Gramsci non solo ritiene che i sindacati in generale non siano, nel modo di produzione capitalistico, uno strumento rivoluzionario, ma li considera tendenzialmente come un ostacolo alla realizzazione della transizione al socialismo. Tale tesi è suffragata dalla realtà storica dei primi due grandi tentativi di intraprendere la transizione al socialismo che si stavano sviluppando sotto gli occhi del giovane Gramsci, impegnato a tradurre nel contesto italiano il marxismo rivoluzionario di Lenin. Se già in Russia la transizione al socialismo per potersi affermare aveva dovuto vincere non solo la resistenza della borghesia, ma degli stessi sindacati, in Ungheria il processo rivoluzionario fu presto soffocato anche per la strenua opposizione incontrata da parte del sindacato. Gramsci ne conclude che, sebbene i sindacati non assunsero mai una posizione apertamente controrivoluzionaria, la svolsero nei fatti in modo più o meno consapevole, operando “sempre come organismi ‘disfattisti’ della Rivoluzione” tanto che “seminarono lo sconforto e la vigliaccheria tra gli operai e i soldati rossi” (32) [1]. Il sindacato, in effetti, nasce essenzialmente per vendere al prezzo più alto del suo valore di scambio la merce forza-lavoro e per porre dei limiti al suo libero consumo da parte del capitalista che la acquista. È, dunque, evidente che i sindacalisti tendano spontaneamente a considerare la transizione al socialismo, che si realizza impedendo la stessa alienazione della forza-lavoro (la sua riduzione a merce) come un processo che tende a limitare la loro funzione sociale.
Ciò non significa che Gramsci consideri, come gli estremisti di sinistra, il sindacato in quanto tale un nemico della transizione al socialismo. Al contrario il sindacato nel processo rivoluzionario dovrebbe svolgere una funzione essenziale, anzi è proprio su di esso che, secondo Gramsci, “deve fondarsi la socializzazione dell’industria, perché esso deve creare le condizioni in cui l’impresa privata sparisce e non può più rinascere” (32). Proprio perciò è non solo essenziale che i comunisti operino all’interno dei sindacati già prima della transizione al socialismo, ma che svolgano al loro interno una funzione rivoluzionaria, di contro alle burocrazie sindacali riformiste e revisioniste, per creare quelle “condizioni psicologiche e obiettive” che renderanno “impossibile ogni conflitto e ogni dualismo di potere tra i vari organismi in cui si incarna la lotta della classe operaia contro il capitalismo”, ossia il partito rivoluzionario e le strutture consiliari.
Del resto la lotta di classe, che sempre necessariamente caratterizza le società divise in classi sociali, assume dei connotati rivoluzionari solo quando i comunisti riescono a divenire egemoni, all’interno del blocco sociale dei subalterni, indirizzando il conflitto sociale “alla instaurazione della Dittatura proletaria” (Ibidem). Questa egemonia diviene effettiva nel momento in cui tale prospettiva si afferma nel blocco sociale subalterno di contro all’“ideologia democratica” (32), propria della piccola borghesia, che si illude che lo Stato nel modo di produzione capitalistico non sia uno strumento di dominio dell’alta borghesia quale classe dominante, ma sia una struttura in sé neutrale la cui direzione viene stabilita pacificamente su base elettorale. Al contrario ai giorni nostri i comunisti sono generalmente egemonizzati dalla piccola borghesia, all’interno del blocco sociale subalterno, proprio in quanto non sono in grado di distinguere la propria prospettiva da quella della “ideologia democratica”. In tal modo la lotta di classe dei dominati non è mai finalizzata a rovesciare la dittatura dell’alta borghesia per sostituirvi quella delle classi subalterne, ma esclusivamente, nel migliore dei casi, a vendere a un prezzo più alto la pelle, ossia la forza-lavoro ai suoi sfruttatori.
