Il disastro del ponte Morandi a Genova ha riaperto inaspettatamente un capitolo della storia economica del nostro Paese che sembrava definitivamente chiuso dopo la restaurazione neoliberista dell’ultimo ventennio: la nazionalizzazione dei settori strategici.
È interesse dei marxisti e dei comunisti entrare nel merito di tale questione dal punto di vista dei lavoratori, inquadrandola nel contesto attuale, ossia di un eventuale processo di nazionalizzazione in regime borghese, cercando di capire se effettivamente possa avvenire e in che forme.
A tale scopo è necessario indagare il suddetto contesto attuale con particolare attenzione a due aspetti: da una parte per ciò che riguarda lo stato delle grandi infrastrutture dal punto di vista della loro capacità di produrre valore e, quindi, di essere in qualche modo d’interesse per il capitale privato, mentre, dall’altra, il livello sovrastrutturale relativo alla battaglia per l’egemonia politica tra gruppi dominanti borghesi per il controllo dello Stato.
In regime capitalistico, infatti, lo Stato è lo strumento attraverso il quale la borghesia esercita la sua dittatura sulle classi oppresse e ove la questione della sovranità e della democrazia non giunge mai alla sua vera sostanza, ossia al luogo di lavoro, ma si ferma ben prima cioè all’invalicabile limite della democrazia “formale”, ovvero lo strumento attraverso il quale le classi oppresse possono tuttalpiù scegliere per via elettorale il loro oppressore. In altri termini, in tale regime la democrazia è reale solo tra le varie componenti della classe dominante, le quali si contendono attraverso lo Stato e il suo controllo il bottino rubato agli sfruttati.
L’alternarsi dei governi borghesi di diversa base sociale, dunque, equivale al risultato, alla sintesi, dello scontro interno agli stessi gruppi capitalistici che necessitano del controllo dello Stato per realizzare il dominio politico e militare - mediante il controllo dell’esercito, delle forze dell’ordine e dell’apparato giudiziario - da esercitare sia contro altri gruppi capitalistici che contro i lavoratori, siano essi in rivolta o meno.
Nei Paesi del cosiddetto Occidente industrializzato nell’attuale fase imperialistica i grandi capitali transnazionali - che tendono, soprattutto nei momenti alti della crisi ad assorbire e annettere i capitali poco sviluppati - in linea di principio non lascerebbero spazio di agibilità e controllo politico statale ai capitali sottosviluppati. Questo però solo in linea di principio. Il caso italiano attuale, infatti, contraddice proprio tale principio, presentandosi come un pericolosissimo unicum, un esperimento le cui sorti sono ancora da scrivere.
Se, per le ragioni che abbiamo detto, il capitale transnazionale, nel suo tendere all’espansione monopolistica, necessita del controllo pieno dell’apparato repressivo statale, per altro verso la tenuta del dominio sulle masse lavoratrici comporta talvolta la necessità del compromesso. Infatti è molto più conveniente continuare l’estrazione di plusvalore in un contesto di pace sociale che in un clima conflittuale. Nel caso particolare italiano dell’attuale governo giallo-verde, il compromesso che il grande capitale è chiamato a concludere è quello con la media e piccola borghesia e non con la classe operaia che, al momento, è piuttosto disorganizzata. La particolarità del caso italiano consiste esattamente nel forte consenso popolare accordato all’attuale governo, che va consolidandosi di giorno in giorno e che costituisce un patrimonio inestimabile per gli sfruttatori i quali sarebbero pronti, trovato l’accordo, a pagarlo anche a peso d’oro.
Tale patrimonio consiste, infatti, nella possibilità di continuare a navigare nella crisi attaccando i lavoratori e, contestualmente, potendo contare su un clima di fiducia popolare. Si tratta di una situazione davvero preziosa per i poteri forti i quali sono pronti a pagare anche un dazio, in questo caso alla media borghesia, per godere di un tale privilegio.
L’accordo possibile
Che durante una crisi capitalistica un determinato capitale, anche grande, il quale ha perso lo scontro inter-capitalistico, sia chiamato a pagare per mantenere in piedi l’intero sistema, è cosa ampiamente dimostrata dalla storia anche recente, come dimostra il caso Lehman Brothers.
Dal punto di vista politico relativo allo scontro interno alla classe dominante vi è la possibilità che si prepari un compromesso in cui la media e piccola borghesia, facendo leva sulla vasta base di consenso di cui attualmente gode, richieda le sue fette di plusvalore alla grande borghesia, ponendo sul tavolo la tenuta sostanziale dell’intero sistema di contro-riforme neoliberali - Jobs act, Fornero - ampliandolo con la flat tax ossia con una drastica riduzione della progressività delle imposte.
Partendo da questa prospettiva non è affatto impossibile che la fetta di plusvalore possa essere messa sul piatto prendendola proprio dalla società Autostrade che negli ultimi anni di crisi ha fatto profitti impressionanti.
