Nei Quaderni del carcere Antonio Gramsci pur utilizzando il concetto di imperialismo quasi sempre in riferimento alla concezione marxista – in modo esplicito o, più spesso, implicito – non sempre se ne giova in senso tecnico. Vi è, ad esempio, in riferimento all’Italia (anche se si tratta di un testo B) una oscillazione fra la componente oggettiva economica dell’imperialismo e l’aspetto politico. Qui il concetto e la sottintesa teoria dell’imperialismo è applicata nell’analisi di uno dei problemi centrali di cui si occupa Gramsci nei Quaderni: il ruolo e la funzione degli intellettuali italiani. Va comunque distinta dal concetto l’ideologia imperialista – “imperialismo-castello in aria” [1] la definisce Gramsci in un testo A, che può anche non corrispondere a bisogni economici reali – ma rispondere ad altre esigenze.
In primo luogo vi è un utilizzo del concetto di “imperialismo”, conforme alla tradizione marxista classica, influenzato in particolare dal quadro storico offerto da Marx ne Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte. In tale opera Marx analizza il passaggio dalla funzione progressiva della borghesia nella fase liberale al suo ruolo conservatore e, quindi, reazionario con l’affermarsi della fase imperialista. Vi sarebbe, dunque, una fase espansiva del modo di produzione capitalistico che durerebbe sino al sorgere dello sviluppo della fase imperialista, di cui Gramsci delinea i principali connotati. In seguito alla rottura con la società di ancien régime operata dalla Rivoluzione francese, dal punto di vista giuridico-costituzionale si afferma il “regime parlamentare, che realizza, nel periodo più ricco di energie «private» nella società, l’egemonia permanente” della borghesia sull’insieme sociale nella forma “del governo col consenso permanentemente organizzato (ma l’organizzazione del consenso è lasciata all’iniziativa privata, è quindi di carattere morale o etico, perché consenso «volontariamente» dato)” (13, 37: 1636). Mediante l’incessante sviluppo economico la classe dominante assorbe in modo molecolare [1] «gli elementi sociali più ricchi di energia e di spirito d’intrapresa» degli altri gruppi sociali, “la società intera è in continuo processo di formazione e di dissoluzione seguita da formazioni più complesse e ricche di possibilità” (ivi: 1637). Da tale fase liberale, per i paesi capitalisti dell’Europa occidentale, con l’esplodere delle prime crisi di sovrapproduzione, si passa alla fase imperialista che vede la spartizione del mondo fra le grandi potenze sino alla Belle epoque [3] . Con l’aggravarsi della crisi i grandi imperi coloniali attuano una “politica di libero scambio interimperiale e di protezionismo” (2, 125: 267) verso l’esterno, che li pone in contrasto con le potenze capitaliste emergenti. Il controllo economico sull’impero e il protezionismo sono, quindi, motivi di guerre, prodotte dallo sviluppo in senso imperialista.
Sul piano della politica interna tale fase è caratterizzata dall’affermarsi del modello “bonapartista regressivo”, in cui le garanzie costituzionali liberali sono progressivamente annullate dal rafforzarsi degli esecutivi. Questi ultimi tendono progressivamente a governare mediante decreti legge. Gramsci a tal proposito mette in evidenza “il distacco più o meno grande tra le leggi fondamentali e i regolamenti d’esecuzione che annullano le prime o ne danno un’interpretazione restrittiva; l’impiego più o meno esteso dei decreti-legge che tendono a sostituire la legislazione ordinaria e la modificano in certe occasioni, «forzando la pazienza» del parlamento fino a giungere a un vero e proprio «ricatto della guerra civile»” (ivi: 1637-38).
In secondo luogo, Gramsci s’interessa a quel modello sviluppato che costituisce la forma più compiuta di società imperialista che era l’impero coloniale inglese, in grado di elaborare i propri intellettuali organici, come R. Kipling [4], atti a fornire una “morale civica corrispondente” (3, 146: 402). Nonostante in Inghilterra entrambi i partiti dominanti sostenessero la politica imperialista [5], questa mostrava il proprio limite nel nazionalismo della classe dirigente inglese che “ha impedito la fusione in una sola classe imperiale unificata dei gruppi nazionali che necessariamente si andavano formando in tutte le terre dell’impero” (17, 53: 1949). Per cui “solo un semita spregiudicato come Disraeli poteva essere l’espressione dell’imperialismo organico inglese”. Del resto, nota ancora Gramsci, “è evidente che l’impero inglese non poteva fondarsi sotto un’impalcatura burocratico-militare come avvenne per quello romano: fecondità del programma di un «parlamento imperiale» pensato da Disraeli. Ma questo parlamento imperiale avrebbe dovuto legiferare anche per l’Inghilterra, cosa assurda per un inglese” (ibidem). D’altra parte, se il superamento del particolarismo nazionale in nome degli interessi transnazionali del capitale finanziario pare un connotato del più moderno imperialismo – che in ciò si distanzia dalle sua basi nazionali per riavvicinarsi al cosmopolitismo dell’impero romano o dell’imperialismo americano che, proprio perciò, tende ad affermarsi sul britannico – tuttavia tale soluzione non si afferma in Inghilterra e porta al crollo del suo impero. Così i tentativi di salvare l’impero coloniale ponendolo sotto una direzione condivisa – governando assieme alle classi dominanti dei paesi (i dominions) abitati prevalentemente da discendenti di coloni inglesi – sono destinati a fallire, in quanto lo sviluppo di “una reale unità «internazionale»” (2, 48: 201) entra in contrasto con gli interessi particolari dei diversi paesi. Perciò Gramsci ne conclude che la politica internazionale di cui avrebbe bisogno l’Inghilterra non esiste e ciò porta necessariamente a un contrasto fra i suoi interessi e quelli dei dominions [6].
