Controstoria del medioevo I incontro: apologia e crisi del modo di produzione feudale

Mercoledì 4 settembre, dalle ore 18 alle 20,15, prima lezione del corso di storia e filosofia: Controstoria del medioevo, introdotto dal prof. Renato Caputo per l’Università popolare Antonio Gramsci. Nell’incontro (in diretta in videoconferenza al link:  https://meet.google.com/xsg-rmee-wjn, in differita https://www.youtube.com/c/Universit%C3%A0Gramsci) si affronterà, in un’ottica marxista, il massimo sviluppo del modo di produzione feudale.


Controstoria del medioevo I incontro: apologia e crisi del modo di produzione feudale

Mercoledì 4 settembre, alle ore 18, riprendono i corsi dell'Università popolare A. Gramsci. Il primo corso (di storia e filosofia), introdotto dal prof. Renato Caputo, è intitolato Controstoria del medioevo da un punto di vista marxista. Per una introduzione al corso in cui si chiariscono le motivazioni che hanno portato alla scelta del tema rinvio all’articolo: Le ragioni di una controstoria del medioevo pubblicato sull’ultimo numero di questo settimanale. Di seguito potete leggere una versione sintetica dei temi che saranno affrontati e discussi nel primo incontro, al quale si potrà partecipare in diretta in videoconferenza al link: https://meet.google.com/xsg-rmee-wjn. Il video del corso sarà disponibile nei giorni successivi sul canale youtube dell’Università popolare Antonio Gramsci.

Il cesarismo feudale raggiunge il suo apice con Federico II

Il papato feudale, che aveva raggiunto il suo massimo sviluppo con Innocenzo III, aveva cercato di fare del giovane Federico un proprio instrumentum regni. Con l’elezione a imperatore nel 1220 da parte di Onorio III a Roma, Federico riuniva le corone di Germania, impero e Sicilia. In tal modo, il potere nelle mani di Federico era tale da mettere in discussione il ruolo politico della chiesa. D’altra parte, l’idea di impero era un residuo del passato. I suoi possedimenti, spesso più teorici che reali erano estremamente eterogenei e occuparsi a fondo di una parte implicava trascurare le altre. Le sue attenzioni si rivolsero al ricco regno dell’Italia meridionale, in quanto trovandosi al centro del mediterraneo con cui l’Europa entrava in contatto con il commercio internazionale che si articolava fra Cina, mondo arabo e bizantino, era la zona più ricca e strategicamente più importante dei suoi possedimenti. Lasciando il controllo della Germania, più arretrata economicamente e culturalmente e meno soggetta al potere reale dell’imperatore, al figlio Enrico cercò di realizzare nel sud Italia un nuovo modello di Stato, per diversi aspetti il più significativo del Medioevo. Pose in primo luogo fine alla prepotenza di feudatari ed ecclesiastici che, in assenza di un forte potere centrale, avevano spadroneggiato. L’anarchia feudale era il principale ostacolo non solo alla modernizzazione, ma all’esistenza stessa di uno Stato. Sconfitti i baroni costituì un solido apparato di funzionari posti alle dipendenze della corona, stipendiati e revocabili. Si trattava generalmente di borghesi, anch’essi nemici dell’anarchia feudale. Oltre all’appoggio della borghesia combattendo gli sfruttatori feudali si conquisto l’egemonia anche sulle masse popolari. Rinunciò alla leva feudale, e si servì di un esercito mercenario in gran parte di Saraceni, dislocati nei castelli fatti costruire nei punti strategici del reame. In tal modo, non dipendeva più dall’esercito feudale. Fece grandi lavori di irrigazione, introdusse nuove culture e monopoli per seta, canapa e sale. Così sviluppò le forze produttive e rafforzò il potere progressista dello Stato di contro alla reazionaria anarchia feudale.

