Se fino a qualche settimana fa si poteva auspicare un cambiamento di rotta, oggi è sempre più chiaro che il capitalismo, con i suoi rapaci protagonisti, non ha nessuna intenzione di fare alcun passo indietro. Sconcerta che, dopo tutto il gran parlare mediatico della politica, lo Stato offra garanzie per l’accesso a finanziamenti bancari agevolati ad aziende, come la FCA/FIAT, che sottraggono risorse al paese delocalizzando investimenti, impianti, produzione e soprattutto sedi fiscali. Una grande rapina di risorse che dovrebbero essere destinate al pubblico.
I) L’Unione Europea: un polo imperialistico fondato sulle diseguaglianze strutturali tra Paesi
L’Unione Europea è un mostro giuridico-politico fondato su trattati Internazionali improntati all’iper-liberismo globalizzato, dominato dalla libertà selvaggia del mercato e della concorrenza produttiva, commerciale, finanziaria, affermatasi negli anni Ottanta, sviluppatasi tra continue crisi economico-finanziarie di fine secolo e rinnovatasi nonostante la recessione iniziata nel 2007-2008 che ha colpito i paesi del capitalismo reale. Il processo della creazione di un mercato unificato e di una moneta unica, con il varo dell’euro, si è pertanto fondato su criteri di contrazione della spesa pubblica e del pareggio di bilancio, imposti dalla Germania e dai Paesi del nord-europei con lo scopo di imporre condizioni che determinano uno squilibrio strutturale tra quell’area e i paesi mediterranei, il cui sistema è fragile, funestato da debolezze economico-sociali irrisolte, un tasso di corruzione ed evasione fiscale enorme (e sostanzialmente strutturale), ma soprattutto il cui processo di sviluppo capitalistico-industriale ha avuto un’altra traiettoria rispetto al resto dei paesi europei.
II) Strutture economico-sociali e politiche a confronto: la fragilità del capitalismo italiano
In Italia, ad esempio, il tasso di crescita verificatosi negli anni Sessanta è stato possibile - oltre che per i finanziamenti americani, di cui hanno usufruito anche altri stati - per il massiccio intervento dello Stato che ha consentito a grandi aziende del Novecento (come la FIAT) di mantenere un posto nel mercato, con la possibilità di coltivare ininterrottamente profitti: lo Stato ha garantito politicamente una legislazione sociale che ha imposto per decenni compressione salariale e diritti dei lavoratori limitati (almeno fino agli anni Settanta, per poi riassorbire un pezzo alla volta ogni conquista operaia e sociale, a partire dalla metà degli anni Ottanta), ha consentito agevolazioni fiscali e finanziarie per l’acquisto delle merci prodotte da aziende nostrane (un protezionismo a bassa intensità, ma efficace, che ha consentito l’accesso all’auto di milioni di persone), ha sviluppato un sistema economico-sociale e commerciale incentrato prevalentemente sul trasporto su gomma e sulla mobilità individuale o familiare piuttosto che collettiva, ha mantenuto (e sostanzialmente protetto) un rapporto schizofrenico tra una tassazione fiscale pesantissima per il lavoro dipendente (in generale, con in più l’aggravante che lavoratori e lavoratrici del comparto privato non hanno goduto neppure delle - pur limitate e in via di ridimensionamento - protezioni nella pubblica amministrazione) e una legislazione fiscale per le aziende a maglie larghissime che hanno permesso una massiccia elusione ed evasione fiscale, provocando una voragine nei conti pubblici, aggravata dalla riforma nel 1981 del Ministro del Tesoro Beniamino Andreatta (con l’allora Governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi) che sancì la fine del controllo del Tesoro sulla Banca d’Italia e provocò la lievitazione dei tassi di interesse sui titoli di Stato venduti sul mercato, anziché essere acquistati direttamente dalla Banca Centrale. Non che il sistema funzionasse meravigliosamente, visto che molti di quei titoli erano in mano alle grandi aziende nazionali (come la FIAT) che quindi finanziavano e controllavano il debito nazionale e avevano in cambio una tassazione leggera, ma è certo che affidare il debito di uno Stato (con cui non solo si pagano gli stipendi dei dipendenti pubblici, ma su cui si basa tutto il funzionamento della macchina amministrativa e burocratica, cioè il sistema che dovrebbe determinare la coesione economico-strutturale della collettività, offrendo universalmente servizi pubblici e sociali ai cittadini) al mercato (o ai “mercati”, come si dice con questa formulazione anodina intendendo “gli speculatori” economico-finanziari, sia nazionali che internazionali) significa, per un sistema come quello italiano che ho sommariamente descritto, mettere in svendita ogni forma di bene pubblico, innanzitutto i cosiddetti “beni comuni” (servizi, territori, ambiente, patrimonio edilizio, solo per fare alcuni esempi più evidenti).
