XX Congresso del Partito Comunista Cinese

Socialismo dai caratteri cinesi e ruolo della Cina nel quadro internazionale. Sintesi dell'intervento conclusivo di Fosco Giannini, direttore della rivista “Cumpanis”, al convegno di sabato 26 novembre 2022 presso la sala della Cooperativa Aurora di Milano sul XX Congresso del PC Cinese.


XX Congresso del Partito Comunista Cinese

Si è svolto a Pechino, dal 16 al 22 ottobre 2022, il XX Congresso del Partito Comunista Cinese, un Congresso “di grande importanza sia per la Cina ed il suo popolo che per la stessa dinamica internazionale”, come ha tenuto ad affermare in modo “understatement” ma con nettezza politica lo stesso compagno Zou Janjun, consigliere dell’Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese, in un proficuo incontro tenutosi lo scorso 18 novembre con una delegazione di “Cumpanis”.

La Risoluzione Finale del XX Congresso, approvata il 22 ottobre, mette a fuoco i 5 punti fondamentali scaturiti dai lavori congressuali:

- il rilancio del “socialismo dai caratteri cinesi”, della “Belt on Road” e dell’impegno e della lotta, da parte del governo cinese e del Partito Comunista Cinese, per la pace attraverso la cooperazione e la solidarietà internazionale, ciò in un tutt’uno dialettico e armonico, in cui tutte le parti si tengono l’una con l’altra;

-la presa d’atto, peraltro, della nuova tensione internazionale prodotta dall’aggressività imperialista a guida USA e NATO scatenata sull’intero fronte mondiale e dalla conseguente e oggettiva esigenza di rafforzare l’intera struttura militare cinese, in un quadro generale che vede le continue provocazioni USA sulla “questione Taiwan” (Taiwan che il XX Congresso del PC Cinese ribadisce essere parte storica e inalienabile della Cina) come un segno, tra gli altri, della pulsione di guerra degli USA;

- il rafforzamento del ruolo del Partito Comunista Cinese come partito d’avanguardia e di popolo, come guida del Paese e alla testa della lotta di classe che gli stessi, necessitati, elementi “neocapitalisti” immessi nella dinamica interna del “socialismo dai caratteri cinesi” – volti allo sviluppo della forze produttive e dell’intero sviluppo cinese – possono riaprire;

- il rafforzamento del partito e dello Stato attraverso un poderoso, vasto e capillare “ringiovanimento” generale delle strutture dell’intero potere rivoluzionario – partitico e statuale –, funzionale all’innalzamento della qualità del potere e della direzione generale del “socialismo dai caratteri cinesi”, un progetto di ringiovanimento e innalzamento della qualità politica, intellettuale e morale del quadro dirigente complessivo che molto ricorda i temi dell’ultimo saggio di Lenin, “meglio meno ma meglio”;

- il rafforzamento della, decisiva, unità Popolo-Stato-Partito Comunista.

Naturalmente, la questione centrale affrontata e rilanciata al Congresso è stata quella relativa al “socialismo dai caratteri cinesi”. Questione dirimente non solo per la Cina, ma per l’ormai densissimo bagaglio politico-teorico che tale questione reca in sé, di grande importanza per l’intero movimento comunista mondiale.

Per mettere a fuoco tale questione, per valutarne il peso storico specifico, per valutare gli effetti oggettivi che sono derivati dal “socialismo dai caratteri cinesi” e dalle sue grandi vittorie conseguite sul campo, in relazione al titanico sviluppo economico, e di conseguenza sociale e politico cinese, occorre necessariamente ripercorrere l’ultima fase storica, quella che va dall’autoscioglimento dell’URSS sino ai nostri giorni.

Inziando da ciò: il 25 dicembre del 1991, alle ore 18.00, Gorbaciov si dimette da presidente dell’Unione Sovietica, trasferendo i poteri (attraverso una scelta che si sarebbe ben presto rivelata tanto nefasta quanto drammatica per tanta parte dell’umanità, non solo per il popolo sovietico) a Boris El’cin. Alle ore 18.35 dello stesso giorno la gloriosa bandiera sovietica viene lentamente e per sempre ammainata dal Cremlino, sostituita dal tricolore russo. Il giorno dopo, 26 dicembre, il Soviet Supremo scioglie formalmente, dissolvendola, l’Unione Sovietica. Questi due giorni – 25 e 26 dicembre 1991 – sono giorni che sconvolgono il mondo e rappresentano uno spartiacque storico nettissimo: c’è una Storia precedente a questi due giorni e c’è una Storia a essi successiva.

Con la scomparsa dell’URSS si liberano immediatamente gli spiriti animali dell’imperialismo e del capitalismo mondiale. Il nuovo e intero mondo viene da essi percepito come un totale e smisurato mercato da conquistare, con le buone o con le cattive, con la penetrazione economica o con la guerra. La stessa concezione liberale, idealistica e antidialettica de “la fine della storia”, già messa a fuoco da studiosi del campo conservatore, come Fukuyama, viene eletta a categoria assoluta e chiave di lettura della fase presente e del divenire.

La caduta dell’URSS e la “percezione”, da parte del fronte capitalista mondiale, che l’intero pianeta si sia finalmente trasformato in un immenso “suk” da conquistare, è anche alla base dell’improvvisa accelerazione della costruzione dell’UE. Non può sfuggire il fatto che il Trattato di Maastricht, vera “bibbia” dell’iperliberismo dell’Ue e base ideologica della costruzione del suo imperialismo in progress, sia firmato nei Paesi Bassi il 2 febbraio del 1992, a poche settimane dallo scioglimento ufficiale dell’URSS.

