La critica di Gramsci – che si sviluppa a livello teorico a partire dal sorgere anche in Italia delle prime strutture consiliari – si appunta, in modo apparentemente paradossale, sui sindacati pseudo-rivoluzionari piuttosto che sullo stesso sindacato riformista. “La pratica italiana del sindacalismo pseudo-rivoluzionario è negata – osserva a tal proposito Gramsci – dal movimento torinese dei Commissari di reparto, così come la pratica del sindacalismo riformista, è negata in doppio grado, poiché il sindacalismo riformista rappresenta il superamento del sindacalismo pseudo-rivoluzionario” [1]. Ciò è dovuto al fatto che il sindacato, in quanto tale, ha una funzione essenzialmente riformista, tutta interna alla logica del modo di produzione capitalistico: “se il Sindacato può solo dare agli operai ‘pane e burro’”, osserva a questo proposito Gramsci, “se il Sindacato può solo, in regime borghese, assicurare uno stabile mercato dei salari, può eliminare alcune delle alee [segnali errati di durata transitoria che possono influire negativamente nel normale funzionamento di un circuito, ndr] più pericolose per l’integrità fisica e morale dell’operaio – è evidente che la pratica riformista meglio di quella pseudo-rivoluzionaria ha ottenuto questi risultati” (45). Volendo aggiornare, rispetto al quadro attuale, questa analisi gramsciane si potrebbe aggiungere che oggi il sindacato riformista – nato all’inizio dello scorso secolo in seguito al fallimento dell’illusione del sindacalismo rivoluzionario che lo sciopero generale avrebbe costituito il principio della rivoluzione – sempre più condizionato dall’unità di azione con i vertici dei sindacati gialli, sorti nel secondo dopoguerra per volontà dei poteri forti per dividere e così indebolire il potere contrattuale dei lavoratori, da diversi anni a questa parte tende ad assumere connotati neocorporativi.
Tornando al ragionamento di Gramsci, i sindacati pseudo-rivoluzionari hanno una natura essenzialmente populista, in quanto tendono a generare nel proletariato delle illusioni che la loro stessa natura non è in grado di realizzare e questo, tornando all’oggi, potrebbe spiegare il motivo per cui questi sindacati oggi tendono generalmente a flirtare con gli attuali demagoghi del M5s. Infatti, per dirla con Gramsci, “se a uno strumento si domanda più di quanto può dare, se si fa credere che uno strumento possa dare più di quanto la sua natura consente, si commettono solo spropositi, si esplica un’azione puramente demagogica” (45). In tal modo i sindacati pseudo-rivoluzionari sono portati, involontariamente, a tradire la funzione essenziale del sindacato, ovvero organizzare il maggior numero possibile di lavoratori, mirando piuttosto a tesserare la minoranza dei lavoratori dotati di coscienza di classe, lasciando la massa dei proletari nelle mani dei burocrati dei sindacati neocorporativi. In tal modo fanno di necessità virtù, ossia non essendo in quanto tali in grado di creare un fronte unico della massa degli sfruttati – capace di imporre, con le lotte, condizioni migliori per chi è costretto a vendere come merce la propria capacità di lavoro per potersi riprodurre come lavoratore salariato – si illudono che il loro scopo sia di tesserare i pochi proletari dotati di un barlume di coscienza di classe.
Come osserva a tal proposito Gramsci: “i sindacalisti pseudo-rivoluzionari d’Italia sono condotti spesso a discutere se non convenga fare del Sindacato (per esempio, del Sindacato ferroviario) un cerchio chiuso, comprendente solo i ‘rivoluzionari’, la minoranza audace che trascini le masse fredde e indifferenti; essi sono condotti a rinnegare il principio elementare del sindacalismo, l’organizzazione di tutta la massa. Perché intimamente e inconsapevolmente intuiscono l’inanità della ‘loro’ propaganda, l’incapacità del Sindacato a dare una forma concretamente rivoluzionaria alla coscienza dell’operaio” (45).
Ciò dipende dal fatto che i dirigenti del sindacalismo rivoluzionario hanno una scarsa consapevolezza del reale significato della rivoluzione socialista, non hanno sviluppato una reale coscienza di classe e perciò non sono in grado di svolgere adeguatamente il ruolo che si sono ripromessi, ossia non sono in grado di formare i lavoratori ancora privi di una salda consapevolezza di classe, che tendono piuttosto a inebriare con i loro focosi discorsi, necessari a celare il loro inconsistente populismo. Per dirla ancora con Gramsci: “non si sono mai prospettati con chiarezza e precisione il problema della rivoluzione proletaria, perché essi, seguaci della teoria dei ‘produttori’ non hanno mai avuto coscienza di produttori; essi sono dei demagoghi, non dei rivoluzionari, degli agitatori di… sangue messo in tumulto dal fuoco fatuo dei discorsi, non degli educatori, non dei formatori di coscienze” (46). Tanto più che diversi “sindacalisti rivoluzionari” del tempo erano diventati fra i più accesi e violenti sostenitori dell’interventismo dell’Italia in quell’orribile macello che fu la Prima guerra mondiale scatenata dalle potenze imperialiste e in quello stesso anno, in cui si affermava il movimento dei Consigli, erano intenti a fondare i Fasci di combattimento.
