Occorre rilevare che, sebbene flessibilità e precariato siano due fenomeni solo indirettamente correlati e non del tutto sovrapponibili e assimilabili, si caratterizzano entrambi per aver favorito l'espansione di forme contrattuali atipiche. Di tali rischi ha preso atto persino l’Unione (imperialista) Europea, lanciando un controverso programma che aveva la pretesa di conciliare la flessibilità con la sicurezza occupazionale: la flexicurity che, in particolare da noi, ha avuto scarsissimi effetti.
In altri termini, per quanto si sia cercato, spesso persino a sinistra, di salvare il principio della flessibilità, nella speranza che questo non si traduca nella condanna a vita alla precarietà, tali tentativi hanno avuto scarsa efficacia. Anche perché l’ideologia dominante, attraverso la mistificazione del concetto di precariato sostituito da termini come flessibilità o mobilità della forza-lavoro, a partire già dagli anni novanta dello scorso secolo, ha imposto la realizzazione di apposite norme anche per quelle fette di mercato mondiale in cui l’aristocrazia proletaria ancora godeva delle briciole derivanti dallo sfruttamento della forza lavoratrice proveniente o direttamente ubicata nei paesi poveri e sottosviluppati. In precedenza i lavori socialmente utili erano l'unica tipologia di lavoro che una consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato qualificava come lavoro sicuramente precario.
D’altra parte la stessa flessibilità comporta la disponibilità a lavorare oltre l’orario normale o nei giorni festivi sulla base delle esigenze aziendali, la disponibilità a cambiare mansione indipendentemente dalla propria volontà e a trasferte anche di lunga durata o al trasferimento della sede di lavoro, pur avendo casa e una vita relazionale affermata in un altro luogo da diversi anni. Perciò, non solo la comunità scientifica non ha ancora trovato un accordo per definire in modo univoco e, dunque, distinguere flessibilità e precariato, ma nello stesso linguaggio comune sono spesso utilizzati come sinonimi per riferirsi alle nuove forme del mondo del lavoro. Del resto, se il lavoro nero è certamente precariato, il part-time, i contratti a termine e il lavoro parasubordinato, formalmente autonomo (libero professionista), ma nei fatti dipendente, sono flessibili, ma divengono precari quando sono privi di garanzie quali la copertura assicurativa, la sicurezza sociale, i meccanismi di anzianità e il Tfr, ossia nella stragrande maggioranza dei casi.
La forza-lavoro precaria ha un’occupazione irregolare e, dunque, da una parte è una componente dell’esercito industriale attivo, dall’altra è una componente dell’esercito industriale di riserva, definita stagnante in quanto tendenzialmente destinata a rimanere identica a se stessa. Essa è prodotto della sovrapproduzione delle forze produttive che, dal punto di vista della forza-lavoro, genera la sovrappopolazione assoluta, ovvero la disoccupazione, e la sovrappopolazione relativa, ovvero il lavoro precario. Tale sovrappopolazione è assolutamente necessaria nel modo di produzione capitalistico, non solo perché giunto a una certa fase del suo sviluppo innesca la crescente contraddizione fra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione, ma poiché è indispensabile alla riproduzione su scala allargata del capitale, in quanto accresce i margini di plusvalore. Inoltre, essa tende a essere occupata, spesso al nero, nei comparti più duri della produzione, dal settore tessile e dell’abbigliamento all’edilizia.
Naturalmente, poi, agli occupati dipendenti a tempo determinato vanno assimilate le diffuse forme di lavoro autonomo, assai meno tutelate, che condividono aspetti essenziali del lavoro dipendente. Sempre che il lavoro nominalmente e giuridicamente autonomo non serva essenzialmente a mascherare, come spesso avviene, una forma di lavoro subordinato, senza però le maggiori garanzie di quest'ultimo. Ciò ha determinato, innanzitutto, l’incremento costante dell’impiego di lavoratori a tutti gli effetti dipendenti, ma con contratti precari – giustamente definiti parasubordinati – situazione che avrebbe dovuto avere, nel 2005, un punto di svolta, proprio per impedire la completa identificazione con il precariato. Tanto che, come abbiamo visto, la Commissione europea ha rivisto la strategia occupazionale di Lisbona e, nello specifico, ha proposto agli Stati membri di ridurre la segmentazione del mercato del lavoro tramite la flexsecurity. Grazie alla quale, la crescente flessibilizzazione del lavoro non avrebbe dovuto comportare un proporzionale aumento del precariato. Flessicurezza, orribile termine composto dall’unione linguistico-concettuale di due realtà antitetiche e necessariamente autoescludentisi. Se la flessibilità richiesta altro non è che l’abbattimento di diritti storici conquistati a salvaguardia di una forza-lavoro privata così di qualsiasi potere, la “sicurezza” di chi lavora conseguentemente dovrà scemare fino ad annullarsi.
Per quanto concerne il lavoro autonomo di seconda generazione, esso è caratterizzato da quell’ambivalenza che ha sempre caratterizzato il rapporto che uomini e donne hanno avuto con il lavoro nel capitalismo. Da una parte, ricerca di autonomia, affermazione, critica dello sfruttamento; dall’altra le forme del comando capitalistico su di esso. In questa ambivalenza, il lavoratore autonomo di seconda generazione tende a rifiutare “il posto fisso”, ma al tempo stesso sperimenta lo sfruttamento capitalistico. Allungamento della giornata lavorativa, costante riduzione dei compensi, ricatti da parte del “committente”, quasi sempre un’impresa tipicamente capitalistica, un prelievo fiscale articolato secondo una logica neoliberista, in base alla quale il lavoratore autonomo è un imprenditore di se stesso: sono questi gli elementi che caratterizzano la costituzione materiale del lavoro autonomo di seconda generazione.