Su che basi si accelera il processo di costruzione dell’UE? L’illusione ottica di “fine della storia” e della trasformazione del pianeta in uno sterminato “suk” spinge il grande capitale transnazionale europeo a rendersi protagonista della conquista dei mercati mondiali, ad assumere con ben più consapevolezza e determinazione di prima il ruolo di “grande concorrente” nella lotta interimperialista nella conquista dei mercati planetari.

Ma per trasformarsi in un tale e nuovo, ben più forte, concorrente occorre che il grande capitale transnazionale europeo giunga sia a una nuova e più alta accumulazione capitalistica sia, nel progetto di conquista dei mercati a danno degli altri poli imperialisti, ad abbassare il costo delle proprie merci.

Come si giunge a tali obiettivi? Attraverso l’ormai classico progetto “schumpeteriano” liberista della “distruzione creativa”, che assieme ai quattro tipi di innovazione alla Schumpeter (innovazioni incrementate, radicali, di sistema tecnologico e di paradigma tecnico ed economico) porti a una nuova accumulazione del capitale funzionale agli investimenti e all’esportazione di merci senza distribuire il profitto nel lavoro.

La “distruzione creativa” e le quattro innovazioni “schumpeteriane” partono dal Trattato di Maastricht per giungere al più tradizionale metodo capitalista volto alla nuova accumulazione e alla riduzione del costo delle merci: abbattendo salari, diritti e stato sociale.

Ma come può perseguire, il grande capitale transnazionale europeo, un tale obiettivo allargandolo e imponendolo su scala continentale? Attraverso la costruzione di un potere sovranazionale guidato dallo stesso capitale transnazionale: l’UE, un nuovo soggetto istituzionale, non per niente tanto svuotato di poteri reali quanto costruito come nuova figura storica mitologica, che dissemini violentemente, su scala continentale, il programma iperliberista necessario al grande capitale transnazionale europeo nella sua ricerca di costituirsi quale nuovo polo in lotta nella concorrenza interimperialista per i mercati mondiali.

Con la sconfitta dell’URSS si afferma dunque, da parte dell’euforico fronte imperialista e capitalista mondiale, che “la storia è conclusa” e “il socialismo si mostra ai popoli per quello che è: un’illusione irrealizzabile”; la scomparsa dell’Unione Sovietica “ratifica” formalmente, anche sul piano filosofico (per il fronte imperialista e per il pensiero borghese) che “il capitalismo è natura, eterno e immodificabile”.

In questa stessa fase temporale nella Repubblica Popolare Cinese è in atto un duro scontro tra la corrente “riformista” del Partito Comunista Cinese, guidata da Hu Yaobang e la maggioranza del partito, guidato da Deng Xiaoping. Hu Yaobang ha messo in moto un movimento (“doppio cento”) che si richiama (inopinatamente) a quello dei “cento fiori” del 1956, che tende a mobilitare di nuovo quel movimento, che chiede una maggiore separazione tra partito e Stato ma che, nella stessa dinamica politica, sociale e ideologica messa in campo nella battaglia contro il partito, sfocia nella sfera politico-culturale liberista, nella negazione dei prodromi del progetto “denghista” dell’“economia socialista di mercato”, finendo per inclinare in senso antisocialista e filoamericano. Una doppia inclinazione che porta il movimento “doppio cento” a cercare apertamente, nel 1989, il sostegno di Gorbaciov, già perdutosi, in questa fase, nel caos distruttivo dell’Unione Sovietica e dell’intero campo socialista e dunque osannato dai “doppiocentisti” durante la sua visita in Cina; sorretto, il movimento “doppiocentista”, soprattutto da una parte del movimento studentesco di Pechino, sfociato e culminato – tra il 16 e il 17 maggio 1989, in piazza Tienanmen – nella richiesta di una democrazia borghese di stampo nordamericano, che se conquistata avrebbe decretato la morte del “socialismo dai caratteri cinesi” ancora in evoluzione. Come avrebbe fatto mancare (in relazione a ciò che lo sviluppo pieno del progetto “denghista” avrebbe, nei decenni successivi, positivamente rappresentato sia per il popolo cinese che per i popoli in via di liberazione nel mondo) il pilastro fondamentale per la ricostruzione di quel fronte mondiale antimperialista che invece, in poco più di un quindicennio, si sarebbe ripresentato sulle scene internazionali.

Lo scontro tra il movimento di Hu Yaobang e la sua degenerazione liberale e la linea di Deng Xiaoping è fortunatamente vinto da quest’ultimo e dalla maggioranza del Partito Comunista Cinese.

Con la sconfitta del movimento “doppio cento” e la sconfitta di Piazza Tienanmen, la svolta politica ed economica cinese diretta a un’“economia socialista di mercato” s’invola. Prima con Deng, poi con Jang Zemin, Hu Jintao e Xi Jinping alla guida del Partito Comunista Cinese, lo sviluppo economico porta la Cinada un’arretratezza delle forze produttive ancora segnata, alla fine dell’era maoista, persino da alcuni caratteri feudali, specie nel lavoro dei campi, nella produzione agricola, ma non solo – a conseguire la posizione di seconda più grande economia del mondo, contribuendo per più del 30% alla crescita economica globale.