Aprì scuole per dotarsi di funzionari (che dovevano essere formati) e fondò a tale scopo l’Università di Napoli nel 1224, la prima università pubblica (statale) della storia. Istituì la prima cattedra di anatomia nella scuola medica di Salerno, dove era consentito praticare la dissezione dei cadaveri. Raccolse a corte poeti da tutta Italia, gettando con la scuola siciliana le basi della letteratura nazionale italiana.

Tutte queste misure in sé in parte progressiste in parte rivoluzionarie costrinsero Federico a un rigoroso strumento di tassazione, di cui le classi più povere, già oppresse dai signori, ne pagarono le maggiori conseguenze. In tal modo, nel conflitto sociale si schierò dalla parte degli sfruttatori indebolendo la sua capacità di egemonia sugli sfruttati. 

D’altra parte, nel Liber Augustalis del 1231, la più grande opera legislativa emanata da un’autorità laica nel medioevo, teorizzò una forma di assolutismo anti-feudale, con lo scopo di togliere il potere a feudatari, ecclesiastici e Comuni. Le misure contro i poteri feudali erano progressiste, mentre quelle contro i Comuni regressive, anche se necessarie ad affermare il potere centralizzato dello Stato, in sé progressista. L’attacco all’autonomia delle città depresse i commerci e represse troppo le società civili che si erano venute formando, dal momento che Federico sottovalutava il ruolo trainante dell’economia cittadina. Del resto, in essa erano presenti diversi elementi della futura società capitalista, in contrasto con gli ordinamenti feudali e ciò spiega l’attitudine sospettosa nei suoi riguardi dell’imperatore.

L’ambivalenza dello scontro di Federico II con il papa e i Comuni, progressista il primo, regressivo il secondo

Federico puntò a riprendere il controllo dell’Italia centro-settentrionale. Ciò lo portò all’inevitabile conflitto con il papa e i Comuni, uno scontro che durò mezzo secolo e che dimostrava tutti i limiti del feudalesimo anche nel momento del suo massimo sviluppo.

Il papa, per indebolire Federico, lo aveva costretto alla sesta crociata (1228), pratica decisamente predatoria, ma Federico che voleva mantenere buoni rapporti commerciali con gli arabi, di cui ammirava la cultura, senza fare la guerra si accordò per lasciare ai cristiani libero accesso ai luoghi santi senza versare una goccia di sangue. Il papa Gregorio IX lo scomunicò, perché era sceso a patti con gli infedeli e ne invase il regno. Ma l’imperatore tornò e sbaragliò le truppe pontificie. Si arrivò nel 1230 alla pace (tregua in realtà), in cambio del ritiro della scomunica.

La maggior parte dei comuni si erano uniti al papa nello schieramento guelfo, mentre altri erano con Federico II, sotto lo stendardo dei ghibellini. Per tutti gli anni trenta si combatté. Paradossalmente i comuni dove prevalevano gli aristocratici erano con l’imperatore, mentre quelli governati dalla borghesia con il papato. La borghesia si alleava con il potere regressivo del papato per difendere la propria indipendenza e autodeterminazione. Mentre i comuni guidati dall’aristocrazia puntavano sul sovrano per sconfiggere le forze in sé antifeudali della borghesia.

Federico sconfisse i comuni nel 1237 e invase i domini del papa nell’Italia centrale. Nel 1245 il nuovo papa Innocenzo IV scomunicò nuovamente l’imperatore, contribuendo a inflazionare un’arma di conseguenza sempre meno significativa. Il fronte guelfo si era consolidato e aveva scatenato contro Federico una crociata, in cui si mescolavano istante progressiste e regressive. In Italia la fazione guelfa prevaleva. I ghibellini furono sconfitti nel 1248 e 1249 e Federico, proprio mentre preparava il contrattacco, morì inaspettatamente a soli 56 anni. Il papa quando apprese la notizia scrisse “che i cieli esultino e che la terra sia felice”. I limiti di Federico e, più in generale, del cesarismo emergono dal suo essersi reso insostituibile nelle politiche sostanzialmente progressive che aveva portato avanti.

