I diversi attentati terroristici a cui si assiste nei tempi, nei luoghi e nelle circostanze più diversi sono tutti spiegabili attraverso un insieme di leggi determinate o, al contrario, esiste una oggettiva indeterminatezza non solo nel loro accadere, ma nel concetto stesso di terrorismo, tale da renderlo inafferrabile?
di Alessandro Bartoloni
I recenti fatti di terrorismo confermano che alla censura di voci sgradite si affianca l’inquinamento della verità con informazioni false e distorte e la sovrapproduzione di notizie inutili ai fini della comprensione degli eventi. Ciò rende difficoltoso ricostruire i fatti e opporre alla propaganda ufficiale una contro-informazione sufficientemente estesa, dettagliata e coerente, in grado di far presa sulle masse e contribuire alla loro presa di coscienza. Così, dopo gli attentati di Parigi, si organizza l’ulteriore stretta autoritaria stile ‘patriot act’, e chi cerca di approfondire, verificare e criticare la versione ufficiale si trova di fronte a enormi difficoltà.
Per lo sviluppo critico delle coscienze, tuttavia, è doveroso cercare di dipanare le nebbie che inevitabilmente si addensano quando grandi tragedie vengono utilizzate, volenti o nolenti, per imporre accelerazioni o cambiamenti allo stato di cose presente. «Per capire dobbiamo sapere che cosa è accaduto - dobbiamo occuparci dei fatti reali che costituiscono la fonte della nostra conoscenza - ma ciò che attraverso di essi impariamo sull’essenza più profonda delle cose, non è ciò che è accaduto bensì il perché» [Robert Havemann, Dialettica senza dogma]. E per farlo c’è bisogno di affiancare alla ricerca delle notizie la loro interpretazione attraverso l’insieme di leggi che meglio è in grado di metterle in relazione, offrendo così un’autentica spiegazione dei fenomeni e non la loro semplice giustificazione. Ma mentre i fatti e la loro menzione emergono spesso dove uno meno se li aspetta, il collante teorico migliore rimane quello del materialismo dialettico.
Riguardo il terrorismo, la prima difficoltà che si incontra sta nel definirlo. Lenin ci dice che è «un’operazione militare che può perfettamente servire, ed essere perfino necessaria, in un determinato momento della battaglia, quando le truppe si trovano in una determinata situazione ed esistono determinate condizioni. Ma la sostanza del problema è precisamente che oggi il terrorismo non viene affatto proposto come un’operazione dell’esercito operante, strettamente legata e adeguata a tutto il sistema di lotta, ma come un mezzo di attacco singolo, autonomo e indipendente da ogni esercito. E quando manca un'organizzazione rivoluzionaria centrale e quelle locali sono deboli, il terrorismo non può essere niente altro». [Lenin, Da che cosa cominciare?]. Una operazione militare, dunque, la cui utilità dipende dalle condizioni di lotta. E «quando non è il terminale di una linea di massa, o almeno l’espressione di un bisogno di cui le masse sono coscienti, non è una scorciatoia, è un arretramento. Non affretta la rivoluzione, lavora per la contro-rivoluzione» [I giorni di Stammheim, il manifesto, novembre 1977].
Se durante una guerra il terrorismo appare già come una necessità, una logica e inevitabile conseguenza delle leggi che determinano e regolano i conflitti armati, al contrario, in tempi di pace, esso si presenta come mera possibilità, un evento che può accadere ma anche non accadere e che dunque non deve necessariamente accadere. Il nodo da sciogliere, quindi, è se le leggi che determinano l’inevitabilità del terrorismo in tempi di guerra servono anche a spiegare la sua comparsa in tempi di pace. In altre parole, se i diversi attentati a cui si assiste nei tempi, nei luoghi e nelle circostanze più diversi sono tutti spiegabili attraverso un insieme di leggi determinate o se, al contrario, esiste una oggettiva indeterminatezza non solo nel loro accadere ma nel concetto stesso di terrorismo, tale da renderlo inafferrabile.
Il fenomeno, fortunatamente, è definibile, e le leggi che in ogni caso lo determinano (tutt’altro che meccanicamente) sono quelle dell’accumulazione di lavoro umano non pagato. I rapporti sociali capitalistici, infatti, alienano i lavoratori perfino dalla propria natura di esseri umani ed entrano in contraddizione con lo sviluppo delle forze produttive, generando inevitabilmente crisi e terrorismo. Il quale, durante la guerra, appare come immediata necessità bellica, mentre in tempi di pace come mera possibilità, la cui probabilità di accadimento dipende dall’intensità delle contraddizioni a cui sono sottoposte le masse e dalle valutazioni soggettive degli individui che lo scelgono, pianificano ed eseguono.
