Bandiere a mezz'asta nelle sedi Confindustriali, cordoglio umano condivisibile, se non fosse che la preoccupazione sembra maggiormente rivolta al timore di disattendere l'annunciata distribuzione degli utili tra gli azionisti di molte imprese, che da anni puntano sulle speculazioni finanziarie e borsistiche. Del resto, negli ultimi 30 anni, gli utili agli azionisti sono assai maggiori di quelli riscontrati durante i precedenti 100 anni di capitalismo industriale, nonostante la stagnazione economica e grazie al dimagrimento delle buste paga, delle pensioni e dei servizi sociali.
Sarà il nostro odio di classe a diffidare dei buoni intenti padronali ma in queste settimane siamo stati inondati di appelli del mondo politico e imprenditoriale per la riapertura di aziende e produzioni, per salvare l'export italiano ecc. “Bisogna riaprire gradualmente a partire dal Sud”, dice la ministra Bellanova. Nel contempo non si vuole regolarizzare la forza-lavoro costituita da migranti impiegati in agricoltura, anziché seguire l'esempio del Portogallo, per intenderci.
Alla vigilia di Pasqua si è tenuta per via telematica un’assemblea autoconvocata con tanti delegati\e sindacali, studiosi del movimento operaio senza distinzione di sigla sindacale; un intento comune di comprendere la realtà e di affrontare insieme la fase due.
Oggi è inesistente una lettura comune, semplice e non ideologica, di quanto sta accadendo nel capitalismo in fase di pandemia. Senza analisi condivise sarà ancora più ardua la costruzione di obiettivi e pratiche comuni.
Non serve un intellettuale che dia la linea (magari con qualche diretta Fb). Abbiamo bisogno di altro, di leggere la realtà per operarvi al suo interno e in termini conflittuali e di rottura.
Ben vengano i tentativi di ricomposizione reale che non siano tuttavia l’ennesima iniziativa per portare acqua alle singole organizzazioni o per inseguire la retorica dell'unità quando poi materialmente si lavora alla divisione, tutto ciò vale per ogni ambito: sindacale, sociale, culturale e politico.
Per invertire la tendenza non serve navigare a vista, cambiando pelle come i camaleonti o posizioni\analisi (come facevano molti parlamentari dell'Italia post unitaria) oppure indirizzare il proprio operato verso l’offerta di servigi al vincente di turno.
Molti delegati\e raccontano di essere stati letteralmente abbandonati. Basti ricordare i lavoratori licenziati con il pretesto della violazione dei codici etici e di comportamento aziendali, quando invece hanno solo denunciato l'assenza di Dpi (Dispositivi di Protezione Indiviuduale) in azienda e il rischio concreto di ammalarsi e morire. E quei delegati confermano di non avere ricevuto il dovuto supporto dalle loro stesse organizzazioni sindacali.
I vari uffici legali sindacali e politici oggi dovrebbero offrire un contributo effettivo alla difesa delle avanguardie. Sarebbe sufficiente costruire una rete di supporto valida erga omnes.
Prendiamo ad esempio la esclusione dal pagamento degli assegni familiari ai lavoratori e alle lavoratrici beneficiari del Fis: il Ministro del Lavoro ha annunciato che cambieranno rotta con il decreto di aprile. È questo un buon risultato ottenuto dalle spinte di molti, dai sindacati ai Consulenti del Lavoro, dai legali alla forza-lavoro. Non si capisce del resto dove sia la ratio per includere il pagamento degli assegni a quanti stanno in cassa integrazione escludendo chi beneficia del trattamento di integrazione salariale. Di questo abbiamo già parlato a proposito degli Enti bilaterali criticandone l'operato e la finalità senza lesinare critiche a Cgil, Cisl e Uil.
Ma l'occasione dovrebbe indurre ad aprire una riflessione sulla inefficacia degli attuali ammortizzatori sociali che poi sono gli stessi ridotti a brandelli dal Governo Renzi. Andrebbero invece ripensati per una platea decisamente più ampia e in tempi dilatati rispetto a quelli attuali; dovremmo riprendere il discorso dei soldi a fondo perduto elargiti alle imprese per salvaguardare la pace sociale, quelle imprese che nel corso degli anni hanno fatto ricorso agli ammortizzatori e ai soldi statali per poi dividersi, a fine anno, utili a più cifre tra gli azionisti.
Sempre sugli ammortizzatori sociali, molto altro abbiamo da dire e da fare. Anche la discussione che imperversa sul reddito di quarantena risente dei pregiudizi ideologici del non lavoro, il che poi non aiuta a costruire insieme una proposta comune che sappia tradursi in iniziativa politica, sociale, sindacale e culturale. Naturalmente, nell’emergenza e nell’impossibilità per molti di lavorare, ben vengano strumenti di sostegno a questi lavoratori e alle loro famiglie, purché provvisori e congegnati correttamente. Ma non può essere questa la strada da percorrere una volta usciti dall’emergenza. Servirà invece che le risorse vengano prioritariamente utilizzate per dare lavoro a tutti.
