Il punto di vista di un italiano emigrato sulle ultime elezioni dipartimentali in Francia e sull’avanzata e il ruolo delle nuove destre. La conferma della superficialità con cui da sinistra si è decretato la fine della forma partito e il superamento di una visione di classe.
di Alberto Fabris
Facendo riferimento alla recente tornata elettorale in Francia del 22 e 29 marzo scorso – in occasione delle départementales – si possono elaborare alcune considerazioni sulla situazione politica francese e, per quanto è possibile, europea. A secondo turno concluso, l’UMP (Union pour un Mouvement Populaire), alleato coi centristi dell’UDI (Union des Démocrates et Indépendants) conquista 67 dipartimenti mentre i Socialisti dimezzano il numero di unità territoriali amministrate scendendo a 34. Il Parti Communiste Français perde l’Allier, che passa a destra, riuscendo a conservare la sola Val de Marne, mentre il Front National, pur non conquistando nessun dipartimento, manifesta un ormai consolidato radicamento territoriale ed elettorale che lo porta ad ottenere il maggior numero di voti della sua storia.
Emblematica la reazione post-elettorale di Manuel Valls, appartenente all’ala destra del PS e primo ministro dal 31 marzo 2014. In seguito alla crescente perdita di consensi dei socialisti, sanzionata dalle elezioni europee 2014 che videro il partito di governo scendere al 14% ed ora dalla pesante sconfitta alle départementales, il primo ministro scongiura la debacle evitata difendendo la tattica elettorale del suo partito nonché la sua politica economica. Se in effetti i richiami fortemente emotivi a far blocco contro l’estrema destra possono aver strappato qualche consenso al PS, è innegabile che il voto condanna senza mezzi termini le politiche euro-liberiste di Hollande.
Senza voler compiere quelle distorsioni prospettiche che un’eccessiva generalizzazione inevitabilmente comporta, il caso francese sembra confermare quelle tendenze che trovano un corrispettivo in molte altre situazioni europee.
Il partito socialista, analogamente alla maggioranza delle socialdemocrazie del continente, si è ormai assimilato al piano concettuale liberal ed ai valori economici e politici del liberismo, sostanzialmente affini a quelli dei conservatori. Il fatto di predicare le stesse politiche degli avversari, leggermente addolcite e riformulate (e nemmeno sempre), comporta delle pesanti conseguenze. La prima è che, avendo rinunciato a qualsiasi proposta politica sostenuta da una visione del mondo scientifica e praticata attraverso un progetto di ampio respiro, il partito socialista è totalmente supino alle fluttuazioni del mercato ed alle pratiche di governo dei conservatori, limitandosi ad emendamenti superficiali. Di fronte all’attuazione di politiche economicamente infondate e distruttive quali sono quelle messe in atto dai democristiani tedeschi e dall’apparato economico e governativo della UE, i socialisti sussurrano timidamente «giusto il rigore, ma vi sia anche crescita».
Messa da parte la specificità di un partito che era nato dalle lotte e dalle aspirazioni delle classi subalterne ed accantonata qualsiasi politica sociale, i socialisti non rappresentano più da anni quanti costituivano di norma il loro bacino elettorale e danno l’impressione, totalmente suffragata dai fatti, di immobilismo e totale apatia. Accettando la teoria secondo cui dalle crisi si entra e si esce come dalle perturbazioni atmosferiche (ricordiamo gli apotropaici «stiamo uscendo dalla crisi») da cui è assente non solo ogni timido riferimento alle classi sociali, ma anche un progetto politico forte su scala decennale, i socialisti si sono posti su un terreno in cui non hanno alcuna possibilità d’azione. Nei fatti il PS francese, con la sua totale subalternità ai diktat liberisti, alle continue picconate di politicanti come Wolfgang Schäuble e la con sua sfacciata ammirazione per il «modello tedesco», dà costantemente l’idea di essere una CDU mancata. Questa debolezza strutturale, unita al progressivo slittamento a destra del partito attestato dalla nomina di Valls a primo ministro, può spiegare il sorpasso elettorale, ovviamente a destra, da parte della coalizione UMP-UDI.
All’attuale situazione economica che anche in Francia sta avendo conseguenze pesantissime (disoccupazione al 10,6%), si risponde attuando politiche che configurano la società ed il lavoro in modo sempre più sfavorevole per le classi subalterne (in cui si stenta a riconoscere quel ceto medio che era uscito dal ‘900) e sempre più asservito al grande capitale.
Oltre che frutto di una situazione economica non certo favorevole, il terreno su cui si consuma il naufragio della socialdemocrazia è anche politico-culturale. Dopo trent’anni di controrivoluzione culturale liberista e dopo aver subito dieci anni di austerity, che ha impoverito (anche spiritualmente) le classi medie ed ha condotto in taluni Paesi ad una atroce emergenza umanitaria, la società appare completamente trasformata. In Francia, paese che gode di uno stato sociale tra i più sviluppati d’Europa e che consente una certa mobilità sociale, un buon progresso scientifico e culturale ed un discreto benessere per i meno abbienti, i Socialisti hanno avuto un atteggiamento connivente con quanti seguitavano ad imputare la crisi economica ad un welfare «eccessivo», che ora è sempre più minacciato (vedi la legge Macron).
