Con notevole sorpresa di una parte consistente della popolazione scolastica, il 9 gennaio il governo Draghi, attraverso una conferenza stampa dello stesso presidente del Consiglio, annunciava, di fronte a una situazione pandemica di oltre 200mila positivi e circa 250 decessi giornalieri, la riapertura di tutte le scuole di ogni ordine e grado.
Di fronte alle generali critiche e perplessità, manifestate in primo luogo dagli stessi dirigenti scolastici che proponevano uno slittamento delle riaperture a fine gennaio o, perlomeno, un passaggio temporaneo alla didattica a distanza, il presidente del Consiglio rispondeva in conferenza stampa con estrema fermezza utilizzando le seguenti parole: “non ha senso chiudere la suola se non si chiude tutto il resto e non ha senso chiudere tutto ora perché non ci sono i motivi per farlo”.
In queste poche parole si può intravedere l’ordine delle priorità su cui si muove la presidenza del Consiglio, nonché il ricatto politico che, neanche troppo subdolamente, il governo impone a insegnanti, studenti e famiglie in questa fase pandemica. Il paradigma di fondo su cui è orientata l’azione della classe dirigente è la produzione di merci e servizi finalizzata al profitto immediato; accettando questo presupposto non è neanche lontanamente pensabile un nuovo lockdown né chiusure parziali delle attività economiche in determinate regioni. Se nessuna chiusura è possibile, le fabbriche, i negozi, i ristoranti e le attività economiche devono rimanere aperte, i lavoratori, anche se in contatto con positivi devono andare a lavorare, le misure di prevenzione (quarantene, tamponi etc.) possono essere contenute, quindi le scuole – a partire da quelle elementari che rappresentano un problema centrale per i figli dei lavoratori – non possono chiudere, né tantomeno è possibile concepire la didattica a distanza, in particolar modo per gli alunni delle scuole elementari.
Il governo, in questo caso, tenta di utilizzare subdolamente una tesi pedagogica, in parte anche valida, sulla didattica a distanza – che non favorirebbe l’assimilazione dei contenuti nell’apprendimento – per giustificare, di fatto, una priorità politica che vede l’istruzione in uno stato di totale subalternità rispetto alle esigenze del Pil e del profitto a breve termine. Prescindendo dal fatto che se il governo avesse voluto veramente dare priorità alla didattica in presenza avrebbe dovuto in due anni di pandemia risolvere i problemi strutturali della sicurezza nelle scuole – riduzione alunni per classe, tracciamento, areazione negli istituti, investimenti in trasporti pubblici – i fatti hanno comunque la testa dura. Il covid, diffondendosi in Italia e in tutti i paesi europei, con una rapidità impressionante, crea, di fatto, un’insostenibilità e una difficoltà di tenuta dell’intero sistema scolastico. Diffondendosi nella società il virus entra nelle scuole dove si alimenta il contagio. I bambini delle elementari, poi, non avendo alcuna copertura vaccinale, diventano a loro volta veicoli di diffusione del virus e, anche prescindendo dai morti per covid e dall’aumento delle terapie intensive occupate, aumentando i casi si moltiplicano le quarantene, le scuole chiuse, gli alunni in Dad, nonché il senso complessivo di insicurezza e precarietà che ogni giorno si respira in tutte le scuole.
Di fronte a questa decisione la reazione del personale della scuola può essere descritta come un misto tra indignazione, incredulità e paura, mentre gli studenti delle scuole superiori in molti casi hanno deciso, insieme alle loro famiglie di tutelarsi autonomamente non frequentando, in alcuni casi, le aule scolastiche, dato il numero crescente di casi positivi in tutti gli istituti. Per quanto riguarda, invece, le scuole elementari, oltre all’elevato rischio di essere contagiati per bambini e maestre, i lavoratori, in quanto genitori degli alunni, si trovano sempre in uno stato di precarietà. Non essendo vaccinati, almeno in buona parte, i bambini rappresentano un importante veicolo di diffusione del virus, d’altro canto il virus stesso potrebbe arrivare dalle famiglie, dai luoghi di lavoro e dai trasporti pubblici, e poi diffondersi nelle scuole.
Dato questo clima di precarietà in una scuola che non riesce a svolgere al meglio le sue funzioni, da più parti si è invocato lo slittamento delle riaperture a fine gennaio; una richiesta di buon senso che, per lo meno, tentava di arginare la marea dilagante che sta attraversando la scuola, e, con essa, l’intera società. Da più parti, poi, si richiede, almeno per insegnanti e maestre, l’utilizzo gratuito delle mascherine Ffp2 che potrebbe, perlomeno, rappresentare uno strumento di protezione per il personale della scuola rispetto alla diffusione del virus. La sordità del governo anche rispetto a queste richieste minime è indice dell’indifferenza totale dimostrata dalla classe dirigente rispetto alle politiche di messa in sicurezza delle scuole. È proprio quest’indifferenza, che si manifesta anche rispetto alla mancata riduzione degli alunni per classe, alla totale assenza di una politica di tracciamento gratuita, nonché alla sottovalutazione dell’incremento dei trasporti pubblici, il dato palese che dimostra l’inconsistenza, la strumentalità e l’ipocrisia delle parole d’ordine del governo sull’importanza della riapertura delle scuole. Lo sproloquiare della classe dirigente sull’importanza pedagogica della didattica in presenza è poi contraddetto dai fatti perché in moltissimi istituti assistiamo, di fatto, a una didattica mista poiché l’elevatissimo numero di positivi determina un incremento delle quarantene che vengono gestite con una situazione ibrida di didattica in presenza e a distanza il cui costo – compreso quello della gestione delle quarantene – viene interamente scaricato sui docenti.