Proprio perciò il movimento dei Consigli non può avere come scopo, come ritenevano erroneamente alcuni già ai tempi di Gramsci, di sostituire un dirigente in buona fede del “sindacalismo rivoluzionario” ai dirigenti del sindacato riformista, anche perché tale movimento è necessariamente scevro dal personalismo. Dunque, si domanda retoricamente Gramsci: “il movimento dei Commissari sarebbe nato e si svilupperebbe solo per sostituire Borghi [un anarchico che era stato l’unico dirigente del sindacalismo rivoluzionario a rimanere su posizioni neutraliste e in seguito conseguentemente antifasciste, ndr] a Buozzi o a D’Aragona?” (46), dirigenti dell’allora sindacato riformista Cgl. “Il movimento dei Commissari”, da cui sarebbe sorto il movimento dei Consigli, prosegue Gramsci, “è la negazione di ogni forma di individualismo e personalismo“ così fastidiosamente diffusi ancora oggi nel sindacalismo pseudo-rivoluzionario.
Al contrario il movimento dei consigli inaugura un nuovo corso attraverso il quale i lavoratori diverranno in grado di sviluppare una reale coscienza di classe – del loro ruolo essenziale di unici produttori del plusvalore e, quindi, di unici protagonisti del possibile sviluppo economico – e si doteranno da soli di un’organizzazione che, al di là dei naturali possibili errori dei singoli, punterà al superamento del capitalismo in una società socialista. Dunque, secondo Gramsci, il movimento dei consigli “è l’inizio di un grande processo storico, nel quale la massa lavoratrice acquista coscienza della sua inscindibile unità basata sulla produzione, basata sull’atto concreto del lavoro, e dà una forma organica a questa sua coscienza, costruendosi una gerarchia, esprimendo questa gerarchia dalla sua intimità più profonda, perché essa sia se stessa come volontà consapevole di un preciso fine da raggiungere – di un grande processo storico che irresistibilmente, nonostante gli errori che individui possono commettere, nonostante le crisi che le condizioni nazionali e internazionali possono determinare, irresistibilmente culminerà nella dittatura proletaria, nell’Internazionale comunista” (46).
Al contrario la forma organizzativa del sindacato si sviluppa, inconsapevolmente, non su questa coscienza di classe, né tantomeno sugli obiettivi rivoluzionari cui essa deve condurre, ma piuttosto tende, sempre in modo inconsapevole, a modellarsi sulla base del lavoro salariato imposto dal modo di produzione capitalistico, in cui appare naturale intessere le lotte e la concertazione con la contro-parte sulla “libera” alienazione della forza-lavoro del proletario come merce. Proprio perciò, le sue promesse di battersi contro lo sfruttamento o addirittura per la rivoluzione sono puramente illusorie e tendono, quindi, ad assumere, nei fatti, un’attitudine populista. In effetti, come sottolinea Gramsci questa teoria “non ha mai espresso una concezione del produttore” simile a quella delle strutture consiliari, né tanto meno un’analoga concezione “del processo di sviluppo storico della società dei produttori”. Al contrario “ha teorizzato una particolare forma dell’organizzazione, il sindacato di mestiere e di industria, e ha costruito, sì, su una realtà, ma su una realtà che aveva una forma impressa dal regime capitalistico di libera concorrenza della proprietà privata della forza-lavoro: ha costruito quindi solo un’utopia, un gran castello di astrazioni” (46).
Tanto più che la concezione dei consigli non si fonda su di una esperienza storica sindacale, ma nasce dai soviet teorizzati dalle forze comuniste impegnate nel processo rivoluzionario russo prima nel 1905 e poi nel 1917. È, inoltre, ben più concreta – in quanto fondata sull’organizzazione tendenzialmente di tutti i lavoratori di un determinato luogo di lavoro – delle astratte concezioni emancipatrici dei sindacati, per cui sarebbe possibile una reale fine dello sfruttamento e un giusto salario all’interno della società capitalista, che si fonda proprio sullo sfruttamento e sulla riduzione al minimo salariale, necessario alla riproduzione dei subalterni che finiscono per avere, in realtà, come principale obiettivo quello di trovare qualcuno disponibile a sfruttarli. Far intendere che sia possibile, all’interno del modo di produzione capitalistico, la “dignità del lavoro”, ossia una forza-lavoro ridotta a merce venduta generalmente al minimo del suo valore, o la “piena occupazione” non è altro che una forma di demagogia, che non favorisce affatto la formazione fra i lavoratori di una reale coscienza di classe. Perciò, come osserva Gramsci: “la concezione del sistema dei Consigli, fondato sulla potenza della massa lavoratrice organizzata per sede di lavoro, per unità di produzione, trae la sua origini dalle esperienze storiche concrete del proletariato russo, è il risultato dello sforzo teorico dei compagni comunisti russi, non sindacalisti, ma socialisti rivoluzionari” (46-47).
Nota
[1] Le citazioni di questo scritto sono tratte da “Sindacalismo e Consigli”, articolo di Gramsci pubblicato nel 1919 su “l’Ordine Nuovo”, ora anche in Bordiga-Gramsci, Dibattito sui consigli di fabbrica, Samonà e Savelli, Roma 1971. Nel testo, fra parentesi tonde, indicheremo la pagina di quest’ultima pubblicazione corrispondente ai brani dell’articolo citato.