Pensiamo a quanto è avvenuto con il reddito di cittadinanza. Ogni critica veniva bollata di vetero operaismo, quando invece abbiamo perso l'occasione di proporre dei lavori socialmente utili con copertura previdenziale per realizzare opere indispensabili per la cittadinanza e il settore pubblico. Anche in questi ambiti il vero problema è sempre lo stesso, essere stati incapaci di rompere la gabbia e la vulgata liberista per contrastarla nel migliore dei casi solo in termini ideologici per pochi lettori.
Forse siamo degli inguaribili pessimisti ma come ha insegnato Saramago il tempo è il compagno che sta giocando di fronte a noi e ha in mano tutte le carte del mazzo, a noi ci tocca inventarci le briscole con la vita.
Tra qualche mese si scatenerà la guerra tra poveri con i settori più a rischio a rivendicare maggiore salario, giudicando chi si è fermato o è finito a casa con gli ammortizzatori sociali una sorta di privilegiato. Il rischio che la pandemia crei ulteriori e insanabili discussioni in seno alla forza-lavoro è tutt'altro che remoto. Da questa crisi possiamo uscire con due opzioni, una reazionaria che rafforzerebbe la dittatura del capitale, l’altra con il ritorno al conflitto da parte delle classi sociali meno abbienti.
Proviamo allora a sviluppare pochi ragionamenti partendo dall'esistente, ad esempio dai buoni alimentari, uno strumento utile ai Sindaci la cui erogazione è stata decisa sovente con criteri discutibili. Alcuni Enti locali di centro destra hanno inserito criteri a favore dei lavoratori autonomi, altri invece hanno fatto prevalere il rapporto tra entrate in famiglia e il numero dei componenti per strizzare l'occhio alla Chiesa cattolica e alle famiglie numerose.
L'argomento è stato sottovalutato da tanti, eppure i buoni alimentari sarebbero utili per comprendere quali siano i soggetti sociali più bisognosi, entrare nel merito di cosa sia oggi la povertà per individuare gli interventi necessari per contrastarla. Chi sono allora i nuovi poveri e dove si trovano? Magari molto più vicini a noi di quanto si supponga. Dovrebbe essere un percorso comune di studio per quanti vogliono cambiare lo stato delle cose presenti.
I tempi del contagio avrebbero dovuto essere l'occasione propizia per ripensare anche il lavoro pubblico. Al contrario i sindacati si sono solo occupati di accordare lo smart working con una visione angusta del pubblico; infatti le amministrazioni locali non hanno ripensato le modalità di esecuzione dei servizi favorendo progetti e servizi nuovi, in smart working e non, per esempio recuperando le mense scolastiche come supporto reale per la consegna di pasti caldo a domicilio.
È mancata una iniziativa comune nelle aziende e nelle fabbriche aperte anche nei momenti più drammatici del contagio. Gli scioperi sono stati locali e spontanei, per lo più ove non corre l'obbligo dei servizi minimi essenziali. I sindacati hanno coperto gli scioperi nel timore di perdere consensi più che per convinzione.
Una piattaforma comune e trasversale, unità minima di intenti è quanto manca. Perfino sulla regolarizzazione dei migranti in agricoltura non c'è stata l'iniziativa necessaria; eppure l'esempio del Portogallo dovrebbe indurre ad alcune riflessioni.
E infine riflettiamo sulle previste modalità di gestire la fase due del contagio, la cosiddetta ricostruzione, che vedrà a capo della task force un manager. Avrà questi un’idea di come assicurare i diritti inalienabili dei lavoratori e delle lavoratrici? O, abituato a servire il capitale e la sua brama di profitto, metterà in secondo ordine questi aspetti? Qualche idea di come affrontare il nemico di classe dovremmo pur averla, senza far finta che nulla sia cambiato da fine 2019.
Tra poche settimane ci ritroveremo con aziende e realtà aperte, e andare in ordine sparso senza neppure alcune idee comuni non sarà di aiuto a quanto resta delle aree sindacali, sociali e politiche conflittuali. Se cogliamo noi, dalla periferia, i limiti e le contraddizioni, immaginiamoci quale potrà essere la reazione delle classi subalterne schiacciate da 30 anni di ubriacatura liberista, incapaci da tempo a ragionare e ad agire collettivamente.
Riannodare i fili di un conflitto e chiarirci modalità e obiettivi diventa quindi indispensabile. L’assemblea autoconvocata è stato un primo momento per conoscerci e per esprimere le prime valutazioni. Ma opportunamente, congedandosi, i lavoratori hanno concordato una riconvocazione finalizzata alla costruzione di una piattaforma comune.