Commentare a caldo, dal vivo e sul posto l’esito di una storica elezione, quella che ha incoronato Donald Trump 45° Presidente degli Stati Uniti d’America, è una forte emozione ma anche un privilegio: c’è ancora il tempo di rimanere mentalmente leggeri prima di essere sommersi dal diluvio di analisi, di commenti, di dichiarazioni, di retorica e di propaganda varia e assortita che ci verrà propinato nei prossimi giorni e settimane da parte della grande macchina mediatica americana e mondiale, e senza la quale queste elezioni non si sarebbero forse neanche svolte nel modo in cui sono state realmente vissute.
Da comunisti e marxisti abbiamo il dovere di non farci trascinare nel turbinio del mainstream mediatico ma dobbiamo invece sforzarci di individuare alcuni dati reali fondamentali per poi inquadrarli nella loro corretta cornice strutturale e sovrastrutturale.
Partendo dal dato reale, più immediato, che ci offre lo scrutinio elettorale, sappiamo con certezza che la vittoria di Trump si è decisa in alcune aree e territori con tratti sociali e politici che li accomunano: Pennsylvania, Michigan, Wisconsin, Ohio, Iowa erano Stati che alle ultime elezioni avevano decretato la vittoria di Obama ed alcuni di questi sono sempre stati considerati tradizionali roccaforti del Partito Democratico. Ed il fattore che li rendeva roccaforti democratiche era soprattutto la presenza di una classe operaia in maggioranza bianca, abbastanza sindacalizzata ed occupata prevalentemente nell’industria manifatturiera più tradizionale.
Ebbene questo elettorato, come in parte si temeva e si era già visto nel corso delle primarie, ha fatto pendere l’ago della bilancia verso Donald Trump. Sulle motivazioni di questa scelta si spenderanno fiumi di parole e si consumeranno ettolitri di inchiostro, reale o in bytes. Non entriamo nella facile spiegazione retorica che vuole liquidare il tutto come effetto di una protesta populista e anti-sistema. Sappiamo che questo è vero ma non ci basta.
Vogliamo invece stimolare alcuni punti di riflessione più profonda, più politica, più scientifica, se ci si permette. Una prima riflessione che viene in mente è che le classi lavoratrici, negli USA come altrove in Occidente – in un contesto storico sempre più deteriorato da un capitalismo transnazionale caratterizzato da una delle sue fasi più “rapaci” sul piano sociale – non sono più nelle condizioni, soggettive e oggettive, di individuare una propria sponda politica e quindi di identificarsi nei partiti e negli apparati che un tempo rappresentavano il loro punto di riferimento e che avevano fondato la loro forza politica su una piattaforma socialdemocratica, o meglio, nel caso del partito democratico degli USA, centrista e interclassista.
Siamo di fronte all’ennesima conferma che tutto il fronte della sinistra e del centro-sinistra borghesi dei paesi occidentali ed economicamente più avanzati è di fronte ad una disfatta storica irrecuperabile. Ciò avviene oggi anche nel cuore dell’imperialismo mondiale, dove peraltro un welfare state non è neanche mai esistito per come lo conosciamo in Europa occidentale, ma dove, fino ad alcuni anni fa, settori maggioritari della classe operaia si sentivano comunque garantiti da sindacati (sul modello trade unions anglosassone) e dallo stesso partito democratico, ed in passato erano riusciti a beneficiare di politiche redistributive e ad ottenere alcune garanzie che le riparavano dall’avido sfruttamento del capitale nazionale e multinazionale.
Oggi, invece, operai, lavoratori ma anche diversi settori della classe media assistono impotenti al continuo arricchimento delle elites legate al grande capitale finanziario e industriale transnazionale e, contemporaneamente, vedono erodersi alcuni piccoli elementi di benessere che il sistema americano riusciva comunque a garantirgli. Insomma, i lavoratori americani cominciano a percepire chiaramente gli effetti di un inasprito conflitto di classe che, a livello fenomenico e sovrastrutturale, in questo paese non era così evidente e diffuso forse da un secolo a questa parte. E a tutto questo non trovano risposte politiche.