Gli 800 milioni di uomini e donne cinesi che nella nuova fase di sviluppo economico, sono tratti fuori dalla miseria e dalla fame, dicono solo una parte della grande crescita cinese, che cambia positivamente il mondo mutandone i rapporti di forza tra poli e Stati imperialisti e poli e Stati dal carattere socialista, antimperialista e in via di liberazione anticolonialista. Uno sviluppo, quello cinese, che, incredibilmente, prende corpo in un contesto terribilmente ostile per ogni esperienza e progetto socialista e che la dice lunga sulla lungimiranza, sul senso rivoluzionario, sulla determinazione e sullo sguardo lungo dei gruppi dirigenti del Partito Comunista Cinese; un contesto segnato dalla controrivoluzione “gorbacioviana” e dalla conseguente scomparsa dell’URSS e del campo socialista; dalla scomparsa del Comecon (l’area di scambio mercantile socialista); dalla nuova aggressività economica e militare imperialista e dal fronte interno guidato da Hu Yaobang e da piazza Tienanmen, un fronte ben visto dagli USA e dall’occidente capitalistico e obiettivamente diretto a destabilizzare il socialismo e il Partito Comunista Cinese.

A posteriori, aiutati dallo stato presente delle cose, è facile dirlo: ma se il Partito Comunista Cinese non avesse scelto e intrapreso la via del pieno sviluppo delle forze produttive, il coraggioso lancio di quel progetto autonomo, indipendente dai poli imperialisti e capitalisti mondiali e follemente grande chiamato “economia socialista di mercato” e avesse invece mutuato le scelte “gorbacioviane”, la Cina (invece di dotarsi di una propria, possente, autonomia) sarebbe stata, con ogni probabilità, preda, nella fase mondiale iperliberista successiva alla caduta dell’URSS, delle forze imperialiste; sarebbe stata penetrata da queste forze e avrebbe corso il forte rischio di una propria polverizzazione interna, di una propria implosione, a partire dall’immediata autonomia del Tibet, possibile primo mattone a cedere di un’intera struttura.

La critica, anche da “sinistra”, dello sviluppo delle forze produttive cinesi, deve indurci a una breve riflessione e a una risposta a questa critica: il pieno sviluppo delle forze produttive cinesi non ha nulla ha che fare, come persino alcuni intellettuali marxisti odierni credono o fingono di credere, con la categoria del produttivismo “sansimoniano”, produrre merci per produrre merci, produrre merci per il profitto, poiché lo sviluppo pieno delle forze produttive che ha segnato e segna il “socialismo dai caratteri cinesi” è stato totalmente necessitato dalla mancanza dell’accumulazione capitalista originaria nella Rivoluzione cinese, ha permesso lo sviluppo socialista cinese, ha permesso alla Cina socialista di offrirsi quale cardine del nuovo fronte antimperialista mondiale e si è rivelato essenziale, nel momento alto del suo successo, per il passaggio dalla produzione di merci di massa a una produzione di merci di più alto livello tecnologico e dettata da una nuova “ratio“ socialista, imperniata, per esempio, in un nuovo tipo di sviluppo ecocompatibile, categoria che ha segnato di sésia il XIX Congresso del PC Cinese che il suo ultimo e XX Congresso, di cui stiamo discutendo.

Oggi possiamo più agevolmente affermare, alla luce dei fatti compiuti, che le vittorie “denghiste” su piazza Tienanmen e sul movimento di Hu Yaobang (con il conseguente pieno avvio di quello che sarebbe stato il più grande sviluppo economico e sociale della storia dell’umanità, lo sviluppo cinese attraverso “l’economia socialista di mercato”) si sarebbero offerte quali decisive basi materiali per giungere – da lì a pochi anni e in una fase storica così difficile per il movimento comunista, rivoluzionario e operaio mondiale da consentire alle forze imperialiste di credere davvero nella “fine della storia” – alla costituzione di un fronte antimperialista, e comunque libero dall’egemonia imperialista, in grado di cambiare i rapporti di forza mondiali a sfavore degli USA e delle altre potenze imperialiste.

Parliamo dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa) che a soli 18 anni (un lampo, nella storia!) dalla caduta dell’URSS si uniscono – tra il 2009 e il 2010 – al fine di sviluppare una politica non subordinata alle forze imperialiste e invece solidale con i popoli e gli Stati in via di liberazione.

Ed è del tutto evidente come l’immenso sviluppo economico (e dunque politico e geopolitico) cinese sia il massimo collante di questa unione, di questo nuovo fronte tendente a “spuntare le unghie all’imperialismo”.

Il tempo che ci separa dal 26 dicembre 1991 (autoscioglimento dell’URSS) a oggi possiamo dividerlo – seppur rozzamente, ma per far “ordine” nel quadro internazionale – in tre grandi fasi:

- la prima, quella segnata dall’euforia imperialista successiva alla caduta dell’URSS e del campo socialista;

- la seconda, quella delle grandi lotte a carattere antimperialista e socialista che si alzano (raggelando il fronte che aveva “deciso” la “fine della storia”) in tutta la loro evidenza in America Latina, che si allargano in Africa a partire dalla resistenza della rivoluzione sudafricana guidata dal Partito Comunista del Sudafrica, che prendono forme antimperialiste diverse nella Russia di Putin, in India, nel Nepal, nel Laos, che si consolidano in Vietnam e in altre aree dell’Asia. Tutte forme socialiste e antimperialiste che trovano nella Repubblica Popolare Cinese e nel suo sviluppo la loro prima e massima sponda, il primo alleato, il centro di gravità;

- la terza fase che possiamo mettere a fuoco, in questo lasso di tempo che ci separa dal fallimento “gorbacioviano” e dalle sue catastrofiche conseguenze, è quella che oggi viviamo: la fase caratterizzata dalla risposta violenta, militare dell’imperialismo a guida USA e NATO all’“insurrezione” antimperialista internazionale, alla costituzione del fronte dei BRICS.

