L’attualità della lotta al revisionismo

Il revisionismo è la forma più sottile di egemonia della borghesia sulle classi subalterne.


L’attualità della lotta al revisionismo Credits: http://www.brigatapreneste.org/25-aprile/

A parere di Lenin il dominio di un blocco sociale si articola in due funzioni fondamentali e complementari: il monopolio della violenza legalizzata, incarnato dalla figura del boia, e l’ideologia dominante, essenziale strumento di egemonia all’interno del blocco sociale e soprattutto nei riguardi dei ceti sociali subalterni, che consente di governare con il consenso attivo o passivo dei dominati, incarnato dalla figura del prete. Osserva a tale proposito Lenin: “ogni e qualsiasi classe dominante ha bisogno, per conservare il suo dominio, di due funzioni sociali: quella del boia e quella del prete. Il boia deve soffocare l’indignazione e la protesta degli oppressi; il prete deve consolare gli oppressi, far loro intravedere le prospettive (cosa particolarmente comoda a farsi se non ci si occupa della ‘attuabilità’ di tali prospettive…) di un’attenuazione della miseria e dei sacrifici, entro il quadro del dominio di classe, e, con ciò stesso, riconciliarsi con questo dominio, allontanarli dalle azioni rivoluzionarie, attenuare lo stato d’animo rivoluzionario, spezzarne la decisione rivoluzionaria” [1].

Una variante particolarmente insidiosa della figura del prete è costituita dal revisionista, ovvero colui che pur definendosi fautore del socialismo ne fornisce una interpretazione funzionale, in ultima istanza, all’ideologia dominante, ovvero alla capacità di egemonia della classe dominante all’interno del suo blocco sociale e nei riguardi della classe dominata. Particolarmente insidiosi non sono gli intellettuali apertamente revisionisti, su posizioni chiaramente riformiste e socialdemocratiche, ma i cosiddetti “centristi”, ovvero coloro che pretenderebbero di essere il giusto mezzo fra la destra riformista e la sinistra rivoluzionaria. Esemplare da questo punto di vista è la figura del secondo Kautsky, del Kautsky della maturità, definito sprezzantemente da Lenin “il rinnegato”. In effetti, il primo Kautsky, segretario e uomo di fiducia del vecchio Engels, a cui quest’ultimo aveva consegnato il lascito marxiano, era stato per diversi anni generalmente considerato come il più significativo e rigoroso pensatore marxista. I meriti giovanili divengono, nel momento in cui Kautsky assume posizioni revisioniste di stampo “centrista”, un ulteriore elemento che rende particolarmente insidiosa l’ideologia di cui si fa portatore. Nonostante le apparenze socialiste, Kautsky è in effetti a poco a poco divenuto, senza averne presumibilmente nemmeno una piena consapevolezza, un intellettuale funzionale all’egemonia della classe dominante e proprio perciò Lenin denuncia come essenzialmente pretesca la funzione consolatoria che assume nei riguardi di chi appartiene alle classi sociali subalterne.

Così, anche dinanzi allo spaventoso bagno di sangue della Prima guerra mondiale, in cui l’imperialismo aveva infine mostrato anche nei paesi colonizzatori il proprio sanguinario vero volto – favorendo così le forze rivoluzionarie intente a mostrare che l’unico modo per mettere fine a questi spaventosi bagni di sangue è di eliminarne la causa (il necessario sviluppo in senso imperialista del capitalismo) – Kautsky al contrario mira a consolare il subalterno “con gli esempi delle guerre del tempo in cui la borghesia era rivoluzionaria o progressiva e in cui ‘lo stesso Marx’ desiderava la vittoria dell’una o dell’altra borghesia; lo consola con delle filze e delle colonne di cifre dimostranti la ‘possibilità’ di un capitalismo senza colonie e senza rapina, senza guerra e senza armamenti, attestanti i vantaggi di una ‘democrazia pacifica’” [2].

Kautsky cerca di dimostrare la possibilità di un ritorno – anche ora che nella Grande guerra l’imperialismo mostra anche in patria la sua reale essenza feroce e predatoria, che precedentemente si era manifestata apertamente esclusivamente nelle colonie – non dimostrando di essersi fatto egemonizzare, come l’apertamente revisionista Bernstein, dai radicali, dai liberali di sinistra alla J. Hobson, che consideravano l’imperialismo uno sviluppo non necessario e perciò reversibile del capitalismo. Del resto anche la maggioranza riformista del partito di Kautsky si era schierata apertamente con l’imperialismo tedesco, con la giustificazione che essendo necessario, da un punto di vista marxista, lo sviluppo in senso imperialista del capitalismo, nel caso di guerra inter-imperialista era necessario schierarsi contro la componente più pericolosa e regressiva dell’imperialismo che, guarda caso, era proprio l’imperialismo nemico del proprio.