Queste premesse sono indispensabili per comprendere la situazione politica del Paese che risulta da quest’ultimo scrutinio elettorale. Come si è detto quello delle amministrative è in termini numerici il miglior risultato del Front National. Sarebbe una grossolana banalità ridurre, come ha spesso fatto la nostra stampa, il successo del Front National al carisma di Marine Le Pen o al problema degli immigrati. Ancor più sbagliato è sperare di resistere al FN, così come alla nuova Lega di Salvini, semplicemente rivolgendo loro superficiali accuse di fascismo. Credo piuttosto che i movimenti d’estrema destra stiano raccogliendo i frutti di un trentennale lavoro di ristrutturazione e riescano ora ad inserirsi nel grande vuoto che hanno lasciato i socialisti dimettendo quelle armi della critica che erano state forgiate da oltre un secolo di lotte di classe. Se infatti una esplicita condanna al liberismo di Europa e banche sarebbe impensabile da parte di Merkel e Sarkozy, allo stesso modo di Hollande o Renzi, il FN è il tenace autore di una politica sociale fortemente critica verso questo modello economico. La condanna del trasferimento di denaro pubblico verso le banche, del fatto che questo sistema favorisce l’accentramento di risorse a favore di multinazionali e grandi imprese, la difesa dello stato sociale e dell’autonomia politica degli Stati contro la finanza transnazionale sono alcuni dei cavalli di battaglia di Le Pen, ovviamente rideclinati a destra. Una recente intervista concessa da Marine Le Pen a Lilli Gruber è molto utile per comprendere che cosa sia il suo partito e come si muova ora l’estrema destra. Dopo aver dismesso l’impianto fascisteggiante, apertamente razzista e nostalgico, il Front National si è arricchito dell’apporto di numerosi movimenti e gruppi di estrema destra (alcuni esponenti manifestano vicinanza al Club de l’Horologe e alle teorie del Grece e di Alain de Benoist) ed ha avviato una fase di ridefinizione del suo pensiero e del suo frasario.
Al posto delle boutades inconsistenti e sfacciatamente xenofobe del padre, il discorso di Marine le Pen si muove, almeno di facciata, su altre linee: rivendicazione della sovranità nazionale che sfocia nella visione gaullista di un’Europa dei popoli, condanna dell’euro e della sua gestione autocratica, del multiculturalismo e dell’immigrazione che, come sostengono gli esponenti più avveduti delle nuove destre europee, rappresenta un problema per le comunità d’accoglienza e per i migranti stessi. Limitarsi a vedere nei sempre più influenti partiti di estrema destra l’estemporaneo emergere di rozzi fascismi che parlano alla pancia e fanno del semplice populismo significa in realtà sottostimare la situazione: la crisi profonda attraversata della rappresentanza e delle forme politiche liberali, l’‘americanizzazione’ in seno ai due grandi partiti di maggioranza che di fatto rappresentano gli interessi della stessa élite, i profondi stravolgimenti economico-sociali che sta attraversando l’Europa ed il sempre più evidente accentramento della ricchezza nonché la sconcertante assenza di chiavi di lettura e teorie alternative. Con ciò non si vuole dire che manchino interpretazioni critiche della crisi o teorie alternative al neoliberalismo formulate da teorici di sinistra; fa però riflettere il fatto che la mutazione genetica delle socialdemocrazie (per dirla con le parole di Alexis Tsipras) e gli avvenimenti storici, politici e culturali successivi al crollo del muro, con la crisi delle ideologie e lo sgretolamento degli apparati di sinistra, renda di fatto molto difficile strutturare un discorso che abbia presa e sappia farsi egemone in seno alle classi subalterne. La marginalizzazione della sinistra critica, la svolta liberal delle socialdemocrazie e l’applicazione selvaggia dell’austerity che ha peggiorato la vita di milioni di persone sono l’humus ideale dei nazionalismi di destra che si fanno carico di rappresentare i subalterni ed una visione alternativa a quella neoliberalista.
Il caso francese costituisce a mio parere una lezione estremamente importante sulla quale dobbiamo riflettere. Esso fornisce un’ulteriore conferma della superficialità con cui da sinistra si è guardato alla politica e alla società decretando la fine della forma partito a favore dello spontaneismo, la scomparsa della classe operaia e il superamento di una visione di classe a favore di slogan come «siamo il 99%». Certo, agli errori strategici della sinistra si devono sommare gli enormi mutamenti strutturali che hanno ridisegnato la morfologia della nuova Europa. Le ultime elezioni sono però un’ulteriore conferma per i fautori di una sinistra critica della gravità della situazione, dell’avvenuta soppressione delle grandi conquiste dei lavoratori e del radicamento culturale delle nuove destre.
Ho parlato di radicamento culturale perché è evidente che un pensiero, per essere efficace, deve inserirsi in un certo regime di discorso ed indirizzarsi a coloro che sono formati per riceverlo. In questo caso alla sinistra non basterà rivedere esteriormente le proprie strategie comunicative, non dopo aver perso trent’anni.