I nodi vengono al pettine e gli Enti locali devono fare i conti con il crollo degli introiti causati dalla pandemia ma soprattutto con in fondi sempre più risicati provenienti dallo Stato. Il meccanismo che regola la sostenibilità finanziaria e il funzionamento degli Enti locali sta palesando limiti e contraddizioni derivanti da direttive vecchie costruite ad arte solo per limitare la spesa complessiva e quella relativa al personale. L’atteggiamento dell’Anci, associazione nazionale comuni italiani, e dei sindacati rappresentativi è sempre stato arrendevole e lo sarà anche nei prossimi mesi: nessuna revisione delle regole attuali, nel migliore dei casi saranno concesse deroghe che consentano di sforare i limiti vigenti in materia di spesa di personale e di salario accessorio. Per esempio, senza incrementare il fondo della produttività, con le nuove assunzioni che arriveranno con contagocce per gli ostacoli oggettivi alle procedure concorsuali derivanti dalla pandemia, i circa 500mila dipendenti degli Enti locali si ritroveranno con forti decurtazioni del salario di secondo livello. Di fronte a questa ipotesi è possibile che sia introdotta qualche deroga per salvare la faccia e quanto resta della credibilità dei sindacati rappresentativi.
È un esempio lampante di come le regole dell’austerità, la sostituzione turn over con il principio del cosiddetto fabbisogno di personale, i criteri di sostenibilità finanziaria abbiano non solo creato ostacoli spesso insormontabili alla facoltà di effettuare assunzioni degli Enti locali ma anche gettato nel panico gli amministratori locali davanti alla riduzione dei fondi derivanti dalle tasse locali.
E ancora una volta assistiamo alle logiche delle deroghe salvo poi ritrovarsi, a breve, nelle stesse condizioni di criticità dettate dal contenimento della spesa.
Le regole dell’austerità sono il fardello insostenibile per gli Enti locali soprattutto quelli del Sud e con minori dimensioni.
Tali regole si aggiungono a loro volta ai limiti del sistema produttivo italiano con un numero spropositato, a confronto con i paesi Ue, di partite Iva e di contratti precari. La logica della riduzione dei costi in materia di personale ha spinto per la delocalizzazione produttiva negli ultimi 40 anni. Se poi aggiungiamo le conseguenze (nefaste) dei processi di privatizzazione comprendiamo come i ritardi dell’Italia rispetto alla Ue sia frutto di politiche consolidate e trasversali agli schieramenti politici.
Nell’ultimo anno si registrerebbero 1,4 milioni di contratti a tempo determinato in meno. Il crollo occupazionale deriva dalla contrazione dei contratti precari che ormai dominano incontrastati nei settori privati. Con la pandemia settori trainanti come il turismo hanno registrato innumerevoli problemi soprattutto con l’arrivo della terza fase pandemica.
Le deroghe al decreto dignità e alle causali che esso prevedeva per le assunzioni a tempo determinato, non sono servite, com’era prevedibile, a frenare l’emorragia occupazionale. Ora la richiesta padronale è quella di porre fine direttamente alle casuali per sostituire magari i contratti a tempo indeterminato con quelli precari. E perfino nel variegato mondo degli appalti potremmo avere la sostituzione dei part-time e dei contratti a tempo con il lavoro a chiamata e il potenziamento del ricorso alle agenzie interinali.
Il 31 marzo non scade solo il divieto dei licenziamenti collettivi ma anche la deroga alle causali. La proposta è quella di una mediazione al ribasso per soddisfare le richieste padronali.
I numeri dei lavoratori a tempo determinato sono impietosi, nell’anno 2020 si sono persi circa 393 mila posti di lavoro; ma parliamo di occupazione precaria e non stabile visto che solo una minima parte di questi rapporti di lavoro viene confermata o trasformata in contratto a tempo indeterminato. I dati tra lavoratori a tempo determinato e i contratti della stessa specie siglati presentano comunque contraddizioni palesi e i numeri vanno presi con le molle perché tanti contratti riguardano poi le stesse unità di forza-lavoro. Siamo quindi in presenza dei soliti dati statistici dati in pasto alla stampa per creare panico e spingere i media a caldeggiare le ipotesi confindustriali. Nel solo 2020 sono ben 3,4 milioni i lavoratori a tempo determinato presenti nel nostro paese, numeri decisamente superiori a quelli dei paesi capitalisticamente avanzati della Ue. Le imprese, da 40 anni, investono poco o nulla in formazione. Le politiche perseguite sono quasi sempre le stesse: delocalizzazioni, appalti al ribasso e contenimento della spesa. E sia ben chiaro che le regole dell’austerità sono state il paravento dietro cui celare i limiti strutturali del sistema produttivo italiano.
La classe imprenditoriale chiede oggi non solo la cancellazione della quota 100 in materia previdenziale ma anche la fine del decreto dignità per avere mano libera nel sostituire i tempi indeterminati con i contratti a tempo, gli appalti a basso costo con l’interinale. E siamo certi che un’eventuale mediazione con il blocco sociale del terzo settore e dei sindacati rappresentativi, soprattutto per scongiurare scioperi e conflittualità sociali, sarà al ribasso con larghe concessioni accordate agli imprenditori senza chiedere loro in cambio una revisione delle politiche costruite solo per ottimizzare i profitti e scaricare sullo Stato la socializzazione delle perdite (attraverso ammortizzatori sociali e crescenti aiuti fiscali).