Dunque, Kautsky per difendere la propria posizione centrista, essenzialmente pacifista, dinanzi al socialsciovinismo della destra maggioritaria nella socialdemocrazia tedesca – che non solo aveva votato i crediti di guerra, ma era entrata a far parte del governo di unità nazionale considerato necessario al pieno sostegno al proprio imperialismo in guerra – sviluppa la concezione del cosiddetto ultraimperialismo (o superimperialismo). Secondo tale concezione il capitalismo, nel suo sviluppo imperialista, si distaccherebbe sempre più dalla sua base nazionale sviluppandosi in una dimensione transnazionale, la sola adeguata alla formazione del mercato mondiale. In tal modo, quindi, la conflittualità fra potenze imperialiste e la stessa necessità del capitalismo nella fase imperialistica di ricorrere alla guerra, per superare le proprie contraddizioni strutturali, verrebbe progressivamente meno, in quanto l’unificazione transnazionale dell’imperialismo porterebbe al venir meno delle contraddizioni inter-imperialiste. In tal modo, non solo la guerra imperialista, che divampava allora a livello mondiale, sarebbe stata essenzialmente un residuo di un’epoca destinata a venire del tutto superata dalla dimensione transnazionale dell’ultraimperialismo che, grazie al suo dominio ormai incontrastato a livello internazionale, avrebbe garantito un’epoca di pace e di unificazione fra i popoli. Inoltre, divenendo l’imperialismo una ristretta cricca di sfruttatori, ai popoli oppressi uniti dall’ultraimperialismo sarebbe bastata una sollevazione essenzialmente non violenta per realizzare, quando tale sviluppo dell’imperialismo ne avrà prodotto le condizioni oggettive, il passaggio a una società socialista.

Dunque, come denuncia Lenin, la pia illusione kautskyana di “una nuova ‘era’ di disarmo e di pace duratura che ‘può essere’ dinanzi a noi” [3] è funzionale a coprire l’opportunismo di chi ritiene ormai superflua la trasformazione della guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria, che sola può garantire, eliminando la causa prima delle guerre imperialiste, una pace duratura. Proprio perciò la concezione kautskyana dell’ultra-imperialismo è sostanzialmente pretesca, in quanto mirerebbe a convincere, come fanno i piccoli borghesi, il grande capitale – ormai giunto alla sua fase imperialista e sempre più spesso spinto alla guerra dalle sue contraddizioni strutturali – a svilupparsi in modo pacifico. Dunque, osserva Lenin: “ebbene, quando la lotta armata per i privilegi da grande potenza è diventata un fatto, Kautsky incomincia a persuadere i capitalisti e la piccola borghesia che la guerra è una cosa orrenda, e il disarmo invece una cosa buona, proprio alla stessa maniera e con gli stessi risultati del prete che dal pulpito persuade i capitalisti che l’amore del prossimo è voluto da dio, che esso è un’inclinazione dell’anima e la legge morale della civiltà. Ciò che Kautsky chiama tendenze economiche verso l’‘ultraimperialismo’, non è diverso, in realtà, dall’invito piccolo-borghese a non fare del male, rivolto ai finanzieri” [4].

Perciò, il pacifismo professato da Kautsky ha una natura maggiormente regressiva di quello professato, ad esempio in quella stessa epoca, dalla maggioranza dei socialisti italiani, che lo contrapponevano alla guerra imperialista e, per questo, a differenza dei socialdemocratici tedeschi si rifiutarono di votare i crediti di guerra e rimasero all’opposizione rispetto al governo di unità nazionale promosso in funzione dello sforzo bellico, continuando in linea teorica a condannare con energia la guerra prodotta dall’imperialismo. Al contrario secondo Kautsky vi sarebbe nell’imperialismo stesso una tendenza “oggettiva” a un suo sviluppo che avrebbe garantito la pace fra i popoli e creato le condizioni più favorevoli per un passaggio il più indolore possibile al socialismo.