Anche ai tempi di Gramsci se i partiti socialisti, come quello italiano, si richiamavano almeno a parole ai principi rivoluzionari dell’Internazionale comunista, i sindacati anche allora erano “rimasti fedeli alla ‘vera democrazia’” e, perciò, non trascuravano “nessuna occasione per indurre o per costringere gli operai a dichiararsi avversari della Dittatura e a non attuare manifestazioni di solidarietà con la Russia dei soviet” (33). In effetti, i sindacalisti che non si sono liberati dalle illusioni dell’“ideologia democratica” tendono a considerare le istituzioni dello Stato come degli arbitri imparziali del conflitto sociale e non per quello che sono realmente, in una prospettiva materialista e non idealista, ovvero strumenti del dominio, della dittatura di un blocco sociale nei confronti delle classi subalterne.
Tale subalternità del proletariato alla piccola borghesia, dei rivoluzionari e dei comunisti ai democratici, ai riformisti e ai tradeunionisti, ha segnato la sconfitta del progetto bolscevico di rompere la catena dei paesi imperialisti nel suo anello più debole, la Russia, per favorire la rottura degli anelli più forti, ossia dei paesi più sviluppati dove vi erano le condizioni strutturali per portare a termine la transizione al socialismo. Il rimanere prigionieri da parte dei sindacati dell’ideologia democratica ha, infatti, “eroso la base del potere proletario in Ungheria”, portando i lavoratori privi di coscienza di classe a opporsi alla dittatura del proletariato, “ha determinato in Germania immani carneficine di operai comunisti e la nascita del fenomeno Noske”, ossia di quei socialdemocratici che, in nome dell’illusione democratica, utilizzano le strutture dello Stato per reprimere le forze rivoluzionarie. Tali illusioni hanno “determinato in Francia il fallimento dello sciopero generale […] e il consolidamento del regime di Clemenceau”, non consentendo di superare in senso politico le rivendicazioni economiciste alla base dello sciopero, impedendogli di divenire insurrezionale, in quanto avente di mira la conquista del potere.
Allo stesso modo, osserva ancora Gramsci, il prevalere dell’ideologia democratica nei sindacati inglesi non gli ha consentito di superare la loro natura tradeunionista, impedendo “ogni intervento diretto degli operai inglesi nella lotta politica e minaccia di scindere profondamente e pericolosamente le forze proletarie in tutti i paesi” (33). Al contrario, in Russia, il processo rivoluzionario ha avuto successo perché “questo atteggiamento dei sindacati fu rapidamente superato” in quanto “allo sviluppo delle organizzazioni di mestiere e d’industria si accompagnò parallelamente e con ritmo più accelerato lo sviluppo dei Consigli d’officina” (33). Proprio perciò è essenziale che i comunisti non si limitino a contrastare le burocrazie tradeunioniste e revisioniste nei sindacati, mediante cui l’ideologia democratica diviene dominante anche nella classe operaia, ma devono operare in funzione dello sviluppo delle strutture consiliari in grado di contrastare la deriva riformista del sindacalismo.
In effetti, come osserva acutamente Gramsci, “i Sindacati tendono a incarnare la teoria (!) e la tattica dell’opportunismo riformista e a diventare organismi meramente nazionali” anche in quella favorevole congiuntura storica che si era venuta a creare a causa dei disastri prodotti dalla guerra imperialista e alla spinta propulsiva della Rivoluzione socialista, che portava i partiti socialisti ad assumere “un profilo nettamente rivoluzionario e internazionalista” (Ibidem). Drammatica è l’attuale situazione, in cui persino alcuni dei più insigni teorici marxisti rivendicano un socialismo nazionale, considerando puramente utopistiche le istanze internazionaliste, mentre altri tendono a confondere il cosmopolitismo illuminista e grande borghese con l’internazionalismo proletario andando, in entrambi i casi, in modo più o meno consapevole a rimorchio del proprio imperialismo, nazionale nel primo caso, continentale nel secondo. Tale “ideologia democratica”, che porta i sindacati a divenire “organismo meramente nazionale”, sino a incarnare “la tattica dell’opportunismo riformista” – ad eccezione che in Russia dove avevano superato la prospettiva tradeunionista grazie allo sviluppo di strutture consiliari come i soviet – provocava già allora “uno stato di cose insostenibile, una condizione di confusione permanente e di debolezza cronica per la classe lavoratrice, che aumentano lo squilibrio generale della società e favoriscono il pullulare di fermenti di disgregazione morale e di imbarbarimento” (33).
