Come è noto, ma non perciò conosciuto, il centralismo democratico è, o almeno dovrebbe essere, una caratteristica fondamentale dei partiti comunisti o, meglio, delle loro configurazioni ideali o storicamente migliori. A questo proposito abbiamo come riferimento internazionale il partito bolscevico, poi comunista sotto la direzione di Lenin, dal punto di vista della Rivoluzione in occidente abbiamo il Partito comunista d’Italia, per come lo immaginava Gramsci. Cosa altrettanto nota e, proprio per questo, non realmente conosciuta, è che un partito per funzionare in tal modo, cioè in modo democratico, deve essere necessariamente di misure ridotte, composto da militanti che siano tendenzialmente tutti dei quadri. Come dovrebbe essere noto e per questo sconosciuto ai più, la grande dimensione rende impossibile il confronto democratico. Perciò paesi molto vasti, come le così dette più grandi democrazie del mondo come gli Stati Uniti e l’India, di democratico hanno esclusivamente il suffragio universale e il multipartitismo. Queste ultime due caratteristiche sono condizioni necessarie, ma non sufficienti per definire democratico uno Stato. Non bisogna perciò dar credito né alla concezione liberale della democrazia che la riduce a questi due aspetti, né alla concezione stalinista che considera, al contrario, preferibile il sistema a partito unico.
Le sedicenti democrazie liberali non sono in realtà democratiche in quanto, nonostante le conquiste da parte delle classi subalterne del suffragio universale ed entro certi margini del multipartitismo, sono monche di fondamenti determinanti di una democrazia, cioè della sovranità popolare e della la gestione diretta del potere da parte della maggioranza non ricca della popolazione, delle grandi periferie, dei quartieri popolari, di contro alle zone a ZTL dove vivono quasi esclusivamente i ricchi (tendenzialmente oligarchi). In tal modo emerge subito come il sedicente Partito Democratico italiano sia in effetti una forza politica liberale, visto che mira a rappresentare gli interessi dei più ricchi, che non vivono certo nei demos, cioè nei quartieri popolari. Un altro aspetto troppo spesso misconosciuto, dal momento che viviamo sotto l’egemonia dei liberali – i quali, per mantenere il potere, dopo che si sono visti costretti a concedere il suffragio universale, devono spacciarsi per democratici – è che la divisione del potere e il regime rappresentativo sono tratti peculiari dello Stato liberale, non certo dello Stato democratico. In quest’ultimo concettualmente, idealmente e non, naturalmente, empiricamente, la sovranità è esclusivamente popolare e, perciò, non può essere né divisa, né delegata in particolare a dei deputati che non sono parte e non rappresentano gli interessi dei ceti non abbienti. Infine la democrazia, al contrario della vulgata liberale, non può essere non violenta, in quanto democrazia significa potere dei ceti non abbienti e tale potere non può che esercitarsi nei confronti dei ricchi e, più nello specifico, di contro a un potere oligarchico e di contro a chi è di fatto oligarchico, in quanto ritiene che il potere debba essere necessariamente elitario.
L’errore degli stalinisti e dei terzomondisti è di ritenere che il regime monopartitico sia effettivamente più democratico del pluripartitico. Tale concezione sbagliata si basa sulla contrapposizione fra democrazia formale e sostanziale, nella rappresentazione erronea che la seconda non si possa che affermare mediante la mera negazione della prima. Per cui la effettiva democrazia non potrebbe che affermarsi negando la libertà, a torto considerata il caposaldo della tradizione liberale. Dunque, come i liberali ritengono che la libertà sia necessariamente in contrapposizione con una effettiva eguaglianza, i cattivi democratici, socialisti e comunisti ritengono che l’uguaglianza reale e sostanziale implichi la negazione della libertà individuale, che scadrebbe necessariamente nell’arbitrio. Si finisce così da parte liberale per contrapporre i diritti dell’uomo, intesi come diritti del singolo (possidente), ai diritti economici e sociali della tradizione socialista e comunista. Queste ultime, nella vulgata empirica, hanno non di rado a torto contrapposto, attraverso una negazione semplice, i diritti economici e sociali ai diritti formali sedicenti borghesi.
Dunque, un aspetto fondamentale è considerare sempre un reale sviluppo come una negazione dialettica, cioè determinata, che ricomprenda in sé i momenti precedenti e non come una nichilistica negazione semplice. Quest’ultima più che un reale superamento può che portare, addirittura, a un arretramento, almeno da alcuni punti di vista. Così, ad esempio, i paesi a socialismo reale, stalinisti e post-stalinisti hanno negato semplicemente i diritti formali borghesi, a cominciare dal pluripartitismo. Da questo punto di vista sono tornati indietro anche rispetto a Stati liberali come gli Usa. Al contrario questi ultimi e, più in generale, gli Stati liberali hanno creduto che fossero importanti solo i diritti formali, l’uguaglianza dinanzi alla legge e il multipartitismo, dimenticando che una democrazia non è reale senza l’affermazione di importanti diritti economici e sociali, che sono stati realizzati in modo migliore nei paesi a socialismo reale.