Ciò porta Lenin ad accusare la concezione ultra-imperialista elaborata da Kautsky di essere in realtà non social-pacifista, come quella degli italiani socialisti a parole e pacifisti nei fatti, ma social-sciovinista, come quella della maggioranza di destra della socialdemocrazia tedesca, socialista a parole, ma sciovinista nei fatti. Perciò, a suo avviso, “la più sottile teoria del socialsciovinismo, quella più ingegnosamente pseudoscientifica e pseudointernazionalista, è la teoria dell’‘ultraimperialismo’ escogitata da Kautsky” [5], in quanto questo sviluppo in senso pacifico dell’imperialismo si sarebbe imposto se nel conflitto inter-imperialista si fossero affermate le forme più mature e avanzate come quelle tedesche, rispetto all’imperialismo arretrato e regressivo russo. In effetti, di contro alle forze rivoluzionarie che spingevano per sfruttare le condizioni oggettive venutesi a creare con la guerra imperialista, per una rivoluzione socialista, la posizione di Kautsky finiva per coprire, dalle sue posizioni “centriste”, il tradimento della maggioranza del suo partito che da ala destra del movimento operaio, con il sostegno alla guerra era divenuta ala sinistra della borghesia.

Kautsky, criticando come soggettiviste ed estremiste le posizioni dei rivoluzionari, che volevano forzare il corso del mondo e sviluppare una strategia rivoluzionaria in una fase di oggettiva debolezza degli Internazionalisti, finiva con il giustificare come più saggia la logica attendista dei riformisti, visto che lo stesso sviluppo dell’imperialismo avrebbe creato le condizioni più favorevoli al passaggio al socialismo. Secondo Lenin, infatti, “i socialdemocratici di sinistra deducono la necessità di azioni rivoluzionarie dalla necessità dell’imperialismo. La ‘teoria dell’ultraimperialismo’ serve a Kautsky per giustificare gli opportunisti e per presentare le cose come se essi non fossero passati dalla parte della borghesia, ma, semplicemente, ‘non credessero’ al socialismo immediato, aspettando una nuova ‘era’ di disarmo e di pace duratura che ‘può essere’ dinanzi a noi” [6].

Ci si potrebbe domandare che senso abbia oggi ritornare sulla critica alla concezione ultraimperialista di cui non parla più nessuno. In realtà tale concezione, sebbene non direttamente, anche a causa delle dure critiche di Lenin, torna costantemente in forme solo apparentemente diverse quale forma più sottile di revisionismo rispetto alla concezione marxista dell’imperialismo. Pochi anni fa, ad esempio, ebbe grandissimo successo, fra tutta la sinistra revisionista, la teoria dell’Impero elaborata da T. Negri che sostanzialmente riprendeva, senza citarlo, la concezione revisionista di Kautsky.

Del resto, se anche questa forma di revisionismo è stata così ampliamente smentita dagli sviluppi storici da essere abbandonata anche dai suoi più fanatici sostenitori, la concezione kautskyana si ripresenta oggi in due diverse forme. Da una parte abbiamo i sostenitori – sedicenti comunisti – dell’Unione europea che la considerano un progresso per la pace in Europa e la costituzione di una sorta di ultraimperialismo che creerebbe delle condizioni più vantaggiose, rispetto a quelle attuali, per il superamento in senso socialista del capitalismo. Dall’altra la concezione kautskyana si ripresenta nei sostenitori della dimensione ormai compiutamente transnazionale del capitalismo, per cui sarebbero destinate a venir meno le contraddizioni inter-imperialiste e non bisognerebbe più puntare a rompere la catena degli Stati imperialisti nell’anello più debole, ma affrontare direttamente il capitale transnazionale. Di quest’ultima opzione vi è una variante che ritiene che tale dimensione transnazionale del capitalismo sarebbe una forma di oppressione degli stati nazionali, per cui sarebbe necessario sviluppare un nazionalismo, un patriottismo di sinistra anche all’interno di paesi imperialisti. In tal modo, vediamo come ancora oggi i sostenitori, spesso inconsapevoli, dell’ultraimperialismo finiscono per portare avanti una forma, per quanto sottile, di social-sciovinismo, sostenendo il proprio imperialismo contro altre forme di imperialismo apparentemente più pericolose.

Anche in tal caso abbiamo due varianti, quelli che sostengono l’imperialismo italiano di contro al più pericoloso imperialismo statunitense, che lo opprimerebbe, e quelli che lo appoggiano in contrapposizione all’Unione europea, che ne negherebbe la sovranità. In entrambi i casi si perde di vista l’aspetto essenziale dal punto di vista del marxismo rivoluzionario, ovvero che il primo imperialismo da combattere, per fare la rivoluzione, è il proprio imperialismo, come hanno sostenuto e fatto tanto Lenin che Rosa Luxemburg.

Note
[1] I. V. Lenin,“Il fallimento della II Internazionale” (maggio-giugno 1915), in Sulla rivoluzione socialista, Edizioni Progress, Mosca 1979, p. 24-5.
[2] Ivi: p. 25.
[3] Ivi: p. 17.
[4] Ivi: p. 22.
[5] Ivi: p. 15.
[6] Ivi: p. 17.

28/07/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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