Secondo una delle narrazioni più diffuse dall’ideologia dominante vi sarebbe una guerra infinita, uno scontro di civiltà fra le liberal-democrazie occidentali – paladine in tutto il mondo dei diritti umani, della tolleranza religiosa, della lotta al terrorismo – e il fondamentalismo islamico.
Al momento, però, tale guerra è in atto quasi esclusivamente in Afghanistan, dove lo scontro non ha affatto i caratteri della guerra di civiltà, ma piuttosto quelli di un movimento di liberazione nazionale, egemonizzato da fondamentalisti islamici, che si batte contro una quasi ventennale occupazione del suo territorio da parte delle principali potenze imperialiste internazionali. Tanto che negli ultimi tempi si sviluppano sempre più tentativi di dialoghi e trattative fra gli Usa, in rappresentanza dell’imperialismo occidentale, e i Talebani in rappresentanza del movimento di liberazione nazionale, in funzione di un accordo che consenta un progressivo ritiro delle truppe di occupazione senza perdere completamente la faccia a livello internazionale. I talebani, al momento, non hanno nessun interesse a esportare il conflitto con il mondo occidentale a livello globale, né nel trasformarlo nella guerra infinita di uno scontro di civiltà, ma si battono quasi esclusivamente contro la prolungata occupazione del loro paese.
Al contrario i paesi occidentali, o meglio le potenze imperialiste, sono impegnate in due decisamente più sanguinosi conflitti, in Siria e Yemen, a sostegno delle aggressioni condotte contro questi paesi da quelle petromonarchie del Golfo in cui da decenni dominano incontrastati i fondamentalisti islamici e da cui da sempre arrivano i maggiori finanziamenti alla diffusione a livello internazionale del fondamentalismo islamico e del terrorismo jihadista. Anzi, praticamente da sempre, vi è una stretta alleanza fra i paesi del Golfo dominati dal fondamentalismo islamico e i paladini della civiltà occidentale, che sono al contempo le più aggressive potenze imperialiste e neocolonialiste. Si potrebbe aggiungere che tali dispotiche teocrazie del Golfo si sono sempre rette proprio grazie all’appoggio delle liberal-democrazie occidentali.
Tale stretta alleanza è stata costantemente coperta all’opinione pubblica occidentale dai grandi mezzi di comunicazione del “mondo libero e democratico” che presentano tali dispotismi teocratici come gli “arabi moderati”, in contrapposizione ai radicali, ovvero a chi nel mondo arabo e persiano si è opposto o si oppone alle politiche neocoloniali e imperialiste dei nostri “paladini dei diritti umani”.
Questa narrazione esemplarmente rovescista deve di tanto in tanto fare i conti con degli “effetti collaterali” prodotti dai propri alleati “moderati islamici” il cui sfacciato dispotismo finisce talvolta per rompere il muro di gomma dell’ideologia dominante e fare notizia persino nei grandi mezzi di comunicazione, come avvenuto recentemente con il massacro dell’editorialista del “prestigioso e autorevole” quotidiano statunitense “Washington Post” Jamal Khashoggi.
Quest’ultimo dopo essere stato attirato con l’inganno all'ambasciata dell’Arabia Saudita in Turchia – paese per altro rivale se non nemico – dal fratello del principe bin Salman, ambasciatore di Riyadh a Washington, su ordine dello stesso erede al trono (come ha rivelato la stessa Cia) è stato barbaramente ucciso secondo il più truce modello dei narcos colombiani, dallo staff del più potente esponente della famiglia reale saudita.
Così bin Salman, divenuto beniamino della libera stampa occidentale in quanto avrebbe modernizzato e liberalizzato il proprio paese consentendo alle donne di guidare, è ora accusato persino dalla Cia di essere il mandante di questo efferato e proditorio assassinio. Del resto, anche prima di questo “effetto collaterale” i mezzi di comunicazione e le “democrazie” occidentali nell’incensare questo principe modernizzatore, fingevano di non sapere che bin Salman, mentre “concedeva” la patente alle donne, faceva arrestare con capi di accusa assurdi “alcune fra le più note attiviste saudite dei diritti delle donne”.