Una risposta violenta, quella imperialista, che trova un punto alto nel colpo di Stato di Euromaidan nel 2014, quando il fronte nazifascista interno ucraino, sollecitato, organizzato, armato dagli USA, dalla NATO e dall’UE, inizia a mettere a fuoco il proprio progetto strategico di attacco alla Russia, attacco che si prolungherà attraverso gli otto lunghi anni di genocidio contro il popolo del Donbass e che prenderà corpo alla fine del 2021, con quell’accerchiamento militare, da parte della NATO, che si snoderà dal Circolo Polare Artico sino alla Georgia, spingendo infine Putin, in difesa della Russia, all’Operazione Z del 24 febbraio 2022.

Una risposta violenta al materializzarsi di un vasto fronte antimperialista incardinato attorno alla Cina socialista che troverà il suo “documento programmatico” nel summit del G7 di Cornovaglia a guida Biden del giugno 2021, che licenzierà, appunto, “il documento di Carbis Bay”, un progetto sistematico e dettagliato volto alla costruzione di un vasto fronte armato mondiale – dagli USA al Canada, dalla Gran Bretagna all’UE, dalla Corea del Sud all’Australia sino al Giappone – per la guerra contro la Cina, passando per l’aggressione alla Russia. Un documento per la Terza guerra mondiale.

Non è un caso, di fronte a ciò, che al XX Congresso del PC Cinese celebrato nello scorso ottobre 2022, come già al XIX Congresso dell’ottobre 2017, si sia deciso un significativo rafforzamento e rimodernamento dell’esercito, che in tempi brevi dovrebbe essere in grado di far fronte alle sempre maggiori minacce di guerra imperialista.

Ed è del tutto evidente che, anche in questo caso, anche di fronte allo scatenamento militare degli USA e della NATO su di un vastissimo fronte internazionale (che va dal Medio Oriente all’Ucraina, passando per i Mari del Sud della Cina e per la Corea del Nord e per tutti gli odierni progetti USA di “golpe” in America Latina, dal Brasile all’Honduras alla Bolivia passando per l’Argentina e il Venezuela, è la Cina a offrirsi come principale diga oggettivamente antimperialista.

La “legge” di Marx (“il socialismo è lo sviluppo delle forze produttive”) trova nell’attuale potenza internazionale cinese e del Partito Comunista Cinese, la sua probante conferma. Ed è, dunque, tale, rivoluzionario, sviluppo delle forze produttive che dobbiamo indagare, mettere a fuoco. Anche per “fare legna” sul versante politico-teorico comunista generale.

Nell’affrontare “la questione cinese” e, in particolare, la relazione tra la NEP di Lenin e la “NEP” cinese, credo sia utile affidarsi a una disciplina teorica, la massima disciplina teorica, quella secondo la quale è dalla base materiale dello sviluppo delle forze produttive e dallo sviluppo sociale generale che trovano possibilità di sviluppo le stesse “idee” e, più precisamente, le innovazioni – antidogmatiche, dunque, per la loro stessa natura di “forme” innovative – sui terreni dell’economia, della politica, della teoria, del pensiero e della prassi della trasformazione sociale, della transizione al socialismo.

Ed è indubbio che il titanico sviluppo economico e sociale intrapreso e conquistato dalla Repubblica Popolare Cinese e dal Partito Comunista Cinese, dalla fase delle “Quattro Modernizzazioni” del compagno Deng Xiaoping e dalla via al “socialismo dai caratteri cinesi”, si sia offerto quale immensa e solida base materiale per lo stesso sviluppo di un nuovo pensiero rivoluzionario generale, di un nuovo e denso pensiero per la trasformazione sociale e la transizione al socialismo.

È questo – la relazione tra sviluppo della materialità delle cose e sviluppo teorico-filosofico in senso rivoluzionario – uno degli aspetti, dei “prodotti”, della storica crescita materiale cinese, un aspetto, forse, non considerato ancora pienamente nella sua importanza all’interno del movimento comunista e rivoluzionario mondiale. Ma un aspetto che, invece, occorrerebbe assumere pienamente, come formidabile arricchimento del bagaglio teorico e pratico del processo rivoluzionario, specie in questa fase storica segnata – oltre che da un avanzamento del fronte antimperialista trainato proprio dallo sviluppo cinese all’interno dei BRICS – anche da processi involutivi e di indebolimento del pensiero e della prassi comunista sul piano internazionale. Specie in Europa, ove con ogni evidenza l’“eurocomunismo” ha seminato i suoi danni.

È anche da qui, dunque, dal contributo che lo sviluppo delle forze produttive cinesi, dal contributo che la “NEP” cinese ha fornito allo sviluppo dell’attuale pensiero rivoluzionario, che si può iniziare a tratteggiare un’analisi comparata tra NEP leninista, rimozione della stessa NEP leninista e “NEP” cinese, anticipando – in modo sintetico – una valutazione: come la conquista dell’obiettivo dello sviluppo delle forze produttive ha potuto darsi – in Cina – quale base materiale dello sviluppo del pensiero rivoluzionario, così la troppo lunga stagnazione sovietica si è data – infine – come base materiale della cristallizzazione e dell’involuzione del pensiero e della prassi del socialismo in Unione Sovietica.

