Segue da: Videolezione da Kierkegaard al positivismo uscito sullo scorso numero de “La Città Futura”.
Link agli articoli pubblicati su questo giornale in cui sono approfonditi i temi affrontati nella videolezione: Da Comte a Spencer; Nietzsche.
Il positivismo utilitaristico anglosassone: Spencer e l’applicazione dell’evoluzionismo alle scienze sociali
Il più significativo esponente del positivismo anglosassone è stato Herbert Spencer (1820-1903). Spencer si definisce utilitarista, concezione essenziale alla società capitalistica e decisamente dominante nel mondo anglosassone, in cui più forte è la tradizione liberale. D’altra parte Spencer intende prendere le distanze dalla concezione predominante elaborata da Jeremy Bentham, uno dei massimi ideologi del modo di produzione capitalistico. Secondo la concezione di quest’ultimo, l’azione dell’uomo deve essere considerata buona quando è utile, ossia quando contribuisce alla felicità o alla mancanza di infelicità del maggior numero di persone possibile. A parere di Spencer questa “filosofia del tornaconto” – come la definisce in modo sprezzante – è rozzamente empirista e l’immediatezza del calcolo edonistico proposto da Bentham non può assurgere a legge scientifica, sulla cui base stabilire quale azione sia buona o meno.
Le intuizioni morali fondamentali sono trasmesse, secondo Spencer, mediante l’eredità biologica
Spencer ritiene, al contrario, che nell’evoluzione dell’umanità si siano formate delle fondamentali intuizioni morali, quale risultato di ripetute esperienze di utilità, che si sono un po’ alla volta organizzate e sono trasmesse con l’eredità biologica, tanto da divenire indipendenti dall’esperienza cosciente dell’individuo.
La Statica sociale
Nel 1851 Spencer dà alle stampe quella che definisce “statica sociale”, ovvero la sua concezione della sociologia, caratterizzata dall’attitudine tipicamente positivista di voler dare un fondamento scientifico alle scienze sociali utilizzando il metodo scientifico che si è già affermato nelle scienze naturali. Spencer, a conferma della sua morale, che pretende sia fondata scientificamente, si richiama ai postulati del deismo settecentesco britannico, ovvero la perfettibilità dell’uomo, l’equilibrio degli interessi in assenza di interventi dello Stato sulla società civile e la fatalità del progresso. A quest’ultima credenza, Spencer crede di poter dare una base scientifica, sostenendo che il progresso sarebbe garantito da una legge organica del vivente, sviluppata dalla biologia, ovvero la legge dell’adattamento dell’individuo al proprio ambiente naturale, che tende a stabilire una congruità tra le facoltà dell’agente e le circostanze dell’azione, evitando così, progressivamente, le azioni cattive.
Scientismo e religione
Spencer mira a superare la principale remora della classe dirigente ad assumere “ufficialmente” il positivismo quale ideologia dominante, ossia la sua attitudine essenzialmente agnostica nei riguardi della religione, che da sempre costituisce uno dei fondamentali instrumentum regni. Peraltro tale posizione scettica verso le credenze religiose favoriva il fiorire nel positivismo di posizioni materialiste che, per quanto rozze potessero essere, accrescevano il terrore sociale della classe dominante. Per superare tali remore e timori Spencer mira a saldare lo scientismo tipico della cultura positivista con la concezione deista del fondamento divino della conoscenza, utilizzando come termine medio la dottrina dell’inconoscibile. In altri termini, il carattere relativo e fenomenico che avrebbe la conoscenza umana – sulla base delle ripresa della gnoseologia empirista di Hume con il suo esito scettico – rinvierebbe necessariamente a qualcosa di assoluto e reale che non ci è dato conoscere. In tale sfera dell’assoluto – presupposto come inconoscibile nella prospettiva intellettualistica di Spencer – avrebbe sede la nostra credenza nella realtà oggettiva del mondo e, quindi, le idee ultime della scienza, con un’evidente riprese della prospettiva romantica di Jacobi. In tale assoluto trascendente avrebbe sede anche l’idea astrattissima di dio, fondamento di ogni religione positiva, con ancora una volta una ripresa delle concezioni deiste del diciottesimo secolo. Peraltro, questa concezione della religione, come già denunciava a ragione Hegel, è particolarmente primitiva e barbara, dal momento che, proprio al contrario, la storia della religione è caratterizzata dal legame sempre più profondo e stretto fra uomo e dio, sino ad arrivare, con il compimento del cristianesimo, alla completa fusione di universale e singolare. Al contrario qui, come già nella concezione di Kierkegaard e del secondo Schelling si ripresenta la concezione reazionaria e irrazionalistica della religione come assoluta trascendenza, inaccessibile in quanto tale alla ragione umana. Si ripropone così la più completa contrapposizione fra un sapere condannato intellettualisticamente alla conoscenza del finito e la fede irrazionale quale unico accesso all’assoluto, ipostatizzato in un dio posto, ancora in modo intellettualistico, in una assoluta distanza dal mondo umano, dalla razionalità e dalla moralità.
