Chiunque in Cile, almeno tra chi ha familiari o amici nel mondo della sinistra, conosce una o più persone con una terribile storia da raccontare. Con dettagli raccapriccianti, di quelli che nemmeno la tv o i film sceglierebbero di mostrare, neanche in fascia protetta.
Alcuni di loro ne parlano, convinti che il ricordo possa aiutare le nuove generazioni a evitare che certi eventi terribili possano ripetersi, magari in un’altra forma. Per altri, il dolore del ricordo è troppo forte per riuscirci.
Io, oggi, non racconterò le loro vicende. A chi ha in programma di viaggiare in Cile, prossimamente o in futuro, consiglio vivamente di visitare il Museo de la memoria nel quartiere di Quinta Normal, a Santiago. Chi non può, troverà di certo online tutto il materiale per farsi un’idea.
Oggi, l’undici settembre, il giorno della memoria, vi parlerò invece dell’importanza del ricordo. È l’anniversario del colpo di stato del 1973 e come tutti gli anni ci siamo raccolti attorno all’Estadio Nacional con candele, foto, nomi, striscioni. Ci accompagnano i familiari delle vittime che riconoscono l’immagine di un loro caro, i sopravvissuti alle prigionie e alle torture, ma anche tante, tantissime persone di tutte le età che riconoscono il valore della commemorazione; lo fanno non solo per un senso di giustizia o per interesse, ma anche perché sanno che questo è il miglior antidoto para que nunca más en Chile – per evitare, cioè, di vivere o rivivere nel proprio paese quei momenti terribili. Tra loro, vi sono anche tanti giovani nati negli anni Novanta, dopo la dittatura, che hanno conosciuto quel periodo solo indirettamente da film, documentari, serie tv, o dal racconto dei parenti più anziani.
Quest’anno, dopo la batosta elettorale di appena sette giorni fa, al lutto si aggiungono la disillusione e lo sconforto. Sarebbe stato bellissimo poter onorare quelle foto con un regalo frutto di tanto impegno: una Nuova Costituzione. I discorsi mentali che ognuno di noi fa dinanzi a quelle persone che non ci sono più, questa volta, contengono anche delle autocritiche e forse persino delle scuse per non avercela fatta.
Vale la pena, allora, rinnovare ancora questo rito dopo decenni? In un paese che ha scelto di mantenere la costituzione di Pinochet, che ha portato al ballottaggio e quasi alla presidenza l’estrema destra nostalgica di Kast, si potrebbe pensare che la tentazione di mollare tutto, di lasciar riposare quei morti nella pace di un dolce oblio, possa avere la meglio sulla determinazione a lottare e a ricordare.
Visto da fuori, da lontano, dall’Italia, sembrerebbe proprio così. Ma per noi europei, è veramente difficile immedesimarsi in un paese così lontano, non solo geograficamente ma anche culturalmente. Nel mio caso personale, pur avendo già vissuto in precedenza all’estero, ci sono voluti anni per cominciare appena a capire alcune cose. Credo sia per questo che le analisi scritte in Europa delle vicende cilene e in generale latinoamericane lasciano spesso il tempo che trovano.
Com’è possibile che in un paese – che ha vissuto quello che ha vissuto – la destra nostalgica sia presente con tanta forza e ottenga risultati elettorali simili? In Italia, dopo la caduta del fascismo e durante vari decenni, l’estrema destra non ha avuto alcuna possibilità di ottenere non solo il governo, ma neppure una qualche rilevanza parlamentare. Vi dirò allora che quel trauma che vi ho descritto non riguarda solo le persone sopravvissute alle torture e alla prigionia, o i loro familiari. Esiste anche un meccanismo di rimozione collettivo, sociale, che spinge i più a nascondere la polvere sotto al tappeto e a identificare – in modo più o meno cosciente – la politica con qualcosa di pericoloso, da evitare, o nel migliore dei casi inutile.
Certo, anche in Italia abbiamo vissuto l’epoca del fascismo in modo molto traumatico; non si può certo dire che le leggi razziali, la guerra mondiale, le bombe, siano state una passeggiata. Però noi abbiamo avuto il nostro momento catartico: la liberazione non è stata solo politica o militare, ma in un certo senso anche psicologica. Il giorno dopo la fine della guerra avevamo tante macerie da ricostruire ma, almeno, il fascismo – quantomeno nelle forme e con i protagonisti che avevano caratterizzato quel periodo – ce l’eravamo lasciati alle spalle definitivamente, e tutti diedero per scontato che scrivere una Nuova Costituzione fosse la cosa più logica da fare.
In Cile, invece, la dittatura finì con un referendum e per alcuni anni la paura che Pinochet potesse tornare al potere continuò ad aleggiare. La catarsi non è avvenuta: lasciarsi alle spalle la costituzione del 1980 avrebbe significato molto in questo senso, oltre che ovviamente dal punto di vista giuridico e politico, ma purtroppo siamo costretti a fare i conti coi risultati, e con la realtà. In questi giorni si parla molto di un accordo trasversale per riformare o cambiare la Costituzione, per iniziare un nuovo processo; ma una riforma che renda partecipi quegli stessi settori della società (o addirittura le stesse persone) che – durante i tempi bui vissuti dal paese in cui vivo – erano dalla parte degli oppressori, sarebbe altrettanto liberatoria? Credo sia lecito dubitarne.
E allora, come per qualsiasi trauma, la cosa peggiore da fare sarebbe dimenticare. La memoria, per quanto dolorosa, è l’unico rimedio per uscirne. La ferita è ancora aperta: ignorarla, far finta di niente, tirare avanti, rischierebbe addirittura di incancrenirla irrimediabilmente.
Domenica 4 settembre, il raccolto è stato scarso. Sette giorni dopo, la cosa migliore da fare sembra allora ricominciare con la semina: di memoria, e di consapevolezza. I nostri giovani, quelli che hanno acceso la miccia della rivolta e che ora tornano a ribellarsi cresceranno; un giorno, riempiranno i posti del potere, saranno gli ingranaggi del Cile del futuro. Il cambio di domani va preparato oggi: la storia funziona così, ha i suoi tempi.
A questo serve, quindi, la memoria: non solo al rispetto del passato, ma anche e soprattutto a preparare il futuro.