Per quanto riguarda invece la direzione neocorporativa che stanno assumendo, in praticamente tutti i paesi a capitalismo avanzato, i sindacati maggiormente rappresentativi, si tenga conto di quanto osserva lo stesso Gramsci – che pur non si esime dal denunciarne tutti i limiti – a proposito della loro funzione originaria: “i sindacati hanno organizzato gli operai secondo i principi della lotta di classe e sono stati essi stessi le prime forme organiche di questa lotta” (33). Anzi, come si può vedere, dal proseguimento del ragionamento di Gramsci, le attuali burocrazie sindacali, alla guida dei sindacati maggiormente rappresentativi, nella loro deriva oggettivamente neocorporativa hanno completamente rovesciato quella che era stata la loro stessa ragione d’essere: “gli organizzatori [dei sindacati] hanno sempre detto che solo la lotta di classe può condurre il proletariato alla sua emancipazione e che l’organizzazione sindacale ha precisamente il fine di sopprimere i profitto individuale e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, poiché essa si propone di eliminare il capitalista (il proprietario privato) dal processo industriale di produzione e di eliminare quindi le classi” (33-34).
Resta, tuttavia, in conclusione da comprendere come sia stato possibile arrivare oggi a questa compiuta eterogenesi dei fini, almeno dei sindacati maggiormente rappresentativi. Anche in tal caso, la riflessione di Gramsci ci appare illuminante. Abbiamo visto i sindacati sorgere con il preciso intento di superare la società divisa in classi, in cui i gruppi sociali dominanti sfruttano per il loro “profitto individuale” la forza-lavoro dei subalterni. Tuttavia, come osserva Gramsci, i sindacati non potendo “attuare immediatamente questo” alto fine hanno rivolto “tutta la loro forza al fine immediato di migliorare le condizioni di vita del proletariato, domandando più alti salari, diminuiti orari di lavoro, un corpo di legislazione sociale” (34). In tal modo hanno ottenuto con le lotte e la mobilitazione delle condizioni di vita migliori per i lavoratori, “ma tutti i risultati, tutte le vittorie dell’azione sindacale si fondano sulle basi antiche: il principio della proprietà privata resta intatto e forte, l’ordine della produzione capitalista e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo restano intatti e si complicano in forme nuove” (34). Senza contare che, come osservava già Marx, nel momento in cui i lavoratori di un determinato posto di lavoro otterranno delle condizioni migliori, tali da mettere in discussione il grado di sfruttamento necessario ai capitalisti per conseguire i loro profitti, i capitalisti si vedranno costretti – dal meccanismo stesso della concorrenza – a investire altrove il loro capitale, costringendo i lavoratori a battersi per far riprendere, il prima possibile, lo sfruttamento della loro capacità di lavoro, dato che la sua alienazione nella società capitalista resta l’unico strumento necessario per la riproduzione del proletariato come classe.
Nota
[1] Le citazioni di questo scritto sono tratte da “I Sindacati e la Dittatura”, articolo di Gramsci pubblicato il 25 ottobre 1919 su “l’Ordine Nuovo”, ora anche in Bordiga-Gramsci, Dibattito sui consigli di fabbrica, Samonà e Savelli, Roma 1971. Nel testo, fra parentesi tonde, indicheremo la pagina di quest’ultima pubblicazione corrispondente ai brani dell’articolo citato.