Per dirla con Marx, l’alienazione dalla propria umanità significa sentirsi liberi soltanto nelle proprie funzioni animali, come il mangiare, il bere, il procreare, e tutt'al più ancora l'abitare una casa, il vestirsi (o il comunicare, per mezzo dell’ultimo modello di cellulare); e al contrario sentirsi nulla più che una bestia nelle proprie funzioni umane, ad esempio quelle legate alla capacità di trasformare la natura per mezzo del lavoro. E questo perché l'oggetto che il lavoro produce, il prodotto del lavoro, si contrappone a esso come un essere estraneo, come una potenza indipendente da colui che lo produce. Se prodotto del lavoro è l'alienazione, la produzione stessa deve essere alienazione attiva, e quindi nel suo lavoro l’operaio non si afferma, ma si nega, si sente non soddisfatto, ma infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale, ma sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito. L'esteriorità del lavoro per l'operaio appare in ciò: che il lavoro non è suo proprio, ma è di un altro. Non gli appartiene, ed egli, nel lavoro, non appartiene a se stesso, ma ad un altro. È diventato una merce.
Il risentimento che, ad esempio, si scaglia contro la ‘laicità’ e la ‘libertà’, nasce da questa alienazione, che prepara il terreno su cui si innestano confraternite religiose, disturbi neurologici, gruppi rivoluzionari, ecc., che possono portare alla realizzazione di atti terroristici anche in tempi di pace. Per un numero crescente di persone, infatti, la laicità non è altro che la vuota assenza di punti di riferimento necessari per orientarsi, opportunamente smantellati proprio dai poteri laicamente costituiti. La libertà è solo assenza di vincoli stabili con i mezzi di sussistenza e con il lavoro necessario per produrli o procurarseli, pervicacemente riprodotta nel democratico rafforzamento del diritto ad essere licenziati, anche ingiustamente.
A questo terrorismo eventuale, si affianca quello, assolutamente necessario, privo di qualunque incertezza e casualità, che si genera durante una guerra, più o meno dichiarata. Esso è opera di gruppi che mirano a sovvertire o conservare lo stato di cose esistenti ed è frutto della lotta tra le classi e all’interno della classe dominante. Con il perdurare della crisi e nella misura in cui le ‘guerre’ valutarie e commerciali non bastano, diviene improcrastinabile incrementare la capacità di comando nel mercato e, soprattutto, sul lavoro. Il conflitto economico tra potenze imperialiste diventa guerreggiato. L’autorità dentro e fuori i luoghi di lavoro si fa sempre più dispotica e la concorrenza diviene ‘spietata’. L’eccesso di sovra-accumulazione porta alla distruzione di lavoro oggettivato e di lavoratori, vale a dire della base materiale su cui poggia la forza del nemico (concorrente capitalistico o di classe). E nella misura in cui la crisi continua e si estende anche a quei settori sociali che in passato non l’avevano subita, alla guerra tradizionale si affianca quella ‘asimmetrica’ e ‘per procura’ (in attesa di quella ‘civile’) ed essa si trasferisce dai teatri periferici ai maggiori centri imperialistici. Le cui classi dirigenti unanimemente concordano solo sulle riforme più o meno strutturali necessarie per scaricare sul popolo quanti più oneri possibili, ma si ritrovano tutt’altro che allineate tra loro e al loro interno, raggruppate a geometrie variabili proprio come i capitali lo sono in cordate transnazionali.
In conclusione, sono le leggi del capitale che rendono il terrorismo necessario. Esso si realizza come tale solo nei momenti di crisi acuta, quando la legge dell’accumulazione si avvale unicamente della mediazione delle armi per farsi valere. Rimane, invece, una possibilità in tempi di pace, quando la legge dell’accumulazione di lavoro umano non pagato si applica mediante il diritto, la stampa, la religione, gli psicofarmaci, ecc. Necessità non meccanica ma dialettica, che accoglie la casualità come categoria oggettiva propria di ogni reale manifestazione di eventi possibili. Stando così le cose, non deve sorprendere né scandalizzare l’eventualità che anche gli attentati di Parigi abbiano visto (come molte altre volte in passato) la connivenza o la complicità di apparati di sicurezza genericamente ‘occidentali’ o addirittura autoctoni. Tuttavia è improbabile che i dettagli sui mandanti possano essere scoperti a breve in modo da chiarire una volta per tutte se siamo di fronte alla determinazione necessaria del fenomeno (come sembra ogni giorno di più) o semplicemente ad una sua manifestazione possibile. D’altronde, l’inchiesta riguardante Charlie Hebdo e l’Hyper Cacher è stata bloccata apponendovi il segreto militare. Qui in Italia abbiamo il segreto di stato che «non è sindacabile e ha effetti inibenti sugli organi dell’azione e della giurisdizione comune» come insegna il rapimento ad opera della Cia del cittadino egiziano Abu Omar. E siamo anche in attesa di capire con precisione il ruolo degli infiltrati Usa ed israeliani tra le fila delle Brigate rosse durante il rapimento Moro, o l’identità dei mandanti politici delle stragi fasciste e mafiose che hanno insanguinato l’Italia del dopoguerra. Il perché questi fatti sono accaduti, però, ci dovrebbe essere abbastanza chiaro.