Quali sono le “categorie” centrali che, come proiezioni della propria, nuova, poderosa, forza materiale, la Cina socialista ha potuto mettere in campo?

Sinteticamente: 

- il pieno ripristino dell’azione soggettiva e antipositivista nel processo storico (Lenin, Gramsci) e ciò in rapporto al rovesciamento del dogma secondo il quale la contrapposizione sarebbe secca: o socialismo o mercato;

- il superamento, nella prassi, dell’artificiosa dicotomia relativa alla “neutralità” o “non neutralità” delle forze produttive, dicotomia risolta, nell’esperienza del “socialismo dai caratteri cinesi”, dal controllo del Partito Comunista sulle stesse forze produttive (esigenza già richiesta dal Lenin della NEP nella proposta del “controllo dalle alture strategiche”), forze produttive ridotte a pure “funzioni” del progetto del “socialismo di mercato” a guida comunista; 

- conseguentemente a ciò, una concezione del mercato come spazio economico e politico anch’esso funzionale al progetto di necessaria accumulazione originaria, imprescindibile per la transizione al socialismo, un mercato – dunque – pienamente assunto, nella prassi e nel pensiero, come forma storica non perenne ma dialettica, cavallo di Troia materiale per il socialismo. E altre categorie: come l’internazionalismo oggettivo (e soggettivo) che scaturisce dalla stessa potenza economica, in grado di mettere in campo relazioni e grandi e positive sfere d’influenza sul piano mondiale, capaci di mutare i rapporti di forza internazionali in senso antimperialista; e, ancora, la vera e propria cancellazione della “cultura” piccolo-borghese (ma tanto funzionale alla critica imperialista alla Cina socialista) tendente a mitizzare le fasi preindustriali e contadine, demonizzando lo sviluppo economico.

Sia Flaubert che Marx ed Engels avevano già fustigato tale untuosa tendenza piccolo-borghese: Flaubert nel romanzo Bouvard e Pécuchet, dove è descritto il “desiderio” della piccola borghesia di “tornare alla terra in un mondo senza più l’orrore dell’industria”, un desiderio che dura il tempo di conoscere la fatica bestiale dei campi, per poi celermente scomparire; Marx ed Engels nel Manifesto del Partito Comunista, quando scrivono “di una vita rurale racchiusa nella miseria e nell’ignoranza bruta”. Il punto è che per l’ideologia piccolo-borghese, anche “di sinistra”, nulla è contato l’aver tratto fuori dalla miseria, come ha fatto il socialismo dai caratteri cinesi, quasi un miliardo di persone dall’orrore della fame e della morte per inedia.

Come nulla è contato, per questa stessa ideologia, anche “di sinistra”, il fatto che lo sviluppo cinese abbia innestato un nuovo e potente motore nel camion dell’antimperialismo mondiale.

Marx ed Engels, per ragioni storiche, oggettive, non sono mai stati di fronte ai problemi pratici della costruzione del socialismo. E mai hanno potuto sviluppare un’analisi scientifica rispetto al rapporto tra economia di mercato e socialismo. È stato Lenin – a dimostrazione della propria inclinazione antidogmatica, la stessa che lo portò alla concezione dell’“anello debole della catena” – il primo comunista a interessarsi alla questione. Naturalmente, il Lenin della presa del potere, dell’Ottobre, non metteva in discussione la concezione dell’incompatibilità tra socialismo e mercato. Una posizione rafforzatasi nella fase terribile della guerra contro gli undici eserciti stranieri e della controrivoluzione in atto.

In quella fase la concezione di Lenin era lineare: lo Stato doveva mettere sotto controllo totale sia la produzione industriale che le eccedenze dei raccolti del grano. In questo quadro “l’economia di mercato” e “il libero commercio” erano considerati, anche sul piano ideologico, concezioni contro-rivoluzionarie. Questa politica, come è noto, prenderà il nome di “comunismo di guerra” e terminerà all’inizio del 1921.

Ma, sconfitta la controrivoluzione, l’enorme massa dei contadini non accettò più i sacrifici imposti dal “comunismo di guerra” e Lenin si fece carico, più di ogni altro dirigente, della contraddizione sociale in atto, che lo portò a ragionare sull’esigenza dell’alleanza contadini-operai. Un’alleanza che Lenin, all’inizio, tentò di saldare anche attraverso un’innovazione politico-teorica: lo scambio di prodotti (baratto di merci) tra contadini e operai, tra grano e beni industriali. Non sarebbe stata la soluzione, ma un’epifania: l’indicazione di marcia, da parte di Lenin, era già potente, antidogmatica, una premessa della stessa NEP.

NEP che partì nell’ottobre del 1921, quando Lenin si convinse della necessità dell’economia di mercato, linea che produsse non poche contraddizioni all’interno del Partito Comunista Russo, contraddizioni e resistenze che Lenin vinse ma sarebbero poi tornate, con Stalin, sotto forma di totale contrarietà, nella fase della fine della NEP.

Quale corredo politico-teorico lascia la breve esperienza della NEP leninista?

Lascia, innanzitutto, una riflessione, da parte di Lenin, profonda e proficua, un vero e proprio apparato teorico (accantonato) a sostegno del “socialismo attraverso un’economia di mercato”.

Lenin mette a fuoco la concezione dell’“uklad”, una struttura socialista, una produzione economica socialista in grado di svilupparsi proprio in virtù della competizione con le strutture neocapitalistiche interne al socialismo. Una visione, questa di Lenin, addirittura preveggente, rispetto alla futura stagnazione sovietica brezneviana e in accordo con lo stesso, odierno, tipo di sviluppo e proficua competizione Stato-mercato del “socialismo dai caratteri cinesi”.

