L’aspettativa di vita alla fine della pandemia calerà di almeno 5 anni il che dovrebbe indurre a rivedere la riforma Fornero che ha innalzato l’età pensionabile fin quasi alla soglia dei 70 anni di età. Lavorare meno per lavorare tutti era lo slogan degli anni sessanta e settanta ma nel corso del tempo la disoccupazione di massa è diventata endemica nei paesi capitalistici mentre l’orario di lavoro è rimasto inalterato, anzi tra algoritmi e dispositivi vari, non ultimi i contratti nazionali, assistiamo all’incremento dello sfruttamento, dell’intensità e del tempo del lavoro. Quando alcuni contratti nazionali sono stati fusi tra loro, gli orari settimanali si sono adeguati a quello con i tempi di lavoro più lunghi. La flessibilità poi ha dimostrato che, rispetto a 20 o 30 anni fa i tempi di vita vengono compressi a favore di quelli del lavoro e la disponibilità sovente non viene pagata e riconosciuta come tempo di lavoro.L’Italia è il paese nel quale si registrano sempre più infortuni e morti sul lavoro, crescono anche le malattie professionali e molti dei soggetti colpiti sono lavoratori e lavoratrici che senza la Fornero sarebbero già in pensione.
La tanto sbandierata qualità della vita nel Bel paese è sempre più minacciata dai salari da fame e dai costi elevati per sanità e istruzione.
Ridurre l’età pensionabile dovrebbe essere un intervento necessario anche per favorire nuova occupazione ma interventi del genere determinerebbero l’aumento dei costi previdenziali vivamente sconsigliati dall’austerità espansiva e dal pareggio di bilancio in Costituzione, autentici dogmi dei nostri tempi.
Tra i primi provvedimenti del nuovo governo ci sarà la fine della quota 100 e il ritorno, con quale revisione, alla Fornero. Allo stesso tempo cancelleranno il reddito di cittadinanza per favorire le cosiddette politiche attive del lavoro.
E qui entrano in gioco gli interessi del blocco sociale di riferimento del governo che include i sindacati maggiormente rappresentativi e il terzo settore che contro la Fornero non hanno mosso un dito e sono invece interessati al potenziamento di sanità e previdenza integrativa. Il terzo settore si è già detto favorevole ad un parziale ripristino dei licenziamenti collettivi e guarda con interesse ai mancati investimenti in campo sanitario e pubblico perché dal depotenziamento delle strutture pubbliche il volontariato sociale trarrà solo vantaggio, determinando al contempo l’abbattimento del costo del lavoro.
A fine anno quindi finirà la quota 100 e chi vorrà andare in pensione prima magari potrà farlo a costo di drastiche riduzioni dell'assegno previdenziale.
Chi paga allora i costi della crisi? I lavoratori e le lavoratrici costretti\e a carichi di lavoro insostenibili, alla precarietà occupazionale ed esistenziale, condannati a lavorare fino a quasi 70 anni e nella speranza di arrivarci in salute perché, in caso contrario, saranno destinati a miseri assegni con i quali arriveranno forse a metà mese.
È bene ricordare che tra le principali richieste della Bce ai paesi destinatari del Recovery c’è proprio l’armonizzazione dei sistemi previdenziali, politiche fiscali simili e regole univoche in materia di lavoro. È l’agenda del capitale a dettare le cosiddette riforme governative come dimostrerà la stessa revisione degli ammortizzatori sociali.
Il programma della Bce è lo stesso del governo Draghi: rimaniamo fermi alle pensioni che oggi, calcolate con il sistema contributivo, determinano assegni da fame soprattutto per chi ha buchi contributivi o lunghi periodi di lavori precari.
Qualunque deroga alla Fornero avverrà calcolando l’intera vita lavorativa con il sistema contributivo e senza rivedere i coefficienti di calcolo dell’assegno previdenziale. È questa una delle prime e grandi controriforme che si appresta a realizzare il governo Draghi quando invece sappiamo come il sistema contributivo sia la vera causa delle pensioni da fame per chi oggi ha 40 o 50 anni.
Diversi sono gli scenari possibili per una parziale revisione della Fornero. Resta il fatto che senza tornare al sistema di calcolo retributivo gli assegni previdenziali saranno sempre più bassi, la forza lavoro sarà costretta a restare in produzione fino all’ultimo giorno e sovente a destinare il tfr alla previdenza integrativa per compensare gli assegni da fame.
Ulteriore perdita del potere di acquisto per i lavoratori e risparmio per le aziende e per lo Stato: ecco i risultati delle prossime decisioni in materia previdenziale con il beneplacito di Cgil, Cisl e Uil.
La questione previdenziale si lega poi a quella salariale e contrattuale. Non a caso sta prevalendo il modello Cisl che smantella il contratto nazionale con quel sistema di deroghe infinite che rafforza invece il salario di secondo livello collegato alla produttività e alla performance. Il pubblico impiego ha fatto scuola; invece della quattordicesima per i 3.2 milioni di dipendenti pubblici, oltre 20 anni fa decisero di introdurre il salario accessorio da determinare con le Rsu, salvo poi scoprire che quella possibilità di negoziazione viene praticamente vanificata dalle direttive Aran e dallo svuotamento delle materie oggetto di contrattazione sindacale. E quel salario viene sempre più soggetto alla discrezionale valutazione dei dirigenti, distribuito secondo il cosiddetto merito e in termini diseguali. L’ideologia del falso merito è parente stretta di quella della produttività.
Altro aspetto da prendere in considerazione è quello della possibilità di scelta da parte della forza lavoro prossima alla pensione. Negli anni scorsi in alcune grandi aziende veniva offerto un contratto part time al posto del full time (con minore salario e minori contributi previdenziali). Magari per rendere più appetibile l’offerta si proponeva l’assunzione di un figlio con il consueto contratto da fame, quello dell’apprendistato.
Questa logica padronale è più diffusa di quanto si creda e rappresenta un autentico ricatto alla forza lavoro. Infatti, per chi si avvia verso l’età pensionabile potrebbe arrivare la proposta irricevibile ed economicamente penalizzante, conforme all’ipotesi già presente nel Libro verde europeo sull'invecchiamento demografico: trasformare il contratto a tempo pieno in part time con ulteriore perdita economica e con la prospettiva di assegni previdenziali inferiori.
L’antipasto è servito, per le altre pietanze basta attendere i diktat di Bruxelles.