La rimozione del blocco dei licenziamenti è il presupposto per ridefinire un modello più efficiente di capitalismo
In via di risoluzione la campagna vaccinale, superata l’emergenza della logistica e normalizzato l’approvvigionamento dei vaccini, predisposto e consegnato il Pnrr a fine aprile, avviate le prime riaperture in queste settimane (con tutta la canea propagandistica sollevata da Lega e Fratelli d’Italia), Mario Draghi è finalmente “libero” di concentrarsi sul vero obiettivo per cui è stato chiamato a governare l’Italia: gestire i miliardi del Recovery Fund, funzionali a rilanciare il progetto europeista del Next Generation Eu.
Rimane l’ultimo ostacolo dello stato di emergenza, da mesi bombardato da Bonomi e Confindustria, che Draghi ha fatto rimuovere: la volontà di porre fine al blocco dei licenziamenti (in realtà solo enunciato, come ha ben spiegato Emiliano Brancaccio in una intervista a “Il manifesto” del 30 maggio), la cui scadenza del 30 giugno il ministro del Lavoro Orlando aveva tentato timidamente di prorogare a fine agosto, è un sonoro schiaffo alla componente dem (e pentastellata) dell’esecutivo, dopo i rimbrotti a Letta per la mini-tassa di successione (sulla “fortuna”, più che sulla ricchezza). È vero che Draghi ha in parte frenato anche le intemperanze di Salvini sulle aperture, ma come un buon padre di famiglia che rimbrotta e richiama benevolmente alla ragionevolezza il figlio un po’ scapestrato, o piuttosto come un amministratore delegato della grande borghesia che rintuzza le forzature demagogiche su temi propagandistici: di fatto Draghi ha solo rallentato le richieste di apertura integrale, più che rigettarle.
In realtà, è evidente quale sia la direzione verso cui Draghi intende andare: ripristinare il modello iperliberista dettato da Confindustria e sostenuto in sostanza dalla Lega. Salvini, consapevole della componente elettorale e sociale operaia, che ha in una tasca la tessera Fiom e nell’altra quella della Lega, si barcamena con posizioni compromissorie in cui si dà il via libera allo sblocco, con limitazioni “selettive” e mirate (alle aziende e ai comparti in cui ha la propria base elettorale?).
La proposta di Draghi è di controbilanciare la restituita libertà di licenziamento alle imprese con riforme degli strumenti assistenziali, avanzata genericamente in varie dichiarazioni e fatta balenare alle organizzazioni sindacali, già pronte a ingoiare tutto: Cisl e Uil hanno già dichiarato la loro disponibilità, mentre la Cgil fa la voce grossa con Landini, ma si mostra già pronta ad accettare qualsiasi smantellamento di diritti in cambio di piccole concessioni contrattuali. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza sarà invece fondato sul ripristino di un mercato del lavoro il più possibile svincolato da lacci e lacciuoli, che straccerà intenzionalmente i residui controlli, già ridottissimi sia sugli appalti che sulle condizioni di sicurezza (viste le continue infiltrazioni criminali e mafiose da un lato e l’aumento di incidenti soprattutto mortali dall’altro), e restituirà alle aziende la piena libertà di impresa (che significa massimizzare la logica del profitto con la minima responsabilità sociale). Tradotto in termini espliciti: libertà di comprimere i salari, di incrementare lo sfruttamento incentivando la produttività, di ricattare lavoratori e lavoratrici, di licenziare e ristrutturare per mantenersi competitivi nel selvaggio mondo commerciale globalizzato.
Pubblica Amministrazione on demand: la migliore offerta di Brunetta per il padronato
La “ricetta Draghi” si basa su un disegno complessivo del funzionamento del sistema-Paese con un progetto di “riforme” burocratiche e amministrative: diventa perciò necessario intervenire per ristrutturare la Pubblica Amministrazione, compito a cui è stato chiamato (tra lo sconcerto iniziale, ma oggi ben chiaro) Renato Brunetta. Il Ministro fustigatore dei fannulloni si è presentato con dichiarazioni rassicuranti e permeate di buone intenzioni, evidenziando la necessità di assumere e formare nuove competenze nella Pa, a cui anche Landini ha dato credibilità, ma che ha finalmente svelato in cosa consisterebbe il progetto di riforme: reclutamento di 24mila tra apprendisti, dirigenti, professionisti, esperti, assunti per merito e indirizzati su progetti specifici, con la possibilità per l’Amministrazione di rescindere il contratto anticipatamente se non fossero raggiunti gli obiettivi. Più che una riforma della Pa si tratta di una disarticolazione dell’impianto pubblico e la costituzione di una macchina perfettamente funzionale alle logiche del mercato e asservita agli interessi e alle esigenze delle aziende private utilizzate per progetti di ordine generale (di interesse pubblico e collettivo, ma di fatto piegati alle necessità del sistema economico-commerciale e finanziario della nuova borghesia globalizzata).
