Dai dati dell’osservatorio sul precariato dell’Inps emerge la vera natura del Jobs act. Lo scempio dell’articolo 18 induce a uno spaventoso aumento di licenziamenti per motivi disciplinari, spesso per ragioni del tutto pretestuose. Così, alla Magneti Marelli di Sulmona, un capo reparto con 30 anni di servizio, sospettato di essere troppo morbido con gli operai, è stato licenziato per non essersi prontamente accorto di due pezzi difettosi, causando un danno di circa 50 euro. Più in generale, nei primi mesi del 2017, rispetto all’anno precedente, i licenziamenti per motivi disciplinari sono aumentati di un terzo, di due terzi rispetto a due anni fa, prima dell’entrata in vigore del Jobs act. Il pensiero unico liberista dominante – secondo il quale il principale problema sarebbe la mancanza di lavoro, a causa dei lacci e lacciuoli che impedirebbero la libertà di impresa e di commercio e, dunque, l’azione di quella mano invisibile che dovrebbe riequilibrare la domanda con l’offerta – dimostra di essere una mera ideologia, strumentale alla lotta di classe dall’alto, in funzione della massimizzazione dei profitti realizzata sulla pelle dei lavoratori. In realtà a mancare non è il lavoro tout court – per cui sarebbe necessario restaurare la piena libertà di impresa, azzerando le conquiste del movimento dei lavoratori – quanto piuttosto difettano salari non da fame e condizioni di impiego dignitose. In effetti lo smantellamento del cardine dello Statuto dei lavoratori ha portato essenzialmente alla sostituzione di impieghi stabili – con condizioni di lavoro migliorate grazie alle conquiste sociali degli anni sessanta e settanta – con lavoretti precari in cui i lavoratori sono privati di qualsiasi diritto, o meglio conquista. Appena sono venuti meno gli incentivi del Jobs act alle imprese (11 miliardi passati, in tre anni, dalle tasche dei contribuenti alle tasche degli imprenditori), che avevano drogato il mercato del lavoro, per indorare la pillola della controriforma dello Statuto dei lavoratori, sono crollate le assunzioni a tempo indeterminato, risultando dimezzate rispetto all’anno precedente e ridotte a non più del 15% rispetto a quando nel 2015 furono introdotti gli sgravi fiscali. Così, mentre il sondaggio Demos-coop, pubblicato su Repubblica, mostra come oltre due terzi degli italiani sono favorevoli al “ripristino dell’articolo 18” e persino Brunetta osserva che “Il Jobs Act è dipendente soltanto dagli sgravi contributivi”, il presidente dell’Inps pensa, paradossalmente, di risolvere il problema rilanciando gli incentivi. Del resto, le poche assunzioni a tempo indeterminato avvengono a patto di un’ulteriore significativa decurtazione dei salari e senza più le tutele da licenziamenti illegittimi garantire dall’articolo 18.
Dunque ancora una volta l’egemonia della restaurazione liberista nel nostro paese ci ha portato a competere su un mercato, ormai, mondiale puntando essenzialmente “sull’abbattimento del costo del lavoro, dando più flessibilità alle imprese per assumere e licenziare. Le conseguenze”, per citare ancora le parole della stessa presidente della Camera, “le possiamo leggere in poche, dure cifre: in Italia la disoccupazione giovanile è tra il 38 e il 40%, contro una media europea del 22; le donne che lavorano sono 48 su 100, mentre il dato Ue è di 12 punti più alto”. Anche nell’ultimo anno a crescere in misura esponenziale sono esclusivamente le assunzioni a tempo determinato e i contratti di apprendistato, la cui somma risulta quasi dieci volte superiore a quella dei contratti stabili. Fra il 1 marzo e il 17 marzo, quando sono stati aboliti, sono stati venduti più di dieci milioni e mezzo di voucher, ovvero un numero analogo di quelli venduti nell’intero mese di marzo dell’anno precedente.
In questa situazione non possono che accrescersi, in misura allarmante, le malattie professionali e gli incidenti sul lavoro, mentre gli omicidi bianchi hanno superato l’anno scorso quota seicento. I più colpiti sono naturalmente i lavoratori più anziani costretti, dalle continue controriforme delle pensioni, a potersi ritirare dal lavoro in età sempre più avanzata, anche svolgendo lavori logoranti o pericolosi come nel settore dell’edilizia.
La restaurazione liberista – sfruttando sapientemente i diktat delle istituzioni europee, resi possibili dai trattati ultraliberisti accolti supinamente insieme alla gabbia del pareggio di bilancio e del patto di stabilità dalle principali forze politiche di centrodestra e centrosinistra del nostro paese insieme al diabolico meccanismo del debito – spinge il governo a scaricare sulle comunità territoriali e sugli enti locali i costi sociali della crisi. In tal modo la loro funzione sociale e pubblica è rimessa in discussione, in quanto gli viene imposta la progressiva alienazione, ovvero la svendita a ricchi privati di servizi, beni comuni, patrimonio pubblico. La significativa ricchezza ancora posseduta dagli enti locali, quasi seicento miliardi, viene considerata un oltraggio al pensiero unico liberista teso a privatizzare tutto, per massimizzare i profitti privati. Così sfruttando il feticcio del debito, in soli 7 anni le risorse sottratte ai territori, mediante tagli e privatizzazioni, si sono decuplicate, nonostante le spese degli enti locali non abbiano inciso su più del 2% del deficit. Ciò nonostante gli interessi sul debito gravano in misura crescente sui territori, decurtando fino a un quarto le risorse degli enti locali medio-piccoli, sempre più costretti a risparmiare sui servizi pubblici, a discapito delle fasce più deboli della popolazione.