L’impero e il mezzogiorno d’Italia dopo la morte di Federico II

In Germania cercò di riconquistare la corona il figlio Corrado, mentre in Italia il regno andò al figlio naturale Manfredi che, cercando di riprendere la politica del padre, riorganizzò i ghibellini contro le mire del papa sul suo regno. Grazie alla divisione fra comuni prese il controllo di Toscana e Lombardia. Spaventato, il papa incoronò re del sud Italia Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia. Manfredi abbandonato dai Baroni morì nella battaglia di Benevento nel 1266. Il disperato tentativo del figlio di Manfredi, Corradino, fallì, e Corradino fu decapitato nel 1268.

Il regno angioino al sud 

Il cesarismo regressivo angioino fu molto duro, i seguaci degli svevi furono perseguitati, al loro posto furono insediati nobili francesi. La capitale fu trasferita da Palermo a Napoli, in breve la situazione in Sicilia diventò esplosiva: da centro del regno diventò periferia, la nobiltà vicina agli svevi chiese l’intervento di Pietro d’Aragona. Scoppiò la rivolta dei vespri siciliani nel 1282, in quanto anche borghesia e popolo erano contrari al potere reazionario degli angioini, venne attaccata a Palermo la colonia francese, facendo 4000 morti. Gli aragonesi intervennero e iniziò una guerra ventennale con gli angioini che si concluse con la pace di Caltabellota nel 1302, con cui la Sicilia passò agli aragonesi, il resto dell’Italia meridionale rimase agli angioini. Gli aragonesi furono invitati a intervenire dai più ricchi per impedire una liberazione delle masse popolari.

Pesante fu il bilancio per il sud: il regno, devastato da una guerra fra due potenze predatorie, fu spezzato e riprese il dominio feudale. Iniziò allora la miseria dell’Italia che si divideva mentre altrove si gettavano le basi per le future monarchie nazionali e, in particolare, la miseria della Sicilia in cui i baroni ripresero un controllo di tipo feudale sul territorio.

L’impero dal «grande interregno» (1250-1273) alla Bolla d’Oro (1356)

Con l’estinzione della dinastia Sveva, Italia e Germania rischiarono di essere travolte dal caos, dimostrando che proprio in quanto centro del potere feudale erano destinate per prime alla decadenza. Si aprì una fase di interregno (1250-73), nel corso del quale la Germania fu frazionata in moltissimi staterelli, il potere imperiale divenne formale. Proprio quando in Francia e Inghilterra si affermavano le monarchie, l’imperatore era eletto da una dieta, su cui influivano le potenze straniere a partire dalla Francia e dal papato. Quando poi la Francia assoggetterà il papato, il potere del suo sovrano diverrà superiore a quelle imperiale, dimostrando che con il successivo sviluppo delle monarchie nazionali in Francia e Inghilterra, in particolare, il feudalesimo era destinato a una crisi irreversibile.

Nel 1273 fu eletto Rodolfo d’Asburgo, che si impadronì dell’Austria, e ristabilì l’autorità imperiale, gettando le basi per la successiva egemonia di tale famiglia sull’impero. Gli Asburgo comprenderanno che solo costruendo un saldo possesso personale avrebbero potuto prevalere sugli altri contendenti aristocratici al ruolo di imperatore.

Solo nel 1356, con la Bolla d’oro, la successione al trono imperiale fu regolata, restringendo il voto a 7 principi, 4 laici e 3 ecclesiastici. L’eleggibilità della carica ebbe conseguenze negative, ossia: lotte per il potere, mancanza di continuità dinastica, finanze degli imperatori esauste dopo la competizione elettorale. La mancanza di una amministrazione centralizzata e una forza militare stabile incise sul destino della Germania, che come l’Italia era difatti divisa in tanti Stati, situazione che ne ritardò significativamente l’unificazione. I paesi all’avanguardia nel mondo feudale come Italia e Germania saranno perciò condannati a svilupparsi in senso capitalistico molto in ritardo rispetto a Francia e Inghilterra.

