di Francesco Schettino
Sta per terminare anche il 2014, l’ennesimo anno che le autorità di ogni tipo ci avevano descritto come quello della ripresa, del cambiamento “del verso”, e invece – passati ormai ben sette lunghi anni dall’emersione della crisi del 2008 – ci si ritrova nuovamente a fare i conti con una disoccupazione sempre più galoppante, e una povertà che inizia ad annidarsi stabilmente nelle case di quella che una volta si definiva aristocrazia proletaria e che da qualche decennio ha assunto poi il nomignolo più chic – e molto più impreciso – di middle class, classe media. Questo lungo e pesantissimo settennato ha fiaccato le aspettative e spento le illusioni della classe lavoratrice che ha subìto, per intero, la crisi generalizzata del sistema produttivo mondiale basato sul capitale. Essa si è scoperta infatti incapace di reagire all’offensiva di classe naturalmente architettata dai proprietari delle condizioni di produzione.
Nel nostro paese il padronato sta portando avanti, coscientemente, contro la sguarnita classe subordinata un’offensiva pesante che oggi individua nel jobs act un punto di passaggio importante della lotta: l’assenza di una formazione e, dunque, di una coscienza – necessaria per opporvisi – sta risultando drammaticamente decisiva per le sorti dei lavoratori.
La mancanza di adeguate organizzazioni (partito, sindacato ecc.), investite dell’onere di impegnarsi nella lotta politica o in quella economica, non può essere considerata di per sé la ragione per il pesante arretramento dei lavoratori nella fase attuale. L’aver ceduto troppo terreno sul piano della lotta teorica è, invece, ciò che di fatto sta condannando l’intera classe ad una tortuosa, ma non impossibile, risalita: i frequenti innamoramenti verso teorie formulate da economisti – o sedicenti tali – facenti parte della cupola accademica – spesso e volentieri foraggiata da associazioni di industriali; l’aver adottato l’antimarxismo (e l’anticomunismo) come presunta bandiera di rinnovamento sono elementi che hanno radicalmente minato le basi del movimento dei lavoratori non solo in ambito italiano, ma anche in quello mondiale.
È dunque necessario ripartire da Marx, da Engels e da tutti quegli autori che hanno impostato i loro studi e le loro ricerche sul materialismo storico e dialettico senza voler ambiziosamente ed opportunisticamente emergere, autoproclamandosi come nuovi teorici della classe lavoratrice. Ripartire da loro significa riappropriarsi di una differente visione della storia e dunque dell’economia: implica il tentativo di comprendere il funzionamento del modo di produzione basato sul capitale e sulle sue evoluzioni avvenute nell’ultimo secolo e mezzo; significa porre nuovamente, al centro dell’analisi economica lo sfruttamento come categoria scientifica – e non già puramente moralistica – che individui nel semplice rapporto lavorativo (a qualsiasi livello) l’estorsione da parte della classe proprietaria ai danni di quella subordinata di una parte del valore prodotto; significa avere coscienza del fatto che le categorie di salario e profitto sono, per loro natura, divergenti e che pertanto gli interessi delle due classi non potranno tecnicamente mai convergere e che pertanto ipotesi neocorporative possono solo favorire chi già domina; significa che la radice economica del profitto, e dunque dell’accumulazione capitalistica, è il lavoro umano e lo sfruttamento della forza-lavoro è lo strumento necessario a realizzarlo.