Il «ritorno del rimosso». Dalla guerra imperialista al conflitto nucleare?

Una riflessione sulle dinamiche del mondo contemporaneo, i recenti sviluppi dello scenario internazionale, le contraddizioni aperte e le sfide poste ai movimenti di lotta contro l’imperialismo, contro la guerra imperialista, e per la pace.


Il «ritorno del rimosso». Dalla guerra imperialista al conflitto nucleare?

Le coordinate dell’imperialismo

Se, riprendendo la celebre espressione di Jean Jaurès, “il capitalismo porta la guerra come la nube porta la tempesta”, e cioè la guerra è fattore intrinseco del modo di produzione capitalistico e naturale conseguenza della logica dell’accumulazione, della massimizzazione del profitto e dell’esasperazione della competizione su scala planetaria, che sono le fondamenta della logica e della struttura del capitalismo stesso, allora è a maggior ragione vero che l’imperialismo, in quanto «fase suprema del capitalismo», è sinonimo non solo di primato del capitale finanziario, ma anche, nuovamente, di guerra. Cosa significa, in tal senso, «fase suprema», è presto detto, tenendo a mente la fondamentale lezione di Lenin: l’imperialismo non è la fase “più avanzata” o “più evoluta”, quanto piuttosto la fase “terminale”, estrema e radicale, del modo di produzione capitalistico, nella sua evoluzione storica e sociale, giunto alla fase attuale del proprio sviluppo. 

Ci allontaneremmo dal nucleo della riflessione se ci dilungassimo nella letteratura dedicata all’imperialismo e ai diversi modi di configurare la categoria stessa di imperialismo: seguendo ancora la traccia (teorica e politica) indicata da Lenin (1917), e quindi l’esigenza di una lettura e di un’interpretazione della categoria che siano, al tempo stesso, teoricamente solide (capaci di intercettare la sostanza del modo di produzione nella fase contemporanea del suo sviluppo storico) e politicamente efficaci (adeguate a fornire non solo categorie di interpretazione ma anche strumenti di lotta), vale la pena soffermarsi sui ben noti cinque “contrassegni”, vale a dire sulla caratterizzazione dell’imperialismo e su una possibile proiezione nell’attualità.

Intanto, con Lenin, una definizione: “Se si volesse dare la definizione più concisa possibile dell’imperialismo, si dovrebbe dire che l’imperialismo è lo stadio monopolistico del capitalismo. Tale definizione conterrebbe l’essenziale, giacché, da un lato, il capitale finanziario è il capitale bancario delle poche grandi banche monopolistiche fuso col capitale delle unioni monopolistiche industriali, e, d’altro lato, la ripartizione del mondo significa il passaggio dalla politica coloniale, estendentesi senza ostacoli ai territori non ancor dominati da nessuna potenza capitalistica, alla politica coloniale del possesso monopolistico della superficie terrestre”.

Quindi, nello specifico:

1) la concentrazione della produzione e del capitale, spinta a tal punto da dare vita alla formazione di oligopoli e monopoli, che svolgono una funzione sempre più condizionante e determinante non solo nella dinamica economica, ma anche nella sfera politica;

2) la formazione e il primato del capitale finanziario, a partire dalla fusione del capitale bancario con il capitale industriale, un primato espresso sia dalla formazione di una vera e propria, come scrive Lenin, «oligarchia finanziaria», sia dal ruolo sempre più preponderante di questo capitale negli equilibri e nelle iniziative politico-economiche su scala internazionale;

3) la prevalenza dell’esportazione di capitali in confronto con la tradizionale esportazione di merci;

4) la formazione di associazioni internazionali di capitalisti, di natura monopolistica, la cui influenza e il cui potere sono crescenti e che giungono a ripartirsi il mondo, per aree di interesse e mercati di riferimento; e, in definitiva,  

5) la compiuta ripartizione della terra (in termini di aree di interesse e mercati di riferimento) tra le più grandi potenze capitalistiche (imperialistiche).

Sintetizzando ancora, la prevalenza del capitale finanziario e dell’esportazione di capitale finanziario, il ruolo dominante sulla scena nazionale e internazionale delle grandi associazioni internazionali di capitalisti di natura monopolistica, e la partecipazione a una vera e propria «ripartizione della terra» (in termini di aree di interesse e mercati di riferimento), rappresentano i fattori chiave della natura imperialistica di una determinata formazione economico-sociale e, quindi, di un determinato Paese. È il grado di sviluppo del capitale, il grado di sviluppo cui è giunto il modo di produzione capitalistico su base nazionale e nella sua proiezione internazionale, a indicare se una determinata realtà capitalistica sia anche propriamente imperialista. 