I comuni italiani tra il XII e il XIII secolo: l’ordinamento comunale, la fase aristocratica e podestarile 

L’istituzione comunale fondamentale era l’assemblea dei cittadini (chiamata anche parlamento, arengo, concione), vero e proprio simbolo dell’autogoverno delle nuove classi emergenti, destinate in futuro a divenire le nuove classi dominanti. Occorre, tuttavia, ricordare che solo una ristretta minoranza di maschi ricchi aveva il diritto di cittadinanza, mentre ne erano esclusi: donne, popolo minuto, immigrati e minoranze religiose. In tal modo, i borghesi non erano più i servi fuggiti dal giogo feudale della campagna, ma divennero classe dominante e, di conseguenza, sempre più dirigente nelle città. L’assemblea si rivelò ben presto troppo grande e le posizioni troppo diverse per risolvere problemi complessi e tecnici. Si limitò così l’assemblea alle decisioni più importanti, delegando il resto a organi collegiali ristretti. Al solito la necessità di prendere decisioni politiche tempestive entrava in contrasto con la democrazia. Nacque il consiglio maggiore, costituito dalle famiglie più ricche e potenti, per la politica ordinaria e il consiglio minore per questioni più impegnative. Il potere esecutivo era esercitato dai consoli, magistratura temporanea sorteggiata o eletta, espressione dei ceti più ricchi. In tal modo, si affermava una nuova classe dirigente più avanzata di quella feudale per il proprio multipolarismo e il principio più meritocratico di selezione dei dirigenti.

In questa fase, che gli studiosi chiamano del comune aristocratico, a capo di istituzioni ci sono ex feudatari, famiglie dei patrizi o dei magnati. La piccola e media proto borghesia (commercianti, bottegai, artigiani) chiamata il popolo, non godeva pienamente dei diritti politici anche se partecipavano alle assemblee. Al di sotto di questi c’era il popolo minuto, considerato strumento vocale o macchina bipede, costituito da lavoratori giornalieri, servi, emarginati. Si creava così una classe intermedia fra classi dominanti e subalterne, che avrebbe sfruttato la rovina comune delle due principali classi in lotta per affermarsi progressivamente come classe universale la quale, liberando se stessa, avrebbe liberato l’intera società dalla crisi del feudalesimo in un senso progressivo.

Con la conquista del contado, l’aumento degli abitanti, l’incremento degli scambi e con il prevalere del capitale mobile, la classe mercantile, cioè la grande borghesia, acquistava consapevolezza della sua forza e voleva un maggiore potere politico e, soprattutto, il controllo dell’economia. Per rafforzare le loro posizioni i borghesi crearono le Arti o Corporazioni, regolamentando i singoli settori di attività, tutelandosi così nei confronti del patriziato e nei riguardi di lavoratori dipendenti ridotti a uno stato semi-servile, imbrigliandone in tal modo la pressione. Il vecchio comune aristocratico non era più adatto alla nuova realtà sociale. Al “comune maggiore”, cioè del patriziato, si contrappose il “comune minore”, cioè il comune del Popolo, essenzialmente della borghesia. Le aspre lotte fra queste due fazioni portarono allo stremo delle forze sia la borghesia che i ceti dominanti feudali. Per paura che di ciò potessero beneficiare i ceti sociali subalterni aristocratici e ceto medio scelsero una soluzione di compromesso, affidando il governo cittadino a un magistrato moderatore straniero: il podestà, che garantiva imparzialità e che ebbe poteri molto ampli, in primis il potere esecutivo. Una soluzione cesarista per evitare la comune rovina delle classi in lotta. Questa nuova fase della storia comunale si suole definire podestarile, età comunque di contrasti e di incerto equilibrio tra le parti in conflitto. Si trattava di una soluzione essenzialmente regressiva, perché spingeva la classe media borghese ad accordarsi con l’aristocrazia contro i subalterni, proletari, sottoproletari e piccolo borghesi (classi intermedia fra sfruttati e sfruttatori).