La PA diverrà dunque strategica per la nuova fase dell’accumulazione capitalistica, nei prossimi anni: il neo-keynesismo di Draghi, sostenuto dall’iperliberista pentito Brunetta, non ha infatti il segno del rilancio della centralità del ruolo pubblico, come riequilibrio del settore privato dedito prevalentemente alla caccia del profitto, ma quello “ancillare” (termine che mutuo da Raffaele Picarelli) per cui lo Stato è pienamente riconducibile alla definizione di Marx, strumento della classe dominante. Il compromesso della cosiddetta Prima Repubblica, che si era caratterizzato per l’espansione universale (a suon di lotte) dei servizi rivolti all’intera comunità e a vantaggio dei settori popolari, pur riconoscendo la dominanza della borghesia e fondandosi sul diritto borghese della proprietà privata, nel periodo che va dagli anni Ottanta fino al 2019 è saltato e l’orizzonte comune (bipartisan) è stato il neoliberismo.
La distinzione tra centrosinistra democratico, centrodestra liberale e destra xenofoba razzista sovranista e proto-fascista ha attraversato le componenti organiche del capitalismo in lotta tra loro, che socialmente sono rappresentate dal grande capitale multinazionale, delle grandi e medie aziende nazionali, dalle piccole e micro aziende artigianali e di servizi, in buona parte legate al sistema di appalti e subappalti. Il quadro unitario è dunque rappresentato dalla restaurazione della concorrenza selvaggia del libero mercato che produce continue crisi economico-commerciali, politico-sociali, belliche.
La prospettiva è dunque quella di un nuovo piano per la Pa, in cui la precarietà sarà estesa dal settore del lavoro privato a quello pubblico e diventerà il tratto distintivo anche del pubblico impiego con assunzioni a progetto (ben oltre il tempo determinato), con contratti e relazioni iper-precarie mutuate dal modello privato: la Pubblica Amministrazione, in questo modo, mobiliterà competenze ed energie formalmente pubbliche per la progettazione, pianificazione, esecuzione e realizzazione di progetti di modernizzazione delle infrastrutture materiali (strade, ponti, viadotti, ferrovie, gallerie …) e digitali (banda larga, fibra, potenziamento delle reti, 5G…), tutto condito dalla retorica della transizione ecologica, realizzando di volta in volta progetti che rispondano pienamente alle compatibilità delle dinamiche di mercato.
La predisposizione politica di Draghi e la volata alle destre
L’impostazione che Draghi ha impresso all’esecutivo è plasmata sulla sua personalità e la propria rilevanza internazionale: questo approccio è sostenuto da una visione ideologica profondamente liberista, forma pura ed estrema del capitalismo, che viene presentata come neutrale e naturale, obiettiva in quanto scientifica, funzionale ed efficiente in quanto tecnica. Draghi ha chiarito fin dall’inizio del suo mandato che avrebbe avuto due obiettivi, uno condizione per affrontare l’altro: la campagna vaccinale, fondamentale per poter riattivare le forze economiche in vista della attuazione dei progetti del Pnrr con i fondi europei del Recovery Fund. L’idea che Draghi rappresenti una figura a-politica, o addirittura al di sopra della politica, è ingenua e fuorviante: egli rappresenta invece integralmente il guardiano del capitalismo europeo nella fase di crisi acuta, sottoposto alle aggressioni della speculazione finanziaria, ma determinante nella composizione dell’imperialismo euro-atlantico in funzione di contenimento (o aggressione?) verso Cina e Russia.
Chiamato a salvare l’Italia, in realtà la funzione di Draghi è quella di restituire equilibrio alla fragile costruzione dell’UE, modernizzando il sistema italiano per epurarne le incrostazioni amministrative e burocratiche (in prospettiva, anche politico-istituzionali e costituzionali) che ancora impediscono il pieno smantellamento dei diritti collettivi delle classi lavoratrici e popolari, conquistati con le lotte negli anni ’60 e ’70. In questo senso, possiamo riconoscere chiaramente come la predisposizione di Draghi sia esplicitamente orientata a destra: il liberismo che esprime non è però improntato a forme rigide, ma è “pragmaticamente” aperto a “riforme” che consentano di salva(guarda)re il modello capitalistico adottando la forma neo-keynesiana, con interventi dello Stato a sostegno del reddito individuale/familiare (“debito buono”) nei periodi di ristrutturazione e di passaggio da un impiego all’altro (utilizzando a piene mani la “distruzione creatrice” dei licenziamenti).