La revoca delle concessioni e la nazionalizzazione del settore autostradale non è dunque uno scenario impensabile, a partire dalla società Autostrade che oggi domina tale mercato. La holding Atlantia, che la controlla, ha tra gli azionisti importanti gruppi finanziari internazionali, come HSBC e BlackRock, ovvero la quota di plusvalore (già monetizzato) che paghiamo al capitale anglo-americano per il loro ruolo di carabinieri del mondo. Tuttavia, non è affatto escluso che tali gruppi possano defilarsi dall'affare in cambio di altre contropartite, d'altronde il loro interesse è drenare profitto a prescindere dal segmento di mercato.
E se il consenso al governo giallo-verde viene meno?
Innanzitutto va rilevato che tale evenienza sembra essere molto distante. Non v’è dubbio che il perdurare della crisi e l’inconsistenza dei palliativi proposti dall’attuale governo, che per il momento ancora stenta a stabilizzarsi presso gli alti vertici del potere economico, possa erodere ben presto la forte base di consenso. Questo potrebbe ribaltare nuovamente i rapporti interni alle classi dominanti ma, ad oggi, la nostra preoccupazione principale come comunisti deve essere quella di concentraci su di noi, di ricostruire, come sta tentando di fare Potere al Popolo (che dobbiamo certamente sostenere) tra mille difficoltà storiche, la rete organizzativa della classe operaia puntando all’accumulazione di forze entrando a gamba tesa in tutte le contraddizioni che vanno esplodendo.
Un altro punto di vista che porta alle medesime conclusioni
Il problema del ponte Morandi, come di altre infrastrutture fatiscenti, non è tanto la mancata manutenzione - dal momento in cui fin troppe risorse sono state spese considerando la particolare vetustà di alcune opere che ci si ostina a tenere in piedi - ma il fatto che andrebbero completamente rifatte. Evidenti, infatti, sono le difficoltà economiche di ANAS, società per azioni pubblica, a mantenere in piedi, ben funzionante, la propria immensa rete stradale. In generale, il costo per mantenere gli alti standard di sicurezza per le infrastrutture di tal fatta (viadotti, centrali energetiche e altre opere complesse) è elevatissimo e non consentirebbe nessuna possibilità di profitto se non quello di tagliare gli investimenti per la messa in sicurezza. Questa modalità, stracciona, è tipica della borghesia italiana, mentre negli altri paesi a capitalismo avanzato si è scelto da tempo di integrare capitali privati e capitali pubblici avendo compreso che, in ultima istanza, il ruolo di una buona strada è quello di massimizzare il processo generale di accumulazione capitalistica. In fin dei conti l’infrastruttura stradale ha lo scopo di far viaggiare rapidamente le merci e per questo deve essere efficiente e funzionale.
Oggi in Italia si pone apertamente il problema di ricostruire completamente o mettere in sicurezza (e questa è un’esigenza soprattutto del capitale) una grossa parte del patrimonio stradale e ciò comporta una spesa notevole di centinaia di miliardi di euro che nessun capitale privato si sognerebbe di investire e che dunque solo lo Stato può sostenere.
In conclusione
Secondo il nostro punto di vista, quindi, è certamente possibile che anche in Italia dopo qualche decennio si ritorni ad una gestione statale delle infrastrutture complesse. La forma con cui questo può avvenire può dipendere, al momento, solo dagli accordi tra i gruppi capitalistici. L’ipotesi più probabile sembra quella di utilizzare i risparmi postali degli italiani, mobilitando Cassa Depositi e Prestiti, per sostenere le immense spese dando tutto poi in concessione a ANAS, o ad un altro ente creato ad hoc, e escludendo dal perimetro della pubblica amministrazione questo ente, sulla falsariga di quanto fatto fino ad oggi per le Ferrovie dello Stato. Ma è anche possibile che vi sia una partita in due tempi: risanamento pubblico, prima, e nuove liberalizzazioni, poi. Ad ogni modo, crediamo che il crollo del ponte Morandi abbia segnato un punto di svolta nella gestione borghese delle infrastrutture stradali. Non v’è dubbio che si tratterebbe, anche nel caso di statalizzazione, di una forma di rivoluzione passiva, utile in ultima istanza al capitale, i cui costi sarebbero pagati dalle masse operaie.
In cosa consisterebbe invece una nazionalizzazione operata da un governo rivoluzionario?
Un governo rivoluzionario, in uno Stato che ha fatto la rivoluzione proletaria e che impone la sua dittatura per mezzo delle proprie strutture democratiche ossia quelle consiliari, avrebbe certamente come progetto quello della nazionalizzazione dei settori strategici e parallelamente quello della fusione della pletora di piccole-medie imprese per portarle su dimensioni accettabili ad una razionale organizzazione della produzione. Ma, in tal caso, la nazionalizzazione avverrebbe senza indennizzo e i costi della ristrutturazione di tutto il complesso di infrastrutture non potrebbero che essere addebitati al capitale finanziario per mezzo della nazionalizzazione della banca centrale e la cancellazione del debito pubblico. È difatti su questo punto, cioè sul proverbiale “chi paga?”, che si gioca la differenza tra una statalizzazione operata in regime borghese e quella operata in regime socialista.