Vi era, inoltre, ancora una scarsa consapevolezza della necessità del rispetto delle minoranze all’interno del blocco sociale dominante. Infatti gli oppositori erano considerati solo avversari di cui sbarazzarsi e non una presenza critica indispensabile per l’opera di governo. La consapevolezza della tutela della minoranza fra le classi sociali dominanti si affermerà solo con la democrazia moderna.

Il comune: un processo di sviluppo arrestato? 

I limiti dell’esperienza comunale consistono nell’esclusione dai diritti del popolo minuto e del contado. I ceti dominanti restavano chiusi in interessi mercantili o usurai, non sviluppavano il settore manifatturiero, ma spesso investivano nella rendita fondiaria, anche ai fini della rappresentanza. Il che dimostrava la capacità di egemonia dell’aristocrazia sulla grande borghesia. Inoltre, non si sviluppava come altrove il mercato nazionale, a causa delle contrapposizioni fra interessi locali dei ceti dominanti nei diversi comuni. Le rigide corporazioni riducevano la mano d’opera a uno stato semi-servile e non gli consentivano di svilupparsi nel senso del proletariato moderno. I ceti dominanti diventavano conservatori, perdevano lo spirito innovatore. Inizia l’involuzione della società italiana, dove tali fenomeni erano più sviluppati, che culmina nel Seicento. La società italiana, già in crisi, sarà poi messa al tappeto dallo spostamento dei commerci sulle rotte oceaniche e dalle invasioni straniere.

La monarchia francese. Dall’ascesa allo scontro con il papato

Il conflitto fra Francia e Inghilterra (1066-1215) sino alla battaglia di Bouvines

Fra il XII e il XIII secolo sorsero in Inghilterra e Francia due monarchie nazionali, guidate dai Plantageneti e dai Capetingi. In tal fase ci fu un costante conflitto fra i due paesi che, dallo scontro dinastico tipico del medioevo fra il 1066 e il 1214, diverrà in seguito, dal 1337 al 1453, una guerra di autodeterminazione nazionale. Quindi da una natura decisamente regressiva, assumerà anche una valenza progressiva, dal momento che la nazione si afferma insieme alla borghesia.

Guglielmo il Conquistatore, duca di Normandia, aveva strappato con la forza nel 1066 la corona inglese ai danesi, favorendo con una enorme violenza, cioè con costi sociali tremendi, l’affermazione del regime feudale, allora progressivo, in un paese ancor per diversi aspetti arretrato. Nel 1154 re d’Inghilterra divenne Enrico II Plantageneto, che costituì il dominio plantageneto-angioino, in quanto erede dai genitori dell’Inghilterra e dalla moglie della Contea d’Angiò, della Normandia, l’Aquitania e i ricchi feudi nel Sud-Ovest francese. Mentre i Capetingi, re di Francia, controllavano la regione fra Parigi e Orléans, due terzi del territorio francese era in mano al re d’Inghilterra.

Fu Filippo Augusto, re di Francia fra il 1180 e il 1223, a strappare al re d’Inghilterra, Giovanni II Plantageneto (1199-1216), tutti i territori francesi. Divenuto senza terra in Francia, Giovanni si alleò con il re tedesco Ottone di Brunswick. La lotta fra Inghilterra e Francia si intrecciò con la lotta per la corona imperiale. A vincere nella pianura di Bouvines nelle Fiandre furono i franco-svedesi nel 1214. Il tentativo egemonico anglo-germanico sull’Europa e il tentativo dei Plantageneti di riunire sotto la loro corona Inghilterra e Francia, entrambe ipotesi regressive, erano stati duramente sconfitti. Nuovamente battuto, Giovanni II dovette cedere ai baroni, sottoscrivendo nel 1215 la Magna Charta Libertatum. Mentre in Inghilterra il re dovette spartire il potere con i baroni (aspetto regressivo) e, in prospettiva, con la borghesia (aspetto progressivo), Filippo II con le sue vittorie gettò le basi per la creazione di una comunità nazionale, all’epoca addirittura rivoluzionaria.