Imperialismo oggi: quali attori?

La recente notizia dell’operazione avviata dal gruppo bancario italiano, UniCredit, per acquisire, dall’attuale 9%, il 30% del gruppo bancario tedesco Commerzbank, e che ha intanto portato UniCredit ad acquisire la quota del 4,49% (53,1 milioni di azioni) che lo Stato tedesco ha messo in vendita in Commerzbank, è significativa in sé, dal punto di vista economico-finanziario e dello scontro di interessi inter-imperialistici anche tra Paesi membri dell’Unione europea, ma anche dal punto di vista delle relazioni e delle proiezioni internazionali delle “associazioni internazionali di capitalisti, di natura monopolistica” che si muovono sullo scenario mondiale. Peraltro, stiamo parlando di due attori di primaria importanza, trattandosi, nel caso di UniCredit, del secondo gruppo bancario italiano (con una rilevantissima presenza in Europa centro-orientale, primo gruppo bancario in Austria, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Bulgaria) e, nel caso di Commerzbank, del quarto gruppo bancario tedesco, anch’esso con un peso assai rilevante in patria e all’estero. 

È altrettanto significativo osservare la struttura proprietaria dei due gruppi: in UniCredit, tra i principali azionisti figurano due società finanziarie, BlackRock e Allianz, e il 38% del capitale fa riferimento a investitori basati negli Stati Uniti; in Commerzbank, il 15% è detenuto dallo Stato tedesco (attraverso il Fondo speciale per la stabilizzazione del mercato finanziario), e un altro 25% è di proprietà di investitori privati. Il primato dei fondi e delle società finanziarie e il ruolo, anche politico, della dinamica degli investimenti diretti esteri (il primato del capitale finanziario nello scenario capitalistico internazionale) sono elementi cruciali di questo “big game” imperialistico: in base alla definizione della Banca d’Italia, infatti, “gli investimenti diretti sono gli acquisti di quote del capitale azionario di un’impresa che opera in un Paese diverso da quello in cui risiede l’investitore diretto, con l’obiettivo di esercitare un controllo o un grado di influenza significativo sulla gestione dell’impresa e stabilire, con questa, un legame durevole” (Banca d’Italia, 18 dicembre 2023). 

Il ruolo dei grandi fondi di investimento, le grandi associazioni finanziarie internazionali di capitalisti, di natura monopolistica, è particolarmente esemplificativo della dinamica in atto dell’imperialismo: i due principali fondi di investimento mondiale (BlackRock e Vanguard) gestiscono un valore pari a ca. il 15% dell’intero Pil mondiale; i principali dieci fondi detengono tra il 30% e il 40% delle prime 500 società mondiali; dei primi venti fondi di investimento, ben quindici (tra cui tutti i primi cinque) sono basati negli Stati Uniti, appena due in Francia, uno in Gran Bretagna, uno in Germania e uno in Svizzera, il che chiaramente indica dove si concentra il potere finanziario del capitalismo mondiale e dove si attestano le principali potenze imperialiste. 

Se ben delineata è dunque la «catena dell’imperialismo mondiale», con gli Stati Uniti in primo luogo e le principali potenze capitalistiche occidentali al centro di questo panorama, va messa altrettanto chiaramente in risalto la natura degli altri soggetti, alla luce del fatto, evidenziato ad esempio da Alessandro Volpi, che l’imperialismo, sostenuto dalle politiche statali e dai quadri normativi espressi dai governi nazionali (“il potere statale moderno non è altro che un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese [...]. Il potere politico, nel senso vero e proprio della parola, è il potere organizzato di una classe per opprimerne un’altra”, scrivono Marx ed Engels nel Manifesto del Partito Comunista, 1848), esprime «una concentrazione di potere e di capacità di incidere sul panorama politico e sociale, oltre che economico, mai conosciuta nella storia contemporanea. Per fare un confronto, i due più grandi fondi sovrani del mondo, di proprietà degli Stati, il Fondo petrolifero norvegese e il Fondo statale cinese, superano di poco i 2.000 miliardi di dollari», a fronte del fatto che i primi due gruppi privati superano rispettivamente i 10.000 e gli 8.000 miliardi di dollari.