Inoltre, i nostri politici e giornalisti, sempre pronti a incensare gli alleati araba moderati, fingono al contempo di non sapere che, in primo luogo nell’Arabia saudita le donne non possono uscire di casa se non accompagnate da un uomo, in un paese dove ancora è pratica la tratta di donne di ogni paese ed età, spesso rapite, da destinare agli harem dei sultani. Più in generale, in buona compagnia con gli altri paesi “moderati” del golfo, l’Arabia saudita resta presumibilmente il paese al mondo in cui le donne vivono la peggiore forma di oppressione e schiavitù domestica, anche se i grandi movimenti sviluppatisi a livello internazionale per l’emancipazione della donna sembrano dimenticarlo.
L’Arabia saudita è dominata sin dalla sua creazione – in funzione del neocolonialismo britannico – dall’indissolubile alleanza fra una famiglia-clan di predoni del deserto, da allora proprietari privati del paese e dei suoi abitanti, e la tendenza più neo-fondamentalista islamica, quella del wahabismo. Il paese si fonda ancora su una rigida gerarchia fra servi e padroni. Tra i primi figurano indubbiamente le donne al contempo oppresse dall’interpretazione più retriva e reazionaria della tradizione islamica neo-fondamentalista e le arcaiche tradizioni tribali imposte come leggi dalla dispotica teocrazia al potere. Così le donne sono da sempre “obbligate ad indossare in pubblico un abaya, un lungo camice nero che copre tutto il corpo eccetto la testa, i piedi e le mani. Per la testa si usa un altro indumento, il niqab, che la copre tutta eccetto gli occhi. Anche le donne straniere hanno l’obbligo dell’abaya in pubblico. Queste regole sono fatte osservare con pugno di ferro dalla muttawia, la polizia religiosa agli ordini del Comitato per l’imposizione della virtù e l’interdizione del vizio, impegnata anche ad impedire la ‘promiscuità’ in tutti i luoghi pubblici. Le donne saudite anche sui social non possono mostrarsi senza l’abaya. [..] Ed è bene ricordare che a una donna saudita è anche vietato aprire un conto bancario, richiedere un passaporto e viaggiare all’estero senza il permesso di un uomo. Ogni donna deve avere un tutore di sesso maschile”.
Senza dimenticare che il giovane principe ereditario si è fatto strada nel modo più violento fra i pretendenti al trono della sua stessa famiglia, togliendo di mezzo con la scusa della lotta alla corruzione qualunque uomo di potere saudita che in qualche modo potesse fargli ombra. Fino ad arrivare a tenere per giorni prigioniero lo stesso presidente in carica del Libano, sul suo libro paga, mettendo in discussione il delicatissimo equilibrio politico su cui si regge questo paese.
A prendere subito nel modo più sfacciato le difese del principe, accreditando le versioni più assurde del macabro assassinio, divulgate dai sauditi e poi regolarmente smentite, sono stati il presidente del paese guida nella guerra di civiltà condotta dall’occidente e il capo di Stato dell’unica “democrazia” del Medio Oriente: Benjamin Netanyahu. Per altro Israele, avamposto della “civiltà occidentale” nel mondo arabo, dopo aver sostenuto le forze fondamentaliste in azione contro uno dei pochi residui Stati arabi laici, la Siria, ha instaurato rapporti sempre più stretti con le peggiori teocrazie dispotiche del Golfo. Significativo è anche il fatto che a prendere subito le difese del principe saudita sia stato uno dei principali esponenti politici nonché tra i più seguiti telepredicatori evangelici degli Stati Uniti.