Il consolidamento del potere regio in Francia: Filippo Augusto, Luigi IX e Filippo IV

La genesi della monarchia nazionale francese fu il prodotto dell’azione di alcuni grandi monarchi, che resero la monarchia di fatto ereditaria a beneficio dei Capetingi. Con una eterogenesi dei fini concorsero a indebolire la reazionaria anarchia feudale, contribuendo a gettare le fondamenta del futuro Stato (nazionale borghese).

In particolare, oltre a Filippo Augusto (1180-1223), occorre ricordare Luigi IX detto il Santo (1226-1270) e Filippo IV detto il Bello (1285-1314). Essi evitarono eclatanti conflitti, alternando abili mediazioni e coraggiose novità.

Filippo Augusto riuscì a controllare la nobiltà, frazionando i feudi e ponendo a loro capo dei balivi, funzionari stipendiati di nomina regia. Il re si circondò di una classe dirigente di liberi professionisti (borghesi) che sostituirono nobiltà e clero. 

Luigi IX istituì una suprema corte di giustizia, il Parlamento, al quale gli ispettori indirizzavano i reclami delle angherie operate dalle corti locali. In tal modo, si fiaccava il potere arbitrario dei feudatari e si rafforza la capacità di egemonia del sovrano sulle altre classi sociali. La contraddizione tra i fini religiosi del re e gli interessi economici della società emersero nella settima e ottava crociata deviate sui paesi africani in cui si concentravano gli interessi dei mercanti.

Tale contraddizione fu risolta da Filippo IV il Bello che, per pagare i conti di un apparato statale moto più pesante del passato, non esitò a scontrarsi con il papa, rafforzando la capacità di egemonia sul proprio popolo. Nel 1302 il sovrano convocò per la prima volta gli Stati generali (assemblea di rappresentati del clero, della nobiltà e della borghesia cittadina) che proclamarono che i poteri del re discendevano da dio senza mediazione papale, verso il quale lanciavano pesanti accuse.

Bonifacio VIII lo scomunicò per aver tassato il clero francese e, nella bolla Unam Sanctam del 1303, ribadì con fermezza i principi teocratici sui quali si fondava il potere papale, dimostrando la natura essenzialmente reazionaria di tale potere.

Ma chi era Bonifacio VIII? Figlio di una ricca famiglia romana, aveva preso il posto di Celestino V, eremita molisano, che aveva fatto balenare l’illusione di un papato spirituale. Divenuto papa, Bonifacio condusse una crociata contro i cardinali che non lo avevano appoggiato.

Bonifacio sostenne le tesi del diritto canonico, contro quelle del diritto romano imperiale, che sostengono l’autonomia del potere statuale. Nel 1300 convocò il primo grande giubileo, il cui grande risultato, grazie alla cancellazione dei peccati, incoraggiò il papa a seguire la strada teocratica di Innocenzo III. Così ingiunse ai sovrani di sottomettersi al pontificato. Filippo, difeso dai suoi giuristi, per avere il sostegno dei suoi sudditi, la futura nazione, si rivolse agli stati generali, che lo appoggiarono. In tal modo, si consolidò l’alleanza ormai secolare fra re e uomini nuovi che isolava l’aristocrazia e il clero. La scomunica papale ebbe scarsi effetti. Il re inviò un suo uomo, Guglielmo di Nogaret, per spingere il papa ad abdicare. Dinanzi al rifiuto del papa, Guglielmo ad Anagni lo pose agli arresti. La monarchia potenzialmente nazionale, sostituitasi all’impero nella lotta contro le ambizioni teocratiche del papa, ebbe la meglio. Il re di Francia trasferì la sede del papato ad Avignone dove rimase dal 1308 al 1377. Il papato era subordinato al monarca francese, senza contare che anche l’impero aveva perduto il suo prestigio. Entravano così in crisi i due grandi universalismi che avevano dominato nell’età medievale e con essi il modo di produzione feudale di cui erano espressione sovrastrutturale.