Oltre ciò, Lenin affronta il problema dell’entrata dell’economia di mercato (e persino del capitale straniero) nel socialismo in termini nuovi, sottolineando gli aspetti positivi, per ciò che riguardava e riguarda il necessario sviluppo generale delle forze produttive, di queste “entrate” capitalistiche.

Un altro aspetto anticipato da Lenin, nell’analisi del “socialismo di mercato”, sta nel fatto che, in presenza di spinte neocapitalistiche nella struttura socialista, elementi “mafiosi”, di corruzione, di involuzione burocratica possono inevitabilmente presentarsi. Ed è a partire da ciò che Lenin stesso proponeva una forte spinta politica e ideale ai fini della costruzione di un’autodisciplina nelle istituzioni pubbliche, oltre la proposta di un controllo esercitato contro le degenerazioni da parte del potere socialista. Ciò che dobbiamo rimarcare, da questo punto di vista, è il fatto che le degenerazioni di cui parlava Lenin si siano poi presentate, anche in forma massiccia, nell’esperienza sovietica priva di mercato, come a dire che non basta la cancellazione del mercato a impedire il formarsi della corruzione, questione che – ci sembra – sia presente al Partito Comunista Cinese, che sta intervenendo giustamente e con polso fermo contro i fenomeni di corruzione in seno al “socialismo dai caratteri cinesi”. 

La stessa questione – ai fini rivoluzionari e di sviluppo del socialismo – dell’“apprendimento” (categoria sviscerata nella ricerca leninista di allora) da parte del socialismo dei meccanismi produttivi capitalistici era considerata da Lenin centrale; come centrale, architrave del processo, era considerata da Lenin la concezione delle “alture strategiche”, terminologia mutuata dalla guerra e utilizzata per rimarcare, da Lenin, l’esigenza del controllo socialista su tutto il piano NEP, il controllo del potere rivoluzionario sullo stesso “socialismo di mercato”. Cosa è stata, in fondo, la giusta reazione del Partito Comunista Cinese in piazza Tienanmen, quando l’imperialismo USA soffiava sul fuoco, se non l’applicazione rivoluzionaria della difesa del socialismo dalle “alture strategiche”? Possiamo, a proposito, fare ricorso alle parole che Gillo Pontecorvo fa pronunciare ad Alì Ben Mihdi ne La battaglia di Algeri: “Cominciare una rivoluzione è difficile, anche più difficile continuarla, e difficilissimo vincerla. Ma è solo dopo, quando avremo vinto, che inizieranno le vere difficoltà!».

La NEP leninista, seppur tra difficoltà e contraddizioni, favorì un grande sviluppo economico, riconosciuto come tale anche da Lenin nei suoi scritti precedenti la morte. Uno sviluppo che non aveva inficiato il progetto e il potere socialista, ma l’aveva persino rafforzato nel senso comune del popolo sovietico.

Lenin muore nel gennaio del 1924 e la NEP inizia a spegnersi da quella data. Si protrae, di fatto, sino al 1930, ma, con la “collettivizzazione forzata delle campagne”, condotta da Stalin, essa termina di esistere.

Colpa di Stalin? Noi comunisti ci rifiutiamo di rispondere in questi termini alla domanda. La demonizzazione di Stalin è già così potentemente portata avanti dall’occidente capitalistico che non ha bisogno dell’aiuto dei comunisti. Noi possiamo e dobbiamo criticare Stalin, come peraltro il Partito Comunista Cinese critica il Mao della “Rivoluzione Culturale”, ma, come il PCC che rivaluta l’azione rivoluzionaria storica di Mao, noi comunisti italiani sappiamo rivalutare l’azione rivoluzionaria storica di Stalin.

Altra cosa è un’analisi profonda e seria relativa al superamento della NEP da parte di Stalin, analisi che ancora non è sufficientemente sviluppata e che deve invece svilupparsi, anche perché riguarda una fase decisiva per arricchire lo stesso bagaglio teorico del movimento comunista mondiale.

Certo è che Stalin va dritto verso l’abolizione della legge del valore, non delineando (non potendo delineare per ragioni oggettive) una fase di passaggio e di transizione al socialismo; risponde con più “automatismi” ideologici, nella lotta contro il mercato, rispetto alla creatività teorica e politica di Lenin e, soprattutto, Stalin inizia a operare in un contesto segnato dal riarmo e dall’aggressività bellica imperialista, delle spinte alle quali si aggiungono, all’interno dell’URSS, nuove tensioni e contraddizioni, date anche dallo sviluppo spurio e non ancora reso armonico al socialismo della NEP. Spinte belliche imperialiste e contraddizioni interne che inducono Stalin a decidere che l’URSS, in quella fase, non può reggere le politiche e le inevitabili contraddizioni della NEP e che, dunque, la Nuova Politica Economica va disinnescata.

D’altra parte, è un insegnamento della stessa, attuale, esperienza cinese che il “socialismo di mercato”, e comunque un processo di transizione al socialismo, ha innanzitutto bisogno di un contesto internazionale di pace. E tale assunto è facilmente constatabile proprio in questa fase: contro la nuova, gigantesca “One Belt One Road”, la Nuova Via della Seta cinese, dal successo della quale può oggettivamente partire un grande aiuto sia alla pace mondiale che alle fortune del socialismo, si erge la contrarietà imperialista, che si materializza, intanto, attraverso il minaccioso rafforzamento della flotta militare USA e NATO nei Mari del Sud della Cina e nei porti delle Filippine; attraverso la sollecitazione alla secessione di Taiwan dalla Cina; attraverso la rimilitarizzazione, sostenuta dagli USA, del Giappone; attraverso la costruzione di uno scudo stellare nella Corea del Sud contro la Corea del Nord; attraverso il moltiplicarsi delle esercitazioni militari USA-Corea del Sud; attraverso la demonizzazione della Corea del Nord e attraverso la collocazione di basi militari USA e NATO sia in Ucraina che in Afghanistan, motivo primario degli interventi militari USA e NATO in questi due Paesi.