Quest’ultimo scandalo dell’assassinio di Khashoggi, a ulteriore dimostrazione di quanto faceva notare Mao Tse-tung – ovvero che vi sono morti che pesano come una piuma e morti che pesano come una montagna – non ha portato le grandi liberal-democrazie occidentali, con la parziale eccezione della Germania più interessata a vendere armi ai rivali turchi, a rimettere in questione i contratti miliardari con cui riforniscono di micidiali armi l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi uniti impegnati in una spaventosa aggressione militare allo Yemen, che lo ha ridotto a essere il paese più povero del mondo.
Così, grazie all’incondizionato sostegno dei massimi rappresentanti della civiltà occidentale, Stati Uniti e Francia in primis, le teocrazie dispotiche del Golfo hanno realizzato 18.500 raid aerei sullo Yemen, con una media di 14 bombardamenti al giorno, in larga parte finalizzati a terrorizzare la popolazione civile, provocando almeno 56.000 morti. Tra i target colpiti vi sono “scuole ospedali, abitazioni, mercati, fabbriche, strade, fattorie e siti storici” che oltre a provocare decine di migliaia di morti fra i “civili tra cui migliaia di bambini”, hanno prodotto “la peggiore crisi umanitaria al mondo”.
Senza contare che “la distruzione sistematica di infrastrutture civili e di settori strategici come l’agricoltura e la pesca, unita all’embargo totale imposto sui porti yemeniti ha già causato la morte di altre decine di migliaia di persone per fame e malattie curabili”. Tanto che su questa spaventosa situazione è recentemente uscito su Foreign Policy un articolo dall’eloquente titolo: “L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi stanno affamando gli yemeniti fino alla morte”. Del resto “lo scorso settembre le Nazioni Unite hanno reso pubbliche valutazioni agghiaccianti: quattordici milioni di yemeniti, circa la metà della popolazione, si trovano sul baratro della fame e senza la cessazione immediata di bombardamenti ed embargo sarebbe impossibile impedire una strage di massa”.
Altrettanto paradossale è la minaccia, più volte reiterata, dalle massime rappresentanti della civiltà occidentale, con ancora una volta in prima linea i rappresentanti di Francia e Stati Uniti, di essere pronti a scatenare una campagna di bombardamenti devastanti sulla Siria, se osasse riconquistare l’ultima provincia del suo martoriato territorio ancora sotto lo stretto controllo dei fondamentalisti islamici. L’aberrante e barbara ideologia di questi ultimi è diffusa in tutto il mondo – a partire da altri rappresentanti della “civiltà occidentale”, come il Belgio – grazie ai finanziamenti in primo luogo dei sauditi, il che spiega l’incredibile affluenza di migliaia di giovani provenienti da tutti i paesi occidentali accorsi in Siria a combattere come volontari nelle file delle milizie jihadiste, contro uno degli ultimi residui di Stato laico in Medio oriente.
D’altra parte i campioni della “civiltà occidentale” stanno portando avanti, in quanto campioni della “libertà di stampa”, una campagna costante volta a criminalizzare le forze che sul campo hanno inflitto delle dure sconfitte al terrorismo islamico, dall’esercito siriano, all’iracheno, dalle milizie sciite, agli Hezbollah, dagli iraniani ai russi. Con la significativa eccezione dei kurdi, gli unici esaltati come avversari del fondamentalismo islamico, in quanto consentono l’occupazione di parte del territorio siriano da truppe dell’imperialismo statunitense.
Senza contare, infine, che tutti gli interventi, ovvero le aggressioni militari generalmente condotte con metodi terroristici, dalle potenze occidentali in nome dello scontro di civiltà e della guerra infinita al terrorismo, hanno abbattuto o messo in gravissima crisi i pochi paesi che nel mondo arabo si opponevano strenuamente alla diffusione del fondamentalismo islamico come l’Iraq, la Libia e la Siria. Tanto che a seguito della guerra al terrorismo e allo scontro di civiltà, proprio le potenze occidentali in tutti i paesi da loro occupati hanno dato un contributo essenziale allo sviluppo e al rafforzamento non solo del fondamentalismo islamico, ma dello stesso terrorismo Jihadista dal Kossovo, all’Afghanistan, dalla Libia, all’Iraq e alla Siria.