I concetti fondamentali de Il capitale – parte III

Proseguendo nell’esposizione dei lineamenti fondamentali di Il capitale analizzeremo: l’“accumulazione originaria”, l’origine del profitto dal pluslavoro, il “plusvalore assoluto” e “relativo”, la necessità dell’innovazione tecnologica e le condizioni paradossali che produce sui lavoratori salariati.


I concetti fondamentali de Il capitale – parte III

di Renato Caputo

Proseguendo nell’esposizione dei lineamenti fondamentali di Il capitale analizzeremo: l’“accumulazione originaria”, l’origine del profitto dal pluslavoro, il “plusvalore assoluto” e “relativo”, la necessità dell’innovazione tecnologica e le condizioni paradossali che produce sui lavoratori salariati.

segue da parte II

L’Accumulazione originaria

Il monopolio dei mezzi di produzione e di riproduzione della forza lavoro – presupposto del modo di produzione capitalista in quanto rende necessaria l’alienazione della capacità di lavoro del proletario – è il prodotto dell’accumulazione originaria del capitale, a partire dalla dissoluzione del feudalesimo mediante lo sviluppo dei commerci e delle attività finanziarie. La forza-lavoro, essendo ridotta a merce, ha un suo valore che equivale a quello dei mezzi di sussistenza necessari per la sua riproduzione. Perciò chi sostiene che l’uomo non è una merce, dovrebbe conseguentemente battersi contro un sistema che riduce l’essenza generica della maggioranza degli individui a una merce, per altro da vendere sempre a un prezzo ribassato. In effetti, in cambio dello sfruttamento della forza-lavoro, i capitalisti corrispondono alla classe dei salariati il salario minimo necessario, in una determinata epoca e società, per consentirle di continuare a lavorare fino a quando non sarà sostituibile dalla nuova generazione, a tale scopo formata. Il salario, come categoria sociale, è corrisposto al salariato in forma diretta con la busta paga, in forma indiretta attraverso tutti quei servizi a prezzi calmierati indispensabili alla riproduzione della forza lavoro, e in forma differita nel tempo, come riserva necessaria a non far morire di stenti il lavoratore quando non è più abile a essere adeguatamente sfruttato sul posto di lavoro.

Ciò permette di comprendere l’amenità della battaglia della a-sinistra riformista o neo-lassalliana che si batte per lo Stato sociale o il Welfare State. Come se lo Stato borghese, funzionale allo sfruttamento della classe dei salariati, svolgesse una funzione a favore della società favorendo la riproduzione di un ceto sociale costretto a vendere come merce la propria forza-lavoro per realizzare profitti sempre più privati. Ci vuole dunque la faccia tosta dei riformisti per poter definire Stato del benessere, lo Stato destinato a perpetuare lo sfruttamento della grande maggioranza del genere umano a beneficio di una minoranza di non lavoratori sempre più esigua.

Altrettanto amene appaiono le rivendicazioni dell’attuale (a)sinistra neo-proudhoniana a partire dal salario sociale, considerato che il salario è per definizione tale, al salario minimo, caratteristica egualmente necessaria della retribuzione della forza-lavoro nella società capitalista, al reddito di sussistenza per disoccupati e sottoccupati, già ricompreso nel concetto di salario sociale. Si tratta, non a caso, di rivendicazioni desunte inconsapevolmente dagli stessi ideologi neoliberisti, in quanto si tratta sostanzialmente di misure volte semplicemente a redistribuire il salario in quanto tale sociale tra i diversi settori della classe, per consentire la riproduzione dell’esercito industriale di riserva nelle sue tre forme; la fluttuante, corrispondente ai lavoratori in cassa integrazione e in mobilità, la latente, corrispondente ai lavoratori in formazione, la stagnante: “una parte dell’esercito operaio attivo, ma con un’occupazione assolutamente irregolare.(…) Le sue caratteristiche sono: massimo tempo di lavoro e minimo di salario”. Così, ad esempio, il “padre nobile” del neoliberismo, Friedrich August von Hayek pur opponendosi a ogni forma di giustizia sociale, a ogni misura economica a favore dei più bisognosi, in quanto violerebbe la sacralità della proprietà priva, per i deboli, malati, vedove, orfani ecc. ritiene debbano avere assicurati un reddito minimo per sopravvivere dall’assistenza sociale. Anche perché tale misura assistenziale nei confronti degli individui renderebbe più semplice cancellare i diritti collettivi conquistati dal movimento dei lavoratori.

L’origine del profitto dal plus-lavoro

Per comprendere l’origine del profitto, bisogna ricordare che il valore d’uso della forza lavoro nella società capitalista è di creare plusvalore, ovvero una quantità maggiore di ricchezza di quella retribuita con il salario. Le macchine invece, in quanto prodotto del lavoro passato, ormai morto, in media riproducono il loro valore, corrispondente al lavoro astratto impiegato a produrle. Dunque, chi è costretto per potersi riprodurre a vendere la propria forza-lavoro ne realizza il valore di scambio alienandone il valore d’uso, come il venditore di qualsiasi altra merce, mentre il capitalista – acquistata la forza-lavoro – la consuma a proprio piacimento, come qualsiasi altra merce. Il consumo della forza-lavoro è l’attività lavorativa che produce per chi la ha acquistata nuove merci con un valore superiore a quelle di cui il salariato ha bisogno per riprodursi come forza-lavoro e che gli sono corrisposte nel salario. La merce forza-lavoro viene infatti consumata, ovvero è costretta a lavorare per il padrone sino a che non ha prodotto un valore maggiore di quello anticipato dal capitalista per impiegarla, tale valore aggiunto è definito da Marx plusvalore.