Per riprendere il filo del discorso sull’economia sovietica, discorso funzionale allo studio del “socialismo dai caratteri cinesi”: cosa sostituisce, Stalin – ai fini della produttività di massa, dello sviluppo delle forze produttive e ai fini di una nuova accumulazione – alla NEP?

Indubbiamente Stalin sostituisce alla Nuova Economia Politica la forza intrinseca dello stesso socialismo sovietico che va (dentro un mondo ostile e di fronte alla concezione quasi planetaria di un capitalismo concepito come “natura” e dunque insuperabile) controstoricamente costruendosi; costruzione concreta alla quale, tuttavia, aggiunge elementi fortemente idealisti che hanno la forza di protrarsi nel tempo (il lavoro d’assalto, l’emulazione, lo stakanovismo, l’onda lunga e idealista della Rivoluzione d’Ottobre, che tutto unisce e spinge) ma che – proprio perché elementi non materialisti – possono durare sino alla vittoria sul nazifascismo e non evitare la grigia caduta ed evaporazione nella lunga stagnazione brezneviana.

Nel senso, prosaico ma concreto, che non si poteva chiedere l’emulazione di massa e lo stakanovismo alle generazioni venute dopo la guerra. Persino Ernesto Che Guevara (un iperidealista), per ricordare la storia, da ministro dell’Economia, dopo la Rivoluzione Cubana, punta, dopo deludenti esperienze sul campo della mobilitazione sentimentale, a introdurre, per aumentare la produttività, il cottimo. Introduzione vissuta da Guevara come una sconfitta.

Dopo la NEP, l’Unione Sovietica non conosce più altro sistema che quello dello “Stato totale”, dove, mano a mano, la spinta alla produttività e allo sviluppo delle forze produttive va anchilosandosi. Nel sistema viene a presentarsi anche una contraddizione di natura degenerativa: una sorta di scambio tra mancanza del mercato e delle merci, mancanza di democrazia sovietica e allentamento, sino quasi alla cancellazione, del controllo nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro e di produzione. Uno sviluppo senza più la NEP di Lenin né l’idealismo e il controllo di Stalin.

Il processo ideologico di “svalorizzazione” del lavoro e della produttività diviene una sorta di involucro che tutto segna di sé e, in questa palude, la riproduzione della produzione e dei mezzi di produzione – che va avanti, dalla fine degli anni ’60 in poi, come una coazione a ripetere, senza dinamizzazioni o svolte significative – diviene un processo in via d’esaurimento.

Nella mancanza – spesso disperata, per i cittadini sovietici – delle “merci leggere” e di consumo di massa, vi è molto dell’“ideologia” della stagnazione: la scelta di perpetuare un’economia di merci pesanti, a discapito delle condizioni di vita dei cittadini e del consenso di massa e a discapito dell’apertura di un più vasto mercato interno e della possibilità, da parte dell’URSS, di puntare ai mercati mondiali, la si spiega anche con la supposta, “diversa”, coscienza del popolo sovietico, non incline, per questa ideologia, alla necessità delle merci. Un errore madornale nell’interpretazione di un popolo, dei lavoratori: non vi era bisogno, per liberarsi dalle fatiche famigliari, di una lavatrice?

Non vi era bisogno di un frigorifero, di un ferro da stiro facilmente reperibili sul mercato? Non vi era bisogno, per un popolo e per una classe operaia, contadina, che tanto avevano dato alla Rivoluzione, alla difesa della Rivoluzione e alla sanguinosa lotta contro il nazifascismo, di una economia volta alla produzione di massa di merci “leggere”, di consumo popolare?

Non vi furono, nell’URSS, grandi innovazioni sul campo economico. Uniche eccezioni di rilievo, i tentativi delle due riforme condotte da Aleksej Kosygin, che prima nel 1965 e poi nel 1973, tentò di dinamizzare l’economia sovietica a partire, soprattutto, dal superamento della burocratizzazione ministeriale dell’economia, attraverso la costituzione di associazioni produttive a livello repubblicano e locale. Paradossalmente, una via che aumentava i poteri del Comitato di Pianificazione di Stato (il Gosplan) sottraendoli, appunto, ai gangli burocratici distanti dalla produzione. Le due riforme Kosygin, benché lontane dallo spirito della NEP e solo timidamente evocanti il ritorno a minimi meccanismi di mercato, furono insabbiate, pur non fallendo (si ricorda lo sviluppo produttivo imperioso delle automobili “Gorkii”, a Leningrado). Il sistema anchilosato aveva “digerito” Kosygin.