Dunque il centralismo democratico per definizione non può che essere, almeno idealmente, in astratto, a favore del multipartitismo, delle libertà e dei diritti individuali, dell’eguaglianza dinanzi alla legge, dei diritti civili, della democrazia diretta e, perciò, di un partito di quadri piuttosto che un partito di massa.
Ciò, naturalmente, non significa che poi nella realtà empirica non possa essere necessario, come in effetti lo è stato, sospendere il multipartitismo, la democrazia diretta, le libertà individuali, i diritti formali etc. Come va compreso che in determinati frangenti storici la realtà empirica può aver richiesto di derogare alla democrazia diretta e al partito di quadri, per sviluppare partiti di massa dove la democrazia è sempre più delegata, secondo il modello liberale. Il punto fondamentale è non confondere mai le necessità empiriche, il dover fare spesso due passi indietro, per poterne fare ancora uno in avanti, con gli ideali, con i princìpi e, più nello specifico, con il centralismo democratico.
Può dunque essere che dal punto di vista storico ed empirico per meglio poter realizzare, in un futuro che tendeva ad allontanarsi, il socialismo si è dovuto abbandonare il partito di quadri per un partito di massa, in cui il centralismo democratico è stato necessariamente sempre più sostituito con il centralismo organico e/o con il centralismo burocratico.
In effetti, molto spesso si cade nell’errore di considerare delle necessità tragiche della storia, che hanno portato in passato a dei dolorosi passi indietro rispetto al centralismo democratico, come se si trattasse di uno sviluppo reale, come fosse dinanzi a un processo di progressivo apprendimento e di eliminazione degli aspetti utopistici e anarchici del comunismo.
Tutto ciò porta alla fine del centralismo democratico, con la minoranza, empiricamente trotskista, che contrappone l’ideale al reale, fino a negare semplicemente il principio una testa un voto, per cui la maggioranza vince, e sino a cadere negli errori degli anarchici, per cui sarebbe possibile e preferibile una negazione semplice e assoluta del capitalismo, mediante il passaggio diretto alla società comunista, saltando la “tragica” necessità storica della transizione socialista. D’altra abbiamo la maggioranza che al contrario non tiene conto dei diritti anche formali della minoranza, della sua possibilità di organizzarsi in correnti all’interno del partito o in partiti autonomi anche nella società socialista, ma vede nel pluralismo non un elemento di ricchezza, ma, al contrario, di debolezza. Tale posizione considera il socialismo la negazione semplice della democrazia, delle libertà individuali, dei diritti di cittadinanza, dell’uguaglianza formale e finisce, almeno di fatto, per pensare che la transizione socialista, il movimento, sia tutto, mentre il fine ultimo, il comunismo sarebbe una mera utopia anarcoide.
Nel primo caso si ragiona sulla base di giudizi analitici a priori, in modo deduttivo, geometrico e dalla teoria dei classici del marxismo si pensa di poter derivare in maniera necessaria la linea politica da applicare nel modo più fedele possibile. I secondi procedono con giudizi sintetici a posteriori, partono dall’esperienza empirica e da lì con metodo induttivo giungono a delle generalizzazioni probabili, prescindendo dai princìpi del marxismo. Nel primo caso la strategia è tutto e da essa va dedotta, aprioristicamente, la tattica. Nel secondo caso la tattica è tutto e la strategia va ripensata per giustificare la prassi. I primi hanno pregi e difetti del cavaliere della virtù, i secondi dell’uomo del corso del mondo.
Entrambe queste opposte unilateralità finiscono per entrare in contrasto con il centralismo democratico. Nel caso dei puristi estremisti di sinistra nessuno può osare mettere in discussione i sacri princìpi e tanto peggio per i fatti. La posizione opposta, invece, crede che i fatti abbiano la testa dura e che è proprio da questi che bisogna sempre partire, tanto che il leninismo si riduce all’analisi determinata della situazione determinata. Anche in quest’ultimo caso la democrazia perde il proprio senso, c’è poco da discutere, bisogna agire nel modo più realistico. La prassi è tutto e la strategia può servire a posteriori solo se può giustificare la prima. È inutile stare a discutere dei massimi sistemi, bisogna ragionare scientificamente mettendo da parte i fini e ragionando soltanto sulle cause specifiche. Interessa capire come si fa una cosa, non il perché la si debba fare o meno. Ciò che conta è che il gatto tolga di mezzo i topi, del suo colore, della sua ideologia, del perché lo fa non varrebbe la pena ragionare, si tratterebbe di discussioni oziose che impedirebbero un’azione che per essere efficace deve essere rapida.
Inoltre, in entrambi i casi si ha la consapevolezza di essere sempre nel pieno di una guerra di classe, di una guerra civile nella quale non ci sono regole e in cui non si fanno prigionieri. La morale è completamente subordinata allo scopo finale rivoluzionario. Come è noto, infine, in guerra la democrazia rischia di essere considerata un lusso che non ci si potrebbe permettere.