese Mestre Cgia, ci sono stati oltre 25 miliardi di tagli dal 2011 ad oggi verso le Regioni e gli enti locali e la sforbiciata ai soli comuni per quest'anno è di 8,3 miliardi. "In buona parte, Sindaci e Governatori hanno compensato aumentando le tasse locali e tagliando i servizi alla cittadinanza”, dichiara il Presidente dell'Associazione. E prosegue: “grazie a questi tagli, lo Stato centrale si è dimostrato sobrio e virtuoso, scaricando il problema sugli amministratori locali che hanno agito sulla leva fiscale. Morale: la minor spesa pubblica a livello centrale è stata pagata in gran parte dai cittadini e dalle attività produttive che hanno subito un fortissimo aumento delle tasse locali”.
L'Associazione Nazionale Comuni d'Italia (ANCI, presidente Piero Fassino, renziano), è insorta dopo i primi annunci in quanto temeva che dei 10 miliardi di tagli previsti, una grossa fetta, come di consueto, toccasse ai comuni, i quali finora si sono fatti carico di oltre un terzo dell'importo delle manovre finanziarie, pur essendo la loro quota di spesa intorno al 7-8 per cento. “Troppo spesso – dichiarò allora Fassino – si dimentica che quando si parla di spesa dei Comuni si parla di asili nido, di scuole materne, di assistenza domiciliare agli anziani, di trasporto pubblico locale, di difesa del suolo, di politiche culturali. I soldi i Comuni li spendono così e guardare a noi come centri di spesa parassitaria è un errore a cui bisognerà prima o poi porre rimedio”. Renzi, in un apposito incontro, ha tranquillizzato i sindaci: niente tagli ai comuni, ma tagli agli sprechi. Ed essi, per lo più di stretta osservanza governativa, hanno messo la coda tra le gambe. Hanno ragione? Navigando nella miriade di tabelle del Def, non è facile verificare se questa promessa è mantenuta, perché tra le minuziosissime informazioni non figurano con chiarezza quelle che ci interessano. Ma è proprio questa indeterminatezza, o sapienza nel nascondere le cifre che preoccupa.
Pur prendendo per buono che non ci sarà nessun taglio, resta il fatto che la finanza comunale è al collasso perché già abbondantemente violentata e che sulle prospettive non c'è nessuna certezza. E i sindaci l'hanno fatto sapere al Parlamento nell'audizione sul Def delle commissioni Bilancio di Senato e Camera. L’ANCI ha chiesto in quella sede che venga approvato rapidamente il “decreto enti locali”, che dovrebbe contenere il risarcimento di 625 milioni scippati ai comuni in occasione del passaggio dall’Imu alla Tasi, e della perdita dell'IMU agricola soprattutto da parte dei piccoli enti che hanno vasti territori agricoli. Il decreto, secondo le richieste dell'ANCI, dovrebbe prevedere anche una misura per le città metropolitane che ereditano dalle province le sanzioni per lo sforamento del patti di stabilità. “I Comuni hanno alle spalle una riduzione di quasi 18 miliardi di euro, non si può pensare di fare altrettanto nei prossimi anni. Al 2016 bisogna che ci arrivino vivi”, ha dichiarato – in maniera del tutto condivisibile – il solito Fassino.
Il problema però è che queste dichiarazioni, ormai da diversi decenni, sono rituali ma poi i comuni “si fanno carico” delle esigenze della finanza pubblica, ben lontani dall'impostazione dei “bilanci di lotta” che contraddistinsero la stagione tra gli anni 60 e 70 e che costrinsero i governi democristiani a misure di risanamento della finanza locale. Un discorso analogo potrebbe essere fatto per le Regioni, e quindi per la sanità (16 miliardi in meno nel 2016), e per la scuola.
Le politiche di austerità, tendenti ad abbattere il tenore di vita delle classi sfruttate, riescono a colpire in gran parte attraverso i governi locali. Il loro carattere reazionario è evidente. Da una parte si abbattono i diritti dei lavoratori e con essi il costo diretto del lavoro. Tagliando i servizi pubblici si riduce anche il costo indiretto, cioè un'altra voce del costo di riproduzione della forza-lavoro (mobilità, abitazione, istruzione, cultura, sanità). Tagliando le pensioni si interviene sul costo differito. Anche privatizzando si favorisce l'arretramento economico e la precarietà del lavoro e in più si estende la sfera delle attività assoggettate alla logica del capitale che per loro natura dovrebbero essere pubbliche. Il tutto per salvaguardare i margini di profitto. Ma in questo modo non si esce dalla recessione. Il nostro governo e la maggior parte dei nostri sindaci – nonostante le dichiarazioni contrarie del primo e i brontolii dei secondi – si appiattiscono sulle politiche liberiste dell'Europa. Per questo, anche a livello degli enti locali, serve un'alternativa. Costruirla è difficile, ma doveroso.