Peraltro sottolineare la precarietà nello specifico dei rapporti di lavoro a tempo determinato acquista realmente rilevanza solo a fronte di un regime di forte stabilità o forte tutela dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato, ancora tutelato contro i licenziamenti privi di una giusta causa. Fino a quale anno fa la scelta crescente delle imprese verso il tempo determinato, fortemente concentrata nelle assunzioni dei giovani, era stata giustificata dalla presunta “rigidità” delle regole sul licenziamento e da una convenienza economica. Lo Statuto dei lavoratori del 1970 nella sua interezza, compreso l’articolo 18 e il titolo III sui diritti sindacali, si applicava, peraltro, soltanto a 3,6 milioni di dipendenti pubblici e 5,8 milioni di dipendenti di aziende private con più di 15 lavoratori. In tutto, circa 9 milioni e mezzo, su di una forza-lavoro di oltre 22 milioni. Restavano fuori quasi altrettanti lavoratori in posizione di dipendenza: non solo quelli delle piccole imprese, ma anche i collaboratori autonomi, i lavoratori a progetto, gli irregolari. Questo dualismo, questo regime di apartheid era la grande ingiustizia del nostro sistema di protezione, di fatto smantellato dal Jobs act, che ha finito con il generalizzare al ribasso le precedenti conquiste in termini di tutele dei lavoratori dall’arbitrio del padronato.
È così emerso l’imbroglio dell’ideologia dominante, egemone anche su settori della sinistra radical, per cui la metà non protetta dei lavoratori – dipendenti di piccole imprese appaltatrici o “terziste”, co.co.co., lavoratori a progetto, “associati in partecipazione”, false partite Iva, irregolari – avrebbe portato sulle proprie spalle tutta la flessibilità di cui il sistema avrebbe bisogno; mentre nella metà protetta l’inamovibilità avrebbe generato “inefficienze gravi” e presunte “posizioni di rendita inaccettabili”. Per cui il precariato permanente non sarebbe stato che l’altra faccia dell’“inamovibilità” dei “lavoratori regolari”. Si è così diviso il fronte dei lavoratori. In tal modo, è stato ancora più semplice cancellare, come abbiamo visto, anche le residue conquiste dei lavoratori, che sono andate perdute insieme all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, con il risultato di una sostanziale generalizzazione della flessibilità e della precarizzazione del lavoro.
Per quanto gli indicatori ufficiali sull'occupazione in Italia abbiano sempre tentato di ridimensionare l'incidenza della precarietà nel mercato del lavoro, il sentimento d’incertezza è così diffuso anche tra chi “ufficialmente” precario non è. Il sentimento di precarietà si è a tal punto diffuso in quanto è divenuto sinonimo di un insieme di dispositivi legislativi che non disciplina solo i rapporti contrattuali dei lavoratori a “tempo determinato”, ma esercita ormai un controllo generalizzato su l’intera forza-lavoro.
Così, una massa crescente di lavoratori dipendenti, valutabili in circa un quarto della forza lavoro, che dichiarano di essere occupati, oltre 4 milioni di persone, stanno ormai precipitando al di sotto della soglia di povertà relativa divenendo, di fatto, working poors. Inoltre una quota molto rilevante di questi ultimi potrà contare su una pensione corrispondente a circa un 30%, o meno, di un salario medio, quali che siano i loro risparmi, impegni ecc.
Al contempo, investimenti a tappeto in paesi in via di sviluppo, delocalizzazioni, decentramenti, subforniture, filiere, indotti produttivi, ecc. hanno invece reso possibile la diffusione della narrazione della presunta “fine della classe operaia” se non, addirittura, dello stesso lavoro.
Andando alle conclusioni, si può dire che la flessibilità è entrata nell’immaginario collettivo come una sorta di destino per chi entra oggi nel mondo del lavoro. Secondo la rappresentazione dominante nei mass media, i giovani, adattandosi alle esigenze sempre nuove del mercato del lavoro, svilupperebbero, grazie alla flessibilità, la propria professionalità sfuggendo alla disoccupazione. Si può perciò parlare di un’estetizzazione della flessibilità da parte della comunicazione mainstream. Tale immagine si è incrinata negli ultimi anni, in cui sono emerse le contraddizioni e le problematiche dei nuovi lavori flessibili e la flessibilità è stata progressivamente identificata con il precariato. Se la flessibilità può comportare dei vantaggi nei lavori mentali, creativi e decisionali, divenendo in altri casi precariato porta un numero crescente di persone, anche fra i ricercatori, a lavorare per ottenere condizioni di esistenza ridotte al minimo.
Del resto, è sempre meno scontato che un periodo di lavoro precario sia la premessa a forme contrattuali stabili e, comunque, la stabilizzazione è sempre più posticipata. Inoltre con la flessibilità oraria, l’attività lavorativa è concentrata e diluita secondo le esigenze del sistema produttivo, sui ritmi del quale i lavoratori devono sincronizzare il tempo di vita proprio e dei familiari. Il limite oltre cui aumenta l’aggravio per la condizione fisica del lavoratore è calcolato non più su base giornaliera, ma settimanale, mensile o annuale. In tal modo il ciclo fisiologico entro cui il lavoratore deve completare il recupero delle sue energie rischia di essere compromesso.