22,3 milioni di euro sono stati risparmiati solo nelle agenzie delle entrate per la mancata erogazione dei buoni pasto, le cifre relative a tutti gli altri comparti della pubblica amministrazione (Pa) sono invece ancora da quantificare. Trattasi di soldi sottratti ai lavoratori e alle lavoratrici della senza motivazione giuridica ma solo nell’ottica di penalizzare la forza lavoro agile. Al di là dei giudizi, non certo entusiastici, verso lo smart working, restano le dichiarazioni fuori luogo del ministro Brunetta.
La domanda dirimente è tuttavia altra. Ossia, come possiamo accettare la prepotenza di organismi che annullano la contrattazione sindacale nei comparti della Pa e dall’altra parte come sia possibile nascondersi dietro allo smart per occultare le difficoltà del comparto pubblico. Siamo in presenza di reiterate e cattive prassi da tempo in uso nelle pubbliche amministrazioni che non sono attrezzate per gestire modalità diverse dalla presenza a causa dei mancati investimenti tecnologici e dei i tagli al personale frutto di 20 anni di insane politiche.
La Pa italiana è fanalino di coda in Ue per gli stipendi erogati al personale, per il numero complessivo dei dipendenti, per la presenza dei tanti precari per i quali non ci sarà stabilizzazione, per i mancati finanziamenti destinati a formazione e tecnologie o a strumenti di lavoro.
Manca quindi una seria analisi che esamini quanto non funzioni nel settore pubblico. I problemi che affliggono il comparto sono del resto noti ma irrisolti per i continui tagli che hanno messo in ginocchio scuola, enti locali e sanità.
Se manca un collegamento tra i vari enti e organi di governo, questa situazione è dovuta alla assenza di banche dati condivise, alle innovazioni tecnologiche rinviate per anni, al personale mal pagato e ancor meno motivato.
Pensare di riproporre la centralità della performance significa ignorare quanto il merito sia solo servito ad attaccare il potere di acquisto dei salari pubblici, non certo ad accrescere i servizi adeguandoli alle esigenze della cittadinanza. Siamo in presenza di prassi organizzative e gestionali antiquate che vengono occultate dietro all’attacco allo smart working e soprattutto alle migliaia di dipendenti che in questi mesi hanno operato da remoto.
L’addio allo smart working non può essere la soluzione di ogni male o panacea, dovremmo invece discutere di come sia stato possibile negare l’apporto della forza lavoro nei mesi pandemici; forza lavoro che è stata penalizzata economicamente e sottoposta al pubblico ludibrio.
Sarebbe invece il caso di difendere i diritti costituzionali dei cittadini, rilanciare i servizi pubblici a partire dalla assunzione di 600mila dipendenti, tanti sono infatti i posti perduti tra tagli, spending review e processi di smantellamento dei settori pubblici.
Alcuni dei fautori dello smart tuttavia si prefiggono scopi incondivisibili come la destrutturazione del lavoro pubblico ripensandolo in base a obiettivi; una sorta di cottimo istituzionalizzato da estendere a ogni comparto per attaccare il potere di acquisto e di contrattazione, a partire dalla imminente revisione dei profili professionali.
Difendere allora i dipendenti della Pa in smart non significa assecondare i processi di ristrutturazione e di smantellamento dei servizi pubblici, né tanto meno assumere le posizioni di certi innovatori per i quali il lavoro a progetto sarebbe una conquista e non il simbolo della sconfitta sindacale e politica.