Il papato ad Avignone

Fino al 1376 si susseguirono sette papi di nazionalità francese; la chiesa fu posta sotto il controllo del re di Francia. Le spese della curia raggiunsero livelli stratosferici: il lusso della corte papale, gli artisti, il vestiario, le spese per l’esercito portavano alla richiesta di continui contributi finanziari: le decime che diventarono sempre più pesanti. Ciò naturalmente indebolì la capacità di egemonia della chiesa e favorì le eresie e, in prospettiva, la Riforma. Si sviluppò il fenomeno delle indulgenze per i defunti. La forte pressione fiscale, portò a un ulteriore distacco delle popolazioni dalla Chiesa cattolica vista come una potenza straniera interessata solo al denaro. Le notizie sui fasti portarono al declino del prestigio del papato, che era il principale usuraio, l’equivalente dell’attuale capitale finanziario.

La crisi e la trasformazione della monarchia in Inghilterra; le origini del parlamento 

Sfruttando la progressiva perdita dei territori francesi, l’arcivescovo di Canterbury, guidò baroni ed ecclesiastici contro Giovanni II Senzaterra. Quando, dopo la sconfitta di Bouvines, il monarca chiese nuovi tributi, l’opposizione passò alla lotta armata. L’appoggio di Londra costrinse il re a trattare con i ribelli, che gli imposero nel 1215 la Magna Charta, con cui si stabilivano i limiti al potere del monarca. Il re si impegnò a non imporre più tributi e a non far processare dai funzionari i baroni. Pur anticipando, quale difesa dell’individuo dagli abusi del potere, alcuni aspetti del liberalismo, fu una riscossa dei poteri feudali contro il tentativo modernizzatore della monarchia assolutista. D’altra parte, tali poteri si erano dovuti alleare nella lotta all’assolutismo con la borghesia dei comuni, la cui affermazione aveva un significato, al contrario, progressivo.

Il successore Enrico III (1216-1272) fu sconfitto per due volte dai baroni e il re dovette accettare di governare con gli aristocratici che entrarono nel parlamento, cioè nel consiglio del re.

Durante il regno di Edoardo I (1272-1307) si rafforzò il parlamento, che si riuniva a Westminster presso Londra, in cui, oltre a nobili e prelati, entrarono a far parte due cavalieri per ogni contea e due borghesi per città. Quindi si allargavano le forze sociali che vi partecipavano: oltre alla Camera dei Lords, istituita nel 1242, fu creata la camera dei Comuni nel 1339.

I regni nella penisola iberica 

Intorno alla metà del duecento i mori erano stati vinti e la Spagna era divisa in cinque regni cristiani: Aragona, Castiglia, Leon, Navarra e Portogallo. Ai mori restava il regno di Granata. Ad arricchirsi nella guerra erano stati essenzialmente i cavalieri aristocratici, a subirne le conseguenze mori ed ebrei, a dimostrazione di quanto i cristiani fossero più intolleranti degli islamici.

La piccola nobiltà si era consolidata. Molto forti erano le tradizioni municipali. Le istituzioni tipiche della rappresentanza cittadina e popolare erano le Cortes (simili al parlamento inglese), con le quali scesero a patti i sovrani contro i nobili.

Il regno di Castiglia era essenzialmente agricolo, mentre quello di Aragona (che comprendeva la Catalogna) era anche legato agli scambi marittimi e commerciali, in cui particolarmente attive erano le comunità ebraiche. Gli aragonesi si spinsero alla conquista delle Baleari e della Sicilia.

L’effimero impero dei Mongoli

Nella prima metà del Duecento si costituì – dalla Cina, alla Russia, alla Persia – lo sterminato impero dei mongoli, il dominio più vasto mai esistito. Arrivò a lambire l’Europa, ma si rivelò proprio per la sua enorme vastità effimero.