In questo scenario, alla luce della caratterizzazione dell’imperialismo contemporaneo, è possibile anticipare la conclusione in base alla quale la Repubblica popolare cinese, a dispetto dell’enfasi posta sul tema anche da soggetti della “sinistra di alternativa”, soprattutto di area libertaria e trozkista, non è una realtà imperialista. Il capitale finanziario non è un elemento decisivo nella struttura economica cinese: la proprietà statale e, in particolare, le aziende statali rappresentano oltre un terzo dell’economia cinese e oltre un quarto di tutte le aziende maggiori nel mondo, presenti nella lista Global Fortune 500; in questa lista, delle prime dieci, tre sono cinesi (State Grid, Sinopec, China National Petroleum Corporation). Le aziende di proprietà statale sono nel quadro della direzione economica statale della Repubblica popolare cinese e i loro obiettivi non rispondono a interessi e orientamenti di natura esclusivamente economico-quantitativa, come dimostra anche il fatto che “il margine di profitto medio delle imprese di proprietà pubblica cinesi, pur presenti nella lista Global Fortune 500, è di appena il 3,5%”. Inoltre, il complesso costituito dalle aziende di proprietà statale o sotto influenza o controllo statale costituisce la totalità delle maggiori e più importanti aziende cinesi; la Commissione statale per la supervisione e l’amministrazione dei beni di proprietà statale del Consiglio di Stato della Repubblica popolare cinese controlla 97 grandi aziende statali, con un patrimonio di oltre 30 mila miliardi di dollari (2023). 

La struttura stessa del sistema economico cinese, regolata dalla pianificazione e a prevalente proprietà pubblica e statale, è particolarmente articolata in quanto comprende l’economia statale, collettiva, privata, individuale, a gestione congiunta, a composizione azionaria. Lo Stato mantiene il controllo su tutti i fattori fondamentali e su tutti i comparti strategici: terra, industria pesante, energia, trasporti, infrastrutture, comunicazioni, finanza e commercio estero, mentre la produzione privata è a propria volta incoraggiata nella misura in cui stimola e dinamizza lo sviluppo tecnologico, il mercato interno e la modernizzazione. A tal proposito, come ribadito in più occasioni dal presidente cinese Xi Jinping, “la modernizzazione cinese è la modernizzazione socialista perseguita sotto la direzione del Partito comunista cinese” (settembre 2023). 

La dinamica stessa della esportazione di capitale in Cina si svolge in modalità che non corrispondono alla nota caratterizzazione dell’imperialismo contemporaneo. La stragrande maggioranza degli investimenti esteri cinesi proviene da banche o comparti economici di proprietà statale; la natura di tali investimenti non è speculativa e a breve termine, bensì generativa e mirata ad alimentare fattori produttivi locali o ottenere materie prime necessarie per l’economia cinese; la logica della cooperazione bilaterale cinese è improntata a un modello di reciproco beneficio, volto ad accompagnare i benefici economici con i benefici politici legati ai rapporti partenariali instaurati (il contrario delle logiche imperialiste del condizionamento politico e militare quando non, addirittura, di destabilizzazione, colpi di stato politici e militari, rovesciamento di governi legittimi). 

Tempo addietro questa logica fu ben rappresentata, in audizione alla Commissione congressuale Usa-Cina nel 2005, da Princeton Lyman, già Sottosegretario di Stato per gli affari delle organizzazioni internazionali: “La Cina utilizza una varietà di strumenti per promuovere i propri interessi in modi che le nazioni occidentali possono solo invidiare. La maggior parte degli investimenti cinesi avviene tramite aziende statali, i cui investimenti individuali non devono essere redditizi se servono obiettivi cinesi generali. Così, il rappresentante della società di costruzioni statale cinese in Etiopia potrebbe rivelare di essere stato incaricato da Pechino di fare offerte basse su vari appalti, senza riguardo per il profitto. L’obiettivo a lungo termine della Cina in Etiopia è infatti l’accesso a futuri investimenti nelle risorse naturali, non i profitti delle attività di costruzione”.

L’imperialismo e i suoi strumenti

La gamma di strumenti ad uso dell’imperialismo occidentale è di tutt’altra natura e di ben più sconvolgente impatto. Si va dalle aggressioni armate (dalla guerra di Corea del 1950 alla guerra in Iraq del 1990, passando per il Vietnam e una lunga lista di aggressioni militari, fino alle cosiddette new wars, le nuove guerre “celesti”, inaugurate dall’aggressione alla Jugoslavia del 1999, con l’indimenticata responsabilità delle socialdemocrazie europee del tempo, in Italia il centro-sinistra con il governo D’Alema), alle cosiddette rivoluzioni colorate, vale a dire la manipolazione delle manifestazioni di protesta, con l’utilizzo di fazioni di società civile “eterodiretta” e talvolta componenti armate, allo scopo di alimentare caos e destabilizzazione e provocare la caduta di autorità invise o inaffidabili agli occhi dell’imperialismo statunitense (dalla rivoluzione dei bulldozer in Serbia, nel 2000, al caso eclatante del golpe di Euromaidan in Ucraina, nel 2014, passando per le varie rivolte “delle rose”, in Georgia, “dei tulipani” in Kirghizistan, “dei cedri” in Libano e così via). 