Certo è che le cause della caduta dell’URSS non vanno solo ricercate nella stagnazione e nel mancato e pieno sviluppo delle forze produttive; la lunga sfida militare imperialista volta a dissanguare l’economia sovietica sull’altare del riarmo; il possente e continuo aiuto internazionalista, di tipo materiale e diretto in ogni continente; i veri e propri tradimenti di Gorbaciov, la mancata vittoria, prima di lui, della linea Andropov, l’accidia dell’Armata Rossa, incapace di respingere il “golpe” di El’cin: tutto ciò è stato decisivo. Tuttavia, la base materiale della resa e dello scioglimento dell’URSS non può che rintracciarsi, innanzitutto, sull’assenza– infine – di un’economia forte, di forze produttive in grado di sostenere lo scontro e preparare il futuro. Ed è questa un ulteriore lezione che, oggi, ci viene dallo sviluppo cinese: le basi materiali e lo sviluppo delle forze produttive garantiscono anche il futuro del socialismo. Significativo, da questo punto di vista, è il rilancio, avvenuto al XX Congresso del PC Cinese, dei valori politici e ideali del socialismo, del progetto rivoluzionario a breve e lungo termine.

Noi riteniamo che il passaggio, in Cina, dalla Rivoluzione Culturale alle “Quattro Modernizzazioni” e poi al progetto compiuto di “socialismo dai caratteri cinesi” sia stato non solo necessario per la Repubblica Popolare Cinese e per il popolo cinese (per tanta parte uscito dalla miseria ed entrato nella modernità), ma anche per l’intero arco delle forze antimperialiste, anticolonialiste e comuniste del mondo, che dopo la scomparsa dell’URSS hanno ritrovato nella Cina dello sviluppo economico, nei BRICS e nella Nuova Via della Seta sponde potenti e punti di riferimento solidi

Non è la questione o il desiderio di un nuovo “faro internazionale”, del quale i partiti comunisti del mondo e le forze antimperialiste e rivoluzionarie non hanno bisogno: è la questione di un’accumulazione di forze materiali (e, dunque, dialetticamente, ideali) sul piano mondiale, capace di fronteggiare e far arretrare le forze imperialiste.

La Rivoluzione Culturale cinese aveva fatto innamorare di sé anche la piccola borghesia occidentale di sinistra, molto e idealisticamente attratta dalla miseria e dal sacrificio del popolo cinese, “esempio” – per la piccola borghesia – di “una più alta vita morale”. La Cina aveva invece bisogno di ergersi nel mondo attraverso quello che lo stesso Marx individuava come il motore della Storia: uno sviluppo delle forze produttive atto alla liberazione dalla miseria di massa e dalla dura materialità delle cose, atto a un più alto sviluppo, materiale e dunque morale, socialista.

Le concezioni politiche e teoriche che vanno forgiandosi in Cina, in questa fase di impetuosa crescita, sono già e potranno ancor più essere – senza rapporti di subordinazione, ma con rapporti leali e creativi – ricca materia teorica per altre esperienze di sviluppo socialista: il ruolo guida – nel progetto di sviluppo delle forze produttive – del Partito Comunista Cinese (ruolo guida che mutua la concezione leninista delle “alture strategiche”); il Partito Comunista come avanguardia del proletariato e della nazione, in una visione della “totalità delle cose”, della fase e del quadro sociale e politico, una pratica della totalità volta a trainare tutto l’immenso Paese cinese verso il socialismo; l’unità transeunte tra Partito Comunista, proletariato e borghesia, nella fase storica in cui essa è funzionale allo sviluppo delle forze produttive ed esse alla transizione al socialismo; la sollecitazione strategica alla costruzione delle “aree speciali” neocapitaliste, aventi il compito di accelerare i processi di accumulazione della ricchezza generale al fine di altri investimenti sociali, tecnologici, scientifici; l’attenzione e la lotta del partito contro le inevitabili aree di corruzione che si aprono (come si sono, peraltro, aperte anche nell’URSS priva di mercato) nel “socialismo di mercato”; la consapevolezza (che il Partito Comunista Cinese ha totalmente e lucidamente) delle inevitabili contraddizioni che la presenza, voluta dallo stesso progetto socialista di un neocapitalismo interno, produce in termini di pulsione al potere politico da parte del potere economico accumulato dal neocapitalismo e, dunque, l’apertura di una lotta di classe sociale e politica che il Partito Comunista, dopo aver provocato, vuole e deve vincere.

Nell'incontro che la delegazione di “Cumpanis” ha avuto lo scorso 18 novembre con il compagno Zou Jianjun, conisgliere dell’Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese a Roma, una questione ci ha davvero e molto colpiti: l’insistenza con la quale il compagno Zou ha rimarcato la necessità, nel rilancio dell’opzione comunista e rivoluzionaria, dell’antidogmatismo, dell’antipositivismo, dell’antimeccanicismo, che essenzialmnete vuol dire recuperare appieno l’azione – politica, sociale, ideologica – rivoluzionaria soggettiva, costruire la trasformazione sociale nelle condizioni date, nelle contraddizioni specifiche del Paese in cui i rivoluzionari operano, senza leggi bronzee, sempiterne, calate dall’alto o mutuate ciecamente da un’altra esperienza rivoluzionaria. Nemmeno dall’esperienza del “socialismo dai caratteri cinesi”, che con il suo immenso sviluppo trasforma la Cina in un cardine del nuovo fronte antimperialista, apre varchi immensi per il lavoro rivoluzionario negli altri Paesi senza però ergersi, perché consapevole di non poterlo e di non doverlo fare, come “nuovo faro” del movimento comunista mondiale. Un “faro” che ogni popolo, ogni classe in lotta, ogni partito comunista rivoluzionario dovrà trovare nella grande e complessiva storia del movimento comunista e rivoluzionario e nella storia del proprio popolo e del proprio Paese.

16/12/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Fosco Giannini

La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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