Il problema principale in questa situazione è il che fare. Tutti, compresi i dirigenti scolastici, si rendono conto che la situazione, sia dal punto di vista didattico e organizzativo che da quello della sicurezza è diventata insostenibile, tuttavia i rapporti di forza tra capitale e lavoro, in questa fase storica, sono completamente sbilanciati a vantaggio del primo e il capitale rivendica ad alta voce – in particolare il settore manifatturiero legato alle esportazioni – la crescita del Pil come unico e inderogabile principio a cui deve sottostare l’intera società. Se chiudono molte scuole elementari perché mancano le maestre e i lavoratori saranno costretti ad arrangiarsi per seguire i loro figli è un problema dei singoli lavoratori che non possono condividere con altri. L’importante è avere una massa di lavoratori – anche positivizzata – da utilizzare in ogni momento, sperando che il numero di morti e di ricoverati nelle terapie intensive non divenga così alto da far collassare completamente il sistema sanitario.
In più fasi dell’evoluzione epidemiologica e nella fase attuale, se il livello di consapevolezza dei lavoratori fosse superiore, il sindacato avrebbe alzato a gran voce la parola d’ordine di un lockdown generalizzato che si accompagnerebbe alla chiusura temporanea delle scuole, alla loro messa in sicurezza e a un efficace e capillare politica di tracciamento (oltre alla vaccinazione obbligatoria, naturalmente); tutto ciò nella consapevolezza che, oltre all’elevatissimo numero di morti, sia la scuola che una parte consistente delle attività produttive operano a singhiozzo, che da un punto di vista sociale, personale e psicologico è difficilmente sostenibile un clima di precarietà e adattamento giornaliero alle mutazioni come quello attuale. L’egemonia dell’alta borghesia, tuttavia, connessa alle molteplici leve che possiede sia nell’informazione che nell’organizzazione politica della produzione, determina nelle classi subalterne una parziale identificazione di queste con la prima. L’interruzione parziale delle attività produttive non essenziali appare agli occhi della stragrande maggioranza dei cittadini come impossibile, irrealizzabile e, nonostante i lavoratori e il ceto medio vivano con profonda sofferenza le politiche d’immunità di gregge portate avanti dalle classi dominanti di tutta Europa, hanno difficoltà a contrastarle, fanno fatica a concepire l’idea che lo Stato possa imporre ai padroni un’efficace politica di messa in sicurezza della popolazione per garantire un minimo di razionalità e sicurezza nelle attività lavorative.
Se, tuttavia, appare estremamente impopolare – almeno in questa fase – richiedere un lockdown generalizzato accompagnato a una crescente funzione degli investimenti pubblici per la messa in sicurezza, non bisogna sottovalutare la contraddizione crescente tra le esigenze del profitto di una parte ristrettissima di oligarchi e i bisogni reali – di sicurezza e lavorativi – della crescente maggioranza dei lavoratori, degli studenti e di un pezzo consistente della cittadinanza. La distorsione tra la realtà vissuta da genitori, studenti e insegnanti da una parte e le parole del governo dall’altra è il segno palese di una contraddizione reale all’interno della società, una contraddizione che, per ora è solamente vissuta, sentita, riconosciuta epidermicamente, ma che fa difficoltà a esprimersi, a tradursi in proposta concreta, in obiettivo fattivamente e universalmente praticabile, anche per la frammentazione e l’apparente contraddittorietà dei bisogni dei ceti subalterni. In questa fase la lotta per la sicurezza nei posti di lavoro e nelle scuole non riesce ancora a trovare una voce unica, si parcellizza nei molteplici bisogni delle singole unità produttive o delle singole scuole. Non si possono tralasciare queste singole battaglie poiché è qui che si produce concretamente – in una fase arretrata come la nostra – il conflitto reale, ma non si può neanche perdere il punto di vista generale della critica al meccanismo complessivo del funzionamento della produzione e riproduzione della vita umana negli Stati occidentali. Se non si tiene a mente con estrema attenzione questo piano si rischia d’incorrere in una guerra tra poveri innescata ad hoc dalla classe dominante per dividere i lavoratori su questioni superficiali e immediate – come è stata la polemica tra didattica a distanza o didattica in presenza – che nascondono le enormi responsabilità della classe dirigente nella gestione complessiva della società, sia in generale che nello specifico di questa fase pandemica.