E si continua poi con le moderne forme di “guerra ibrida”, in cui sempre più influente e strategico diventa il ruolo dei media, in particolare dei new media, e poi ancora con le diverse applicazioni dei colpi di stato, ieri in forme tradizionali, oggi nelle moderne forme del “lawfare”, l’utilizzo dei poteri costituzionali e degli organi giudiziari per delegittimare o rovesciare autorità legittime (non solo in America Latina: il colpo di mano di Macron, in Francia, all’indomani delle elezioni legislative francesi, che hanno consegnato la maggioranza alle forze della sinistra del Nuovo fronte popolare, è un caso esemplare). Dunque, una modalità di gestione e mantenimento del potere che non lascia indifferente neanche l’“Europa delle costituzioni”, a conferma che la soluzione autoritaria e perfino la sortita eversiva restano a disposizione delle classi dominanti, peraltro sempre più in crisi di legittimità e di credibilità, nell’affermazione e nella conservazione del proprio potere. 

Tutto ciò avviene sullo sfondo di uno scenario di vasta portata, nel quale è ben disegnata la contraddizione principale: quella tra un presunto «ordine globale basato sulle regole», a uso e consumo dell’imperialismo occidentale e che si regge sull’arbitraria dicotomia tra “democrazie” (occidentali) e “autocrazie” (non occidentali), e l’orizzonte di un rinnovato multilateralismo e del mondo multipolare. A quest’ultimo si contrappone il disegno dell’imperialismo a guida statunitense: negazione del principio dell’eguaglianza sovrana delle nazioni; compressione del ruolo delle Nazioni Unite e mortificazione del dettato della Carta delle Nazioni Unite; politica dei doppi standard; egemonismo degli Stati Uniti e continua espansione della Nato. Sono proprio questi ultimi fattori, d’altra parte, a segnalare il rischio sempre più concreto e minaccioso dello slittamento di paradigma in corso: dalla terza guerra mondiale “a pezzi” a una guerra mondiale “conclamata”. Una guerra che oggi si combatte, con una dinamica territoriale estesa e un impatto strategico inedito, già su tre fronti: in Ucraina, in Medio Oriente e nel Mar Cinese Meridionale, in particolare (ma non solo) tra Cina e Filippine. 

La principale minaccia alla pace

Tra Ucraina e Russia, si combatte, nella forma di una guerra per procura di Stati Uniti e Alleanza Atlantica contro la Russia, e che sempre più da vicino minaccia di trasformarsi in guerra diretta delle potenze occidentali contro la Russia stessa, una vera e propria «guerra costituente», destinata a modificare, in un modo o nell’altro, gli equilibri, i rapporti di forza, e il panorama internazionale complessivamente inteso. Il terreno dello scontro è agito oggi contro la Russia, domani contro la Cina, definita dai documenti statunitensi come l’antagonista strategico. Questo terreno definisce oggi la principale motivazione che spinge anche l’Unione europea a investire maggiormente sul militare e in particolare sulla guerra e sul complesso militare-industriale. 

La Nato rappresenta, in questo scenario, un fattore di destabilizzazione e di guerra sempre più aggressivo e preoccupante. Non solo si espande sempre più in Europa, prima con l’adesione di Svezia e Finlandia, precedentemente neutrali, poi con nuove strutture in Lettonia e Lituania, il nuovo comando di addestramento delle truppe ucraine in Germania, e perfino la realizzazione di una nuova base a Costanza, in Romania, sul Mar Nero, che potrà ospitare 10.000 soldati e sarà la più grande in assoluto in Europa, direttamente ai confini della Russia. Ma sfida direttamente la Carta delle Nazioni Unite, rendendo concreta la minaccia di una apocalisse nucleare: “Se la sicurezza fondamentale di un alleato della Nato dovesse essere minacciata, la Nato ha le capacità e la determinazione per imporre all’avversario costi che sarebbero inaccettabili e che supererebbero di gran lunga i benefici che qualsiasi avversario potrebbe mai sperare di ottenere”. 