Note:
[1] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1977, p. 45. D’ora in poi citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando il quaderno, il paragrafo e il numero di pagina di questa edizione.
[2] “Il «limite» trovato dai giacobini nella legge Chapelier e in quella del maximum, viene superato e respinto più lontano progressivamente attraverso un processo completo, in cui si alternano l’attività propagandistica e quella pratica (economica, politico-giuridica): la base economica, per lo sviluppo industriale e commerciale, viene continuamente allargata e approfondita, dalle classi inferiori si innalzano fino alle classi dirigenti” (ivi, 1636-37).
[3] “Ciò dura, in linea generale, fino all’epoca dell’imperialismo e culmina nella guerra mondiale. In questo processo si alternano tentativi di insurrezione e repressioni spietate, allargamento e restrizioni del suffragio politico, libertà di associazione e restrizioni o annullamenti di questa libertà, libertà nel campo sindacale ma non in quello politico, forme diverse di suffragio, scrutinio di lista o circoscrizioni uninominali, sistema proporzionale o individuale, con le varie combinazioni che ne risultano – sistema delle due camere o di una sola camera elettiva, con vari modi di elezione per ognuna (camera vitalizia ed ereditaria, Senato a termine, ma con elezione dei Senatori diversa da quella dei deputati ecc.) –, vario equilibrio dei poteri, per cui la magistratura può essere un potere indipendente o solo un ordine, controllato e diretto dalle circolari ministeriali, diverse attribuzioni del capo del governo e dello Stato, diverso equilibrio interno degli organismi territoriali (centralismo o decentramento, maggiori o minori poteri dei prefetti, dei Consigli provinciali, dei Comuni, ecc.), diverso equilibrio tra le forze armate di leva e quelle professionali (polizia, gendarmeria), con la dipendenza di questi corpi professionali dall’uno o dall’altro organo statale (dalla magistratura, dal ministero dell’interno o dallo Stato maggiore); la maggiore o minore parte lasciata alla consuetudine o alla legge scritta, per cui si sviluppano forme consuetudinarie che possono ad un certo punto essere abolite in virtù delle leggi scritte (in alcuni paesi «pareva» si fossero costituiti regimi democratici, ma essi si erano costituiti solo formalmente, senza lotta, senza sanzione costituzionale e fu facile disgregarli senza lotta, o quasi, perché privi di sussidi giuridico-morali e militari, ripristinando la legge scritta o dando della legge scritta interpretazioni reazionarie)” ibidem.
[4] L’opera di Kipling è utilizzata da Gramsci per criticare la forma arretrata di imperialismo italiano. “Potrebbe, l’opera di Kipling, servire per criticare una certa società che pretenda di essere qualcosa senza avere elaborato in sé la morale civica corrispondente, anzi avendo un modo di essere contradditorio coi fini che verbalmente si pone. D’altronde la morale di Kipling è imperialista solo in quanto è legata strettamente a una ben determinata realtà storica : ma si possono estrarre da essa immagini di potente immediatezza per ogni gruppo sociale che lotti per la potenza politica. La «capacità di bruciar dentro di sé il proprio fumo stando a bocca chiusa», ha un valore non solo per gli imperialisti inglesi” ibidem.
[5] Nella forma più adeguata al proprio concetto che l’imperialismo assume in Gran Bretagna ottiene un sostegno bipartisan. Più in generale, osserva Gramsci: “Tradizione inglese di un torismo popolare (Disraeli, ecc.). Dopo le grandi riforme liberali che conformarono lo Stato agli interessi e ai bisogni della classe media, i due partiti fondamentali della vita politica inglese si distinsero su quistioni interne riguardanti la stessa classe, la nobiltà acquistò sempre più un carattere particolare di «aristocrazia borghese» legata a certe funzioni della società civile e di quella politica (Stato) riguardanti la tradizione, l’educazione del ceto dirigente, la conservazione di una data mentalità che garantisce da bruschi rivolgimenti, ecc., la consolidazione della struttura imperiale” (26, 8: 2304).
[6] “Ricerca di equilibrio tra esigenze di autonomia dei Dominions e esigenze di unità imperiale. (…) La difficoltà maggiore dell’equilibrio tra autonomia e unità si presenta naturalmente nella politica estera. Giacché i Dominions non riconoscono più il Governo di Londra come rappresentante della loro volontà nel campo della politica internazionale, si discusse di creare una nuova entità giuridico-politica destinata ad indicare ed attuare l’unità dell’Impero: si parlò di costituire un organo di politica estera imperiale. Ma esiste una reale unità “internazionale”? I Dominions attraverso l’Impero partecipano alla politica mondiale, sono potenze mondiali; ma la politica estera dell’Inghilterra, europea e mondiale, è talmente complicata che i Dominions sono riluttanti ad essere trascinati in quistioni che non li interessano direttamente” (Ivi: 200-01).