L’ideologia che sostiene Draghi, checché lo si voglia nascondere dietro la mistificazione a-politica della “neutralità” tecnica, è pienamente liberal/liberista, cioè un ideologia pienamente “di destra”, abbracciata in forme diversificate dalle forze parlamentari di destra e centrodestra, così come dal Partito Democratico, cardine del centrosinistra. Non solo: Draghi è l’esponente di punta della tecnocrazia europea espresso dalla borghesia italiana, piace ai dem come ai forzitalici (non dimentichiamo che Draghi fu nominato Direttore di Bankitalia nel 2005, durante il secondo governo Berlusconi), ha una prospettiva internazionale, ma guarda benevolmente alla difesa degli interessi della borghesia nazionale (basta che stiano nel quadro dell’Ue). Non è quindi molto lontano dal vero affermare che, al di là dell’immagine di distacco rispetto alla politica, Draghi ha di fatto creato le condizioni per una “volata” alle destre in vista della partita del Quirinale da dove, come Presidente della Repubblica, assumerebbe il ruolo di traghettatore di fatto verso una riforma semi-presidenziale. In parole povere, Draghi rappresenta il perfetto esecutore di un piano per restringere ulteriormente il potere legislativo e sottrarre definitivamente al Parlamento (più che ai partiti) la centralità che la carta costituzionale gli conferisce; per rafforzare non solo il potere esecutivo del governo, ma una élite sottratta alla dialettica politica del consenso.
L’elmetto in testa: l’euroatlantismo è Nato
La dimensione internazionale di Draghi si va via via dispiegando: la sua “credibilità” sul piano europeo e atlantico si va esplicitando in queste settimane, tanto rispetto alle relazioni interne alla Ue quanto alla collocazione geopolitica (e geomilitare). L’europeismo e l’atlantismo sono stati alla base del discorso di insediamento del suo esecutivo e, nonostante le micro-tensioni che si esercitano tra componenti politiche costrette nella formula dell’unità nazionale, forniscono il quadro strategico di riferimento per consentire alla borghesia nostrana (sia nazionalista, sia europeista) di esercitare la propria egemonia mediante una torsione tecnocratica della politica.
Il dispiegamento dei contrasti internazionali si va facendo vieppiù definito in due campi che, pur non omogenei, si presentano come nettamente contrapposti: da una parte l’imperialismo euro-atlantico, di cui l’UE è una componente subalterna, ma organica, rispetto agli Usa; dall’altra l’area delle potenze economico-commerciali e militari in crescita, su cui svetta la Cina, che non ha una potenza leader di riferimento, ma che opera per costituire un campo di interessi convergenti o quantomeno alternativi all'attività predatoria “occidentalista”. Gli strumenti del primo campo sono variegati, sul piano economico-finanziario, commerciale, politico-militare: la Bcm, il Fmi, il Wto, ma soprattutto la Nato; quest’ultima in particolare si è presentata con la “nuova” mission in funzione anti-russa e anti-cinese. Draghi è pienamente in linea con tale approccio, rappresenta una garanzia per l’Ue, per il campo euroatlantista e occidentalista, rispetto alle pur timide e contenute aperture del duetto Conte-Di Maio al BRI (Belt & Road Iniziative, la cosiddetta Nuova Via della Seta). Nonostante la continuità del dicastero degli Esteri, la svolta politico-diplomatica è chiarissima: niente più svirgolate, o autonomia nel rapporto diplomatico o commerciale con il campo “orientalista” avversario. Insomma, un’Unione Europea presidio dell’atlantismo, baluardo del dispiegamento “democratico” verso l’Oriente, fortino assediato dalle orde migratorie da difendere anche con accordi col “diavolo” Erdogan, come dimostra l’incontro bilaterale con Angela Merkel che incunea l’Italia come terzo polo tra l’asse franco-tedesco, nella prospettiva della Next Generation Eu.
La garanzia che Draghi offre è quella di un addomesticamento delle componenti politiche sovraniste e populiste, ricondotte a un quadro istituzionale consolidato, promettendo una rimodulazione delle regole internazionali che governano l’Ue (il rapporto debito/Pil, le politiche di austerità), nuovi scenari di omogeneità fiscale e amministrativa (eliminazione del dumping fiscale, ma anche semplificazione burocratica per appalti e riduzione del peso fiscale sulle imprese) e al tempo stesso una ridefinizione del Welfare State in chiave di reddito sociale e strumenti di sostegno che accompagnino la flessibilità lavorativa (la strategia della flexurity).