I mongoli o tartari nei secoli precedenti erano tribù nomadi, dell’Asia centrale, che vivevano di pastorizia e caccia, senza conoscere la scrittura. Le lotte intestine li indebolivano, sino a che un capo Temugin (1167-1227) non sconfisse tutti gli altri, facendosi proclamare Gengis Khan, capo dei capi di tutti i mongoli. Gengis Khan riuscì a convogliare le energie, sino ad allora perse nelle lotte intestine, verso l’esterno.

Ciò gli permise di sbaragliare i potentati asiatici, ormai in crisi e di penetrare in Europa orientale dove le angherie della classe dominante feudale portava i subalterni a individuare nei mongoli una forza che poteva favorire una potenziale emancipazione. Tra il 1212 e il 1215 i mongoli conquistarono la Cina. Poi penetrarono nell’Asia sud occidentale e in Russia, non trovando ostacoli se non le immense distanze e la mancanza di uno scopo determinato. 

Morto Gengis Khan nel 1227, i successori ne continuarono le imprese, facendo tremare l’Europa fra il 1237 e il 1241 quando, dopo aver conquistato la Russia, giunsero a devastare Polonia e Ungheria. Dopo aver sconfitto anche i prìncipi germanici ripresero la strada di casa, anche per i problemi insorti per la successione al trono e per la necessità di accordi con i cristiani, per meglio sconfiggere l’avversario più forte, cioè il mondo islamico.

Più stabile fu il dominio mongolo in Oriente, anche perché essendo più ricco ed evoluto non rimase una zona da razziare come l’Europa. Presa nel 1258, Bagdad divenne il centro del dominio mongolo dell’area persiana e mesopotamica. Inizialmente le altre religioni erano tollerate per meglio dominare su popolazioni eterogenee. In seguito i mongoli si convertirono all’islam, anche perché avevano sempre più bisogno degli intellettuali, generalmente musulmani.

Nel 1279 il più illuminato dei successori di Gengis Khan, Kubilai Khan, ultimò la conquista della Cina, la civiltà più ricca e per diversi aspetti più evoluta. Seguì quindi mezzo secolo di pax mongola. Il gran khan risiedeva a Pechino e l’enorme impero fu diviso in quattro. Dopo tante devastazioni i nomadi divennero sedentari e assimilarono la civiltà dei popoli colonizzati (in particolare cinese e islamica), dal momento che erano meno evoluti culturalmente.

L’impero entrò in crisi nella seconda metà del XIV secolo, quando i cinesi insorsero e misero al trono la dinastia locale dei Ming. Le altre tre parti dell’impero si divisero l’una dall’altra, sino a che non furono riunificate, con capitale Samarcanda, da Tamerlano (1370-1405).

Le cause dell’espansione mongola 

I motivi dell’eccezionale successo degli invasori erano: un esercito organizzato e addestrato in modo eccezionale, l’effetto sorpresa e la eccezionale violenza: uccidevano, deportavano, devastavano i campi, le case erano rase al suolo, i pozzi avvelenati, i canali riempiti di terra. I mongoli erano preceduti da una fama terribile. D’altra parte erano visti come un potenziale fattore di emancipazione dai subalterni di un mondo feudale in crescente crisi. Inoltre gli invasori sfruttarono le terribili guerre scatenate dalle crociate contro islamici e bizantini.

L’espansione mongola unificò l’oriente sotto un’unica potenza e rese le vie di comunicazioni internazionali più sicure. I mongoli avevano vinto troppo in fretta e per gestire il potere avevano bisogno di consiglieri e di esperti nei vari campi dell’amministrazione. Il papato approfittò della pax mongolica per diffondere il vangelo in oriente, ma come spesso accadeva ai motivi religiosi si univano quelli economici e politici. I papi videro inizialmente nei mongoli degli alleati in funzione antislamica. Mentre i mercanti europei videro nella pace garantita dal dominio mongolo la possibilità di sviluppare i commerci con la ricca Cina.

30/08/2024 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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