III) Gli squilibri nell’Unione Europea: i rapporti neocoloniali tra Stati
Questa disparità strutturale (tra paesi dell’Unione Europea a impianto e vocazione più marcatamente liberoscambista, da una parte, e dall’altra quelli tradizionalmente con una struttura socio-economica maggiormente protetta dallo Stato, oggi in via di smantellamento) non è volutamente affrontata, se non per imporre le regole dettate da sistemi industrialmente e produttivamente più solidi, fondati su strati sociali della borghesia più strutturati: perciò, oltre alla proiezione neoimperialistica che avrebbe voluto svolgere su scala planetaria (obiettivo peraltro fallito: l’UE è rimasta un coacervo di paesi divisi tra nano-imperialismi -Francia, Germania- e sub-imperialismi -Italia- subalterni all’imperialismo atlantista statunitense), l’UE è di fatto una costruzione neocoloniale, vantaggiosa prevalentemente per alcuni paesi che hanno così un mercato protetto (unico, di fatto un mercato prioritario) in cui riversare la sovrapproduzione di merci e capitali, la Germania in primis.
IV) I paradisi fiscali legalizzati nell’UE: terre franche per la privatizzazione dei profitti
In questa situazione, sono allignate zone fiscalmente protette (paesi con sistemi fiscali “leggeri”, senza grande spesa pubblica, che attraggono capitali e non solo). Uno dei maggiori è il Lussemburgo, ma in questi giorni è entrata nel mirino l’Olanda, con le sue posizioni anti-solidali rispetto allo stanziamento di risorse massicce per sostenere quei paesi maggiormente colpiti e che devono essere sostenuti dall’UE per evitare il collasso, a cui è stata contestata la sua politica “concorrenzialmente sleale” sul piano fiscale: infatti, con livelli minimi di tassazione e la burocrazia ridotta al minimo, l’Olanda attrae capitali sul libero mercato finanziario a vantaggio dei suoi istituti bancari, ma anche aziende che trasferiscono la propria sede da altri paesi, non tanto per la produzione, quanto per i vantaggi fiscali. All’interno dell’UE, insomma, l’Olanda esercita una concorrenza fiscale spietata; questa politica spregiudicata, basata su un Welfare State di impronta liberal più che socialdemocratica, diretta ad una popolazione numericamente ristretta che gode di salvaguardie sociali notevoli, poggia sul presupposto originario di una struttura economico-commerciale ben organizzata e ramificata, che attrae ricchezza costantemente. Nonostante le politiche fiscali olandesi colpiscano anche la Germania (partner commerciale più importante dei Paesi Bassi con un fatturato di esportazione di quasi 80 mld di euro nel 2018), quest’ultima tollera il drenaggio fiscale (circa 20 mld annui) conseguente allo spostamento delle sedi fiscali di aziende tedesche in Olanda, per mantenere un rapporto commerciale comunque fortemente in attivo e una salda alleanza politica che consente di mantenere a suo favore i rapporti di forza tra gli Stati membri all’interno dell’Unione.
La Commissione Europea, che ultimamente ha iniziato ad analizzare le politiche fiscali dei paesi dell’UE, ha rilevato una concorrenza sleale da parte di alcuni stati, definiti come “fiscalmente aggressivi”, come Olanda, Cipro, Malta, Ungheria, Lussemburgo e Irlanda (a cui si aggiunge la Svizzera, formalmente fuori dall’UE, ma uno dei nodi di questo sistema). Questi paesi offrono agevolazioni burocratiche e fiscali a multinazionali per attrarre le sedi legali: una tale procedura nasconde una politica cripto-imperialista, di stampo liberista, che approfitta dello spazio comune del mercato europeo per saccheggiare innanzitutto i paesi vicini. Paesi solidi come la Germania e la Francia preferiscono chiudere un occhio, per mantenere il notevole livello di affari, mentre paesi come l’Italia, la Spagna, il Portogallo o la Grecia subiscono pesantissimi danni in termini economici, ma anche commerciali, da queste politiche fiscali sleali, proprie di un capitalismo putrescente che fa profitti, oltre alla speculazione finanziaria, alleggerendo il peso fiscale.
Rimettere in discussione i trattati europei per rovesciare i principi liberisti a fondamento dell’UE è un obiettivo necessario per aprire una nuova prospettiva storico-sociale.