La conciliazione fra scienza e religione
Questa presunta conciliazione fra scienza e religione spiega il grande successo del pensiero di Spencer nel mondo occidentale fra i due secoli. Tale concezione, in effetti, consentiva al filisteo borghese di professare una visione immanentista e laica della scienza – divenuta una moda fra le persone colte e necessaria per portare avanti con successo i propri affari – senza trarne conseguenze materialistiche e agnostiche, che alla classe dominante apparivano, necessariamente, sovversive e pericolose. Altro motivo del grande successo di Spencer è l’aver preteso di dare una veste scientifica alla teoria del progresso lineare, ideologia dominante nella seconda metà dell’Ottocento, suffragata da uno sviluppo economico che appariva agli intellettuali borghesi, apologeti della società capitalistica, inarrestabile. Spencer, in particolare, applica alla teoria del progresso lineare il concetto – al solito desunto acriticamente dalle scienze naturali – di evoluzione. Per altro tale concetto è assunto secondo la concezione Jean-Baptiste de Lamarck – da cui Spencer riprende la presunta eredità delle azioni maggiormente utilitaristiche – che proprio allora Charles Darwin aveva superato e, sostanzialmente, confutato.
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Questa controstoria del pensiero filosofico e politico dominante, in quanto assunto come proprio dalla classe al potere, prende spunto dall importantissimo studio pionieristico in questo campo di György Lukács: La distruzione della ragione. Per sottolineare il nostro debito con questo grande classico del marxismo filosofico abbiamo utilizzato anche noi questo titolo per il nostro corso.
Muovendo da Lukács, sulla base di una analisi della storia del pensiero filosofico e politico dal punto di vista del materialismo storico e dialettico, cercheremo di mostrare come gli intellettuali borghesi, che dall’autunno del medioevo alla conquista del potere da parte della borghesia – con la rivoluzione industriale e la lunga rivoluzione francese 1789-1871 – avevano svolto una decisiva lotta progressista e rivoluzionaria dal punto di vista delle sovrastrutture contro aristocrazia, alto clero e, infine, assolutismo monarchico, una volta che la borghesia diviene stabilmente classe dominante, tendono a sviluppare posizioni sempre più conservatrici. Tale tendenza è accelerata e radicalizzata dal fatto che la borghesia per sconfiggere il vecchio blocco sociale costituito intorno alla monarchia assoluta da aristocrazia e altro clero ha dovuto costituire, nel corso dei secoli della sua lotta per il potere, un blocco sociale antagonista di cui dovevano far parte in funzione subordinata le masse popolari, come indispensabile base di manovra per fronteggiare il monopolio della violenza legale da parte della classe dominante.
A questo scopo gli intellettuali borghesi, non essendoci ancora intellettuali organici alle classi popolari, nella loro lotta contro il potere e l’ideologia dominante avevano dovuto sviluppare un pensiero politico-filosofico in grado di mobilitare anche le masse popolari. Queste ultime, essendo per la prima volta dotate di strumenti intellettuali e partecipando per la prima volta da protagoniste ai grandi conflitti rivoluzionari, sebbene egemonizzate ancora dalla borghesia, non accettano poi di tornare a essere “la plebe sempre all’opra china senza ideale in cui sperar”. Non potendo più contare come prima sugli intellettuali borghesi, che li avevano anche spinte a insorgere, tenendole al contempo sempre sotto l’egemonia borghese, le masse popolari hanno cominciato a elaborare intellettuali a esse organici, di pari passo al progressivo sviluppo del moderno proletariato urbano.
In tal modo, le masse popolari hanno iniziato a sviluppare progressivamente un’autonoma visione del mondo e di conseguenza hanno iniziato a svolgere un’azione autonoma sul piano storico-politico. Ciò non poteva che allarmare sempre più la grande borghesia al potere, anche perché alcuni intellettuali della piccola borghesia, tenuta a un livello molto subordinato nel blocco sociale dominante, cominciavano a dare manforte al proletariato. Si trattava perciò di sviluppare, da parte dei nuovi intellettuali borghesi, ormai parte integrante della nuova classe dominante, una nuova visione del mondo, a partire proprio dalla critica degli aspetti rivoluzionari della loro precedente visione del mondo. Immediatamente dopo si sviluppa fra la borghesia intellettuale al potere una filosofia politica sempre più indirizzata in modo diretto o indiretto a contrastare la costituente visione del mondo proletaria, che potrà considerarsi definita grazie all’opera di Marx ed Engels. Perciò la successiva visione del mondo borghese si orienterà sempre di più, in modo diretto o indiretto, a contrastare il marxismo.
Per continuare a leggere la presentazione del corso: vai al link: La distruzione della ragione.