Gli Stati Uniti rappresentano oggi la principale minaccia alla pace e il principale fattore di guerra nel mondo. Secondo i dati SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute), la spesa militare mondiale ha superato i 2.400 miliardi di dollari, con un aumento del 6,8% nel 2023 rispetto al 2022. Gli Stati Uniti da soli rappresentano il 37% della spesa militare mondiale e da soli spendono più della somma delle altre potenze (Cina, Russia, India, Arabia Saudita, Gran Bretagna, Germania, Francia, Giappone, Australia, Italia, Israele) messe insieme. I Paesi della Nato nel loro insieme spendono il 55% della spesa militare mondiale, oltre 1.300 miliardi di dollari, e cioè la Nato spende più della metà di quanto spendono tutti i Paesi del mondo insieme.

Quanto all’Unione europea, il recente Piano per la difesa comune europea (febbraio 2024), prevede un programma dal valore di 100 miliardi di euro incentrato proprio sull’aumento della produzione militare, degli scambi interni, e della cooperazione europea nell’ambito del complesso militare-industriale. I principali punti della strategia europea sono quattro: spendere «di più», spendere «meglio», spendere «in Europa», e «imparare sul campo», dall’Ucraina, facendo dello scenario ucraino (con tutte le sue problematiche e aberrazioni) una inquietante lesson learned, proponendosi come soggetto attivo nell’escalation di guerra, e confermandosi quale polo di natura imperialistica subordinato al comando atlantico in questa strategia di rinnovata guerra globale. 

Il ruolo dell’Europa e i compiti del movimento contro la guerra e per la pace

L’Unione europea, nella sua Bussola strategica (marzo 2022), ha già delineato una propria caratterizzazione di guerra, o, nel linguaggio della diplomazia comunitaria, «un deciso salto di qualità [per] aumentare la nostra capacità e la nostra volontà di agire, rafforzare la nostra resilienza e investire di più e meglio nelle nostre capacità di difesa»: “Una Ue più forte e più capace in materia di sicurezza e difesa apporterà un contributo positivo alla sicurezza globale e transatlantica ed è complementare alla Nato, che resta il fondamento della difesa collettiva per i suoi membri. Intensificherà inoltre il sostegno all’ordine globale basato sulle regole”. 

In questa cornice, il cosiddetto Rapporto Draghi (Rapporto sul futuro della competitività europea, settembre 2024) imposta un piano di competitività che punta nella direzione di rafforzare l’Unione europea come polo imperialistico a partire dalla previsione di maggiori e meglio coordinati investimenti in infrastrutture, tecnologie ed energia; dall’obiettivo di «incrementare la sicurezza e ridurre le dipendenze» su chip e materie prime attraverso nuove strategie di politica estera specie per quanto riguarda le risorse fondamentali (coltan, litio etc.) allo stanziamento di maggiori risorse, investimenti e coordinamento politico per lo sviluppo del settore militare, con una previsione di spesa complessiva di almeno 750-800 miliardi di euro aggiuntivi annui. 

Il Rapporto Draghi indica i tre obiettivi strategici dell’Ue: 1) innovazione e tecnologie avanzate, 2) transizione energetica e decarbonizzazione, 3) nell’ottica del potenziamento militare e strategico: investimenti comuni, fusioni tra aziende maggiori, coordinamento tra Stati membri, investimenti diretti e «principio di preferenza europea» per incentivare il ricorso a soluzioni comunitarie nel settore militare. Si tratta di una sorta di piano strategico per un rinnovato warfare europeo e per la guerra. È a questo livello dello scontro, a questa altezza della sfida, che saranno chiamati a situarsi l’elaborazione e la mobilitazione nella lotta contro la guerra e per la pace. 

Bibliografia:

[1] Steven Argue, “Russia e Cina non sono imperialiste”, The Greanville Post, 6 maggio 2015.

[2] Allen J. Morrison, J. Stewart Black, “Il dominio economico della Cina è al punto di flesso?”, Harvard Business Review Italia, marzo 2024.

[3] Alessandro Volpi, “I fondi d’investimento, padroni del mondo”, Sbilanciamoci, 20 giugno 2024.

[4] Dario Lucisano, “Più fondi e meno burocrazia per i produttori di armi: il piano Draghi per la nuova Europa”, L’Indipendente, 5 settembre 2024.

[5] Xi Jinping: “La modernizzazione cinese è la modernizzazione socialista guidata dal PCC”, originariamente apparso sul Qiushi Journal, edizione cinese, n. 11, 2023, ripubblicato in italiano, 16 aprile 2024.

[6] NATO’s nuclear deterrence policy and forces.

[7] Una bussola strategica per rafforzare la sicurezza e la difesa dell'UE nel prossimo decennio.

[8] Banca d’Italia, Investimenti diretti per paese controparte, Data pubblicazione: 18 dicembre 2023.

27/09/2024 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Gianmarco Pisa

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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