Plusvalore assoluto e relativo

Occorre in primo luogo definire il plusvalore assoluto, dato dal tempo del pluslavoro, ovvero dalla parte della giornata lavorativa in cui il lavoratore non riproduce più l’equivalente di valore che gli viene retribuito, ma produce valore a esclusivo beneficio dell’acquirente della sua capacità di lavoro, che vorrà far fruttare al massimo il proprio investimento, aumentando quanto più possibile la durata della giornata lavorativa. Tale aumento però ha dei limiti fisici, non solo per la durata della giornata, ma per la necessità di lasciare alla classe dei salariati il tempo necessario per potersi riprodurre come tale. Proprio perciò chi acquista forza-lavoro mirerà al contempo a massimizzare il plusvalore relativo, velocizzando al massimo i ritmi della produzione, eliminando ogni tempo morto, per diminuire la percentuale della giornata destinata a riprodurre il valore della forza-lavoro corrisposto nel salario, implementandone lo sfruttamento. Il capitalista, sotto la costante pressione della concorrenza, se vorrà rimanere tale, dovrà cercare di aumentare, con ogni mezzo necessario, l’ammontare del pluslavoro. Tanto più che si tratta di un suo “diritto”, dal momento che chi acquista una merce si appropria della possibilità di consumarla come meglio crede, ossia traendone il massimo profitto. Così se i salariati non sono in grado di organizzarsi e battersi per limitare i ritmi e l’orario di lavoro, dovrà intervenire lo Stato, posto a tutela degli interessi della grande borghesia nel suo complesso, altrimenti la forza-lavoro non avrebbe il tempo necessario per riprodursi e, quindi, lo sfruttamento non potrebbe perpetuarsi nel tempo. Discorso analogo vale per l’uso della forza lavoro, dal momento che l’acquirente potrebbe consumarla come meglio crede, così se i lavoratori non sono in grado di unirsi e lottare per porre dei limiti all’arbitrio dello sfruttamento, sforzandosi di fissare delle condizioni massime per il consumo della forza-lavoro, limitando le mansioni e i ritmi, si arriverebbe a un genocidio come quello degli amerindi da parte dei conquistadores, o agli harem a beneficio degli impresari che descrive Engels già nel suo pionieristico studio su La condizione della classe operaia.

Lo sfruttamento

Dunque oltre al lavoro retribuito il salariato deve svolgere, nella società capitalistica, anche un lavoro non retribuito, un plus-lavoro. Se le ore necessarie a ripagare il valore di scambio della forza lavoro sono, facendo un esempio realistico, quattro, il capitalista farà lavorare l’operaio almeno altre quattro ore, per realizzare il fine di questo modo di produzione, ovvero la massimizzazione del proprio profitto privato. Con il plusvalore prodotto da due ore di pluslavoro, seguendo il nostro esempio, l’imprenditore pagherà le materie prime e i mezzi di lavoro consumati, le altre due ore saranno a beneficio del suo profitto. Se al livello del mercato, che si svolge alla luce del sole, ed è regolato dal diritto e dall’utilitarismo individualista, avevamo uno scambio di equivalenti, forza-lavoro in cambio del valore necessario a riprodurla, nella produzione che si svolge sempre in un ambito privato, dove l’accesso è da sempre negato ai non addetti ai lavori, per cui varcate le sue soglie dalla sfera dell’eguaglianza giuridica si ritorna all’antica relazione fra servo e padrone, abbiamo l’appropriazione di valore non retribuito. Il plusvalore prodotto è proprietà di chi si è assicurato il possesso della forza-lavoro e, dunque, se ne gioverà interamente il capitalista, sebbene non si tratti del frutto del proprio lavoro, ma del pluslavoro dei propri sottoposti. Così il capitalista non solo reintegra il capitale anticipato in forza-lavoro, materie prime e macchinario, ma necessariamente deve aumentarlo, altrimenti investirebbe altrove. Tragicomiche appaiono, dunque, le denunce di quei dirigenti sindacali che mettono in guardia contro i rischi di sfruttamento del lavoro. Anzi, nel mondo rovesciato del capitale, un proletario è in grado di riprodursi solo se trova chi lo sfrutta adeguatamente alle proprie aspettative di profitto.

La necessità dell’innovazione tecnologica e le condizioni paradossali che produce

Dunque, sotto la spinta della concorrenza, il capitale sarà portato ad aumentare sempre più il plusvalore assoluto, allungando il tempo di lavoro, rendendo sempre più indispensabili alla sopravvivenza del lavoratore gli straordinari, sempre meno riconosciuti e retribuiti come tali. Quando ciò non è più possibile, in quanto si è raggiunto il limite fisico, oppure in quanto i lavoratori coalizzati sono in grado di far valere i propri interessi, i capitalisti tenderanno a introdurre nuove tecnologie che permettono di produrre in meno tempo e a un prezzo più basso i mezzi di sussistenza anticipati nel salario, concentrando e centralizzando la produzione in modo da realizzare una maggiore divisione del lavoro. Così il processo produttivo diviene sempre più sociale, tanto che si parla di globalizzazione della produzione, mentre i mezzi di produzione e di riproduzione della forza-lavoro sono concentrati in sempre meno mani, visto che la concorrenza fa sì che i pesci più grandi divorino i pesci più piccoli. Quando non sarà più possibile accrescere neanche il plusvalore relativo, il capitale, spinto ancora dall’implacabile legge della concorrenza, introdurrà macchine che consentiranno di aumentare l’esercito industriale di riserva, facendo aumentare la sua pressione e il suo ricatto sugli occupati, segnando così l’ulteriore diminuzione del prezzo della forza-lavoro.

09/07/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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