Del resto il pensiero unico liberista mira a restaurare lo stato guardiano notturno vagheggiato dai padri del liberismo, uno stato che lascia completamente in mano ai privati le leve dell’economia e che decurta ogni spesa improduttiva, con le sola eccezione dell’apparato militare volto a salvaguardare gli attuali rapporti di produzione e proprietà. Ecco così che il nostro presidente del consiglio ecologista e cattolico scatta sull’attenti dinanzi all’ingiunzione dello storico alleato americano di accrescere i finanziamenti alla Nato, dichiarandosi “fiero del contributo finanziario dell’Italia alla sicurezza dell’Alleanza” e pronto a esaudire la pressante richiesta di Donald Trump di portare le già ingenti spese militari al 2% del pil, ovvero a un centinaio di milioni di euro al giorno.
Tutto ciò sebbene, anche prima di questo nuovo salasso di risorse pubbliche da sacrificare sull’altare dell’imperialismo transnazionale, i costanti tagli all’istruzione pubblica hanno portato il nostro paese a precipitare al penultimo posto fra i paesi Ue, tallonati dalla Romania, per numero di laureati. In Italia abbiamo così il 26% di laureati contro una media del 39%, nonostante la qualità della didattica pubblica sia stata costantemente decurtata da ripetute controriforme dell’istruzione giustificate proprio dalla necessità di semplificare al massimo il percorso degli studi per far crescere il numero dei laureati. Mentre continuano a crescere le tasse indirette, le borse di studio per i meritevoli non abbienti si sono ridotte al punto da condannare l’Italia all’ultimo posto fra i paese Ue. Non migliore è la situazione della scuola secondaria dove siamo precipitati, secondo gli stessi dati Eurostat, al quintultimo posto per numero di abbandoni scolastici, con picchi al sud del 17%.
La sete di profitto e i costanti tagli alla spesa pubblica, imposti dalla restaurazione liberista, stanno inoltre compromettendo lo stesso rapporto fra l’uomo e l’ambiente naturale in cui vive. Essendo la cura di quest’ultimo sempre più subordinata alle dinamiche dell’accumulazione capitalistica, aumentano, in modo particolare nel nostro paese, i danni alla salute provocati dal crescente inquinamento dell’aria. In questo caso, però, chi ci governa appare del tutto insensibile alle richieste sempre più incalzanti della stessa Commissione europea che, da tempo, ingiunge al governo di imporre limiti all’inquinamento da polveri sottili che ha ormai superato il limite della tolleranza, rappresentando “un grave rischio per la salute pubblica”.
Mentre in diversi altri paesi occidentali, anche a capitalismo avanzato, crescono le forze politiche che si oppongono alla restaurazione liberista, in Italia l’opposizione di sinistra negli ultimi anni si è sempre più indebolita. Al punto che non appare più in grado di interpretare in senso progressivo il profondo disagio sociale prodotto dalle misure imposte dalla restaurazione liberista. Così la sinistra di classe non è stata in grado di sfruttare, per rilanciarsi, nemmeno le significative esplosioni di rabbia sociale che si sono manifestate, anche negli ultimi mesi, nei settori più significativi delle classi subalterne. Per limitarci ai casi più emblematici ricordiamo in primo luogo il netto No – espresso dai giovani precari, dalle periferie, dalle regioni del sud più colpite dagli effetti antisociali delle politiche liberiste – di fronte al tentativo della restaurazione liberista di manomettere ulteriormente la nostra costituzione democratica. In secondo luogo l’altrettanto deciso No, pronunciato dalle principali fabbriche di fronte alla proposta di rinnovo del contratto dei metalmeccanici, nonostante fosse sostenuto non solo dalle grancasse dell’ideologia dominante, ma dai sindacati maggiormente rappresentativi compresa la Fiom di Landini, che aveva costituito, negli anni precedenti, una significativa alternativa alla deriva neocorporativa delle burocrazie sindacali. Infine occorre ricordare il recentissimo No della grande maggioranza dei lavoratori Alitalia dinanzi al solito ricatto posto dalla restaurazione liberista, in base al quale l’unico modo per mantenere il posto di lavoro sarebbe accettare la riduzione del salario e il peggioramento delle condizioni di lavoro.
Sono, dunque, ancora presenti anche nel nostro paese significativi anticorpi, rigeneratisi in modo più o meno spontaneo fra le classi subalterne, in grado di contrastare la resistibile avanzata della restaurazione liberista. D’altra parte questi sonori e coraggiosi No stentano a divenire dei Sì a una politica economica alternativa, per la grave carenza delle forze sindacali e politiche che dovrebbero dirigere in modo consapevole i movimenti spontanei prodotti dalle tragiche condizioni di vita in cui versano i ceti subalterni nell’epoca della restaurazione liberista.
Ciò dipende dalla drammatica carenza di spirito dell’utopia e dello stesso principio speranza nell’affermazione di un modo di produzione più razionale, dovuto all’autofobia che impedisce di apprendere criticamente dalla propria stessa storia. Ecco che, allora, la maggioranza della stessa sinistra radicale italiana non appare capace di individuare nel proprio imperialismo, il primo nemico da abbattere; da ciò dipende l’illusione di poter governare la crisi del modo di produzione capitalista, propria di quella logica istituzionalista che abbiamo definito la malattia senile della sinistra.
Tale malattia, purtroppo, trascende i confini del nostro paese essendosi radicata nella stessa maggioranza della Sinistra europea costituita da formazioni come Syriza e la maggioranza della Linke tedesca che mirano a sostituirsi o ad allearsi, anche in posizione subalterna, con quelle forze della socialdemocrazia europea che, proprio per aver inseguito il mito di una gestione da sinistra della crisi del capitalismo, sono oggi a rischio di estinzione in diversi paesi.