V) La retorica del bandierone: la FIAT è italiana solo quando c’è da bussare cassa
I soldi, si sa, non puzzano: per ottenere un accesso al credito, a finanziamenti da parte dello Stato, agevolazioni fiscali o quant’altro qualunque azienda è disposta a tutto, o quasi: sicuramente, per ottenere aiuti, sostegno, tagli alle tasse, è disponibile a restituire in cambio solo briciole quando invece neppure quelle. Così dopo aver per decenni scaricato sul sistema italiano le perdite (cassa integrazione, tagli occupazionali, prepensionamenti, pensioni d’invalidità ecc.) la FIAT del poco compianto (su questo piano) Marchionne ha abbandonato il Belpaese per volarsene in Olanda e da lì avviare una serie di operazioni spregiudicate per allargare l’impianto industriale e trovare una collocazione sul mercato mondiale con Chrisler e (forse) PSA/Peugeot. In questo modo, l’ex FIAT ora FCA ha di fatto sottratto miliardi al fisco italiano, concorrendo alla distruzione dello Stato sociale (tra cui quello del Sistema Sanitario Nazionale pubblico) devastato da tagli imposti per inseguire un pareggio di bilancio impossibile in un libero mercato selvaggio. Tutto legale, per carità: a dimostrazione che la legge della classe dominante, dei padroni, è priva di qualunque giustizia sociale, di visione etica della società, come invece qualche anima bella del “capitalismo dolce”, compatibile o etico, vorrebbe presentare come realizzabile; il capitalismo, per sua natura, è predatore e selvaggio e gli unici argini (parziali e provvisori, senza la transizione a un sistema socialista, in cui la proprietà privata è collettivizzata) possibili sono conquistati dalle lotte delle classi lavoratrici, non da riforme o “concessioni” padronali.
VI) Unità nazionale per finanziare i profitti: Landini e Renzi sul carrozzone del multinazional
Si può immaginare qualsiasi convergenza, alleanza politica o accordo sindacale, ma che sulla richiesta di accesso al credito da parte di FCA/FIAT Italia, nell’attuale situazione, Landini (l’ex barricadero) assumesse la stessa posizione dell’avventuriero Renzi non sembrava verosimile. Non che la CGIL sia un sindacato che guida l’opposizione sociale, tantomeno anticapitalistico, nonostante le chiacchiere, ormai nel dimenticatoio, di qualche settimana fa su nuovi scenari e modelli di sviluppo in cui i profitti non siano più fondamentali: tuttavia, che Landini approvi “senza se e senza ma” l’accesso al credito bancario con interessi agevolati e la protezione statale da parte della ex FIAT suscita indignazione. Come è possibile “premiare” un’azienda che ha sottratto miliardi e miliardi alle casse dello Stato, gettato sulla strada decine di migliaia di lavoratori tagliando occupazione nei vari stabilimenti italiani, o chiudendoli per spostare le produzioni in paesi con manodopera più conveniente (l’Est Europa, la Polonia, il Brasile ecc.), e che adesso torna in Italia a raccogliere un altro contributo pubblico pur non essendo più formalmente italiana?
È incredibile la faccia tosta di questi signori: John Elkan, degno successore dell’Avvocato Gianni Agnelli e del suo predecessore fondatore Giovanni (peraltro colluso con il fascismo), si riaffaccia senza vergogna come uno squalo pronto nuovamente ad azzannare alla gola l’Italia per succhiarne il sangue, a partire da quello della classe operaia.
VII) Espropriare gli espropriatori, socializzare i profitti, non le perdite
La politica del “prendi la borsa e scappa” non è più sostenibile per un sistema capitalistico in profonda crisi strutturale: a fronte di questa situazione, più che fare il tifo politico per questo o quello, cercando di distinguere tra “opportunisti di sinistra” e “propagandisti di destra”, occorrerebbe dire chiaramente che se un ruolo deve avere lo Stato dovrebbe essere quello di espropriatore dei profitti.
I comunisti hanno qualcosa da dire su questa prospettiva, perché possono avanzare l’unica proposta che può farci uscire da una crisi di sistema, aggravata dalla pandemia, ed eliminare la socializzazione delle perdite e i crediti a fondo perduto per aziende antisociali come la FIAT: la nazionalizzazione delle fabbriche (soprattutto delle aziende trasmigrate all’estero per avere agevolazioni fiscali, che in questo modo hanno contribuito a distruggere il tessuto sociale nazionale), la collettivizzazione dei mezzi di produzione e finanziari e la pianificazione del sistema economico.