Una volta ancora, almeno nel corso della storia mondiale degli ultimi due secoli di capitalismo, si ripete una lezione inesorabile: nelle fasi di crisi ed in assenza di un movimento politico rivoluzionario, o quando meno antagonista, socialmente radicato, le classi lavoratrici, il proletariato, abbracciano il populismo di destra come unica disperata e tragica alternativa.
Il ruolo dei media, nuovi e tradizionali provvede, sempre a livello sovrastrutturale, a dare una risposta, fallace e immediata: il populismo. Ciò è paradossalmente accaduto anche in queste elezioni presidenziali, nelle quali era chiaro che i media mainstream fossero quasi tutti schierati compattamente e apertamente per Hillary Clinton. Ma la contraddizione sta proprio in questo: un “animale politico”, un po’ fuori dai circuiti dell’establishment ufficiale, come Donald Trump, è riuscito abilmente a cogliere questo potenziale, proprio grazie alla sua forza economica tutta riversata sul fronte della comunicazione. Aver spostato il cuore della campagna elettorale sul terreno mediatico e della personalizzazione estrema, ancora di più di quanto tradizionalmente la politica statunitense non sia abituata a fare, ha favorito chi, su questo terreno, aveva più frecce al proprio arco.
Ma ridurre tutto al fattore mediatico, quindi sovrastrutturale, che certamente ha avuto la sua influenza, sarebbe deviare dall’obiettivo di un’analisi più profonda e sui dati strutturali.
L’establishment, politico, economico, finanziario e intellettuale si è arroccato a difesa dello status quo e ne ha trovato la migliore espressione proprio nel partito che invece sarebbe teoricamente orientato a rappresentare altri interessi di classe, ma storicamente lo ha fatto solo in parte. Quel partito, analogamente a quanto sta facendo il “partito della nazione” dalle nostre parti, ha pensato di poter facilmente approfittare della crisi interna all’establishment repubblicano, con l’operazione Hillary, dopo quella Obama che fino a quattro anni fa era riuscita.
Ed ha anche pensato di poter giocare a proprio vantaggio il fattore demografico. Queste elezioni infatti fotografavano il volto di un’America che cambia e che non è più quella degli stereotipi che si sono trascinati fino ad oggi: un elettorato bianco ridotto dall’86% degli anni ’80 al 70% di questi ultimi anni, la crescita della componente ispanica e latino-americana e, in misura minore, di quella asiatica, entrambe alimentate dai flussi migratori degli ultimi decenni, la generazione dei millenials portatori sani di una nuova era dominata dalla comunicazione digitale, il declino relativo del peso degli afro-americani.
Si è pensato che il fatto che Trump alimentasse il fattore razziale potesse beneficiare direttamente Hillary e i democratici. Così invece non è stato. Sarà interessante analizzare meglio i dati elettorali su questo aspetto. Ma di certo, da una prospettiva di sinistra di classe, non possiamo non constatare che l’operazione di dividere il fronte dei lavoratori sulle linee della discriminazione razziale è un’operazione che tradizionalmente riesce meglio alle destre nazionaliste e populiste. Soprattutto in tempi in cui lavoratori e classi medie bianchi, particolarmente nelle aree interne e meno urbanizzate, sentono sulle loro vite tutto il peso della crisi e del deterioramento del quadro sociale ed economico.
Abbiamo più volte ribadito su queste pagine la nostra sensazione, ma solo di quello si tratta, che il movimento iniziato da Bernie Sanders avrebbe avuto il potenziale di ricompattare settori delle classi operaie e delle classi medie, soprattutto tra le nuove generazioni, sia pur su posizioni tiepidamente socialiste o, per meglio dire, socialdemocratiche. Ed è un po’ quello che sta tentando di fare anche Corbyn in Gran Bretagna. Sarà quella la strada per il rilancio di una prospettiva classista a sinistra? È troppo presto per dirlo. E negli USA non è chiaro se rimarrà qualcosa del movimento di Sanders, che sembra essere stato annientato da questa effimera campagna elettorale.
Ci sarà poi da vedere quali scenari politici si apriranno con la vittoria di Trump, sia sul fronte della politica interna ma anche e soprattutto su quello della politica internazionale. Inutile fare facili previsioni. Sicuramente c’è la consapevolezza che stiamo attraversando un momento storico di transizione caratterizzato da un capitalismo globale sempre più intrappolato nelle sue contraddizioni economiche, sociali e politiche.