L’attore racconta il personaggio, scoprendone le azioni e il modo di agire, passo dopo passo, costruendone un equivalente. E lo spettatore vive e partecipa ad un momento di crescita e consapevolezza collettiva. Eppure il teatro, un tempo vietato e censurato, oggi annoia. Perché?
Si fa molta confusione con i “personaggi”. Frasi come “calarsi nel personaggio”, “immedesimarsi”, “se fossi io cosa farei?” sono frasi che non hanno alcun senso, anzi, sono fuorvianti per l’arte dell’attore (che è artigianato) e figlie di un improbabile romanticismo autoreferenziale. Vi spiego perché, umilmente, considerando quello che dico come una opinione e non una verità.
Innanzitutto l’attore è un artigiano. La radice stessa della parola “arte” ci rimanda più ad un falegname, ad uno scultore, piuttosto che a un istintivo emozionale. L’attore legge il testo e si fa un’idea su quello che fa il personaggio che andrà ad interpretare. Sottolineo le parole che fa. L’errore più comune che viene fatto dagli attori (non solo ahimè dai meno esperti o dai meno pagati) è dell’attitudine a pensare a quello che sente il personaggio. In realtà il personaggio “è più grande di noi” (cit. Mamadou Dioume) e in concreto possiamo dire che non esiste affatto: esso esisterà solo quando noi come attori ne racconteremo le azioni. Per raccontare le azioni, dovremo creare (“scolpire il vuoto”), rifinire e ripetere continuamente in un paziente lavoro di cesello (in francese le prove si chiamano appunto “repetitions”), con serietà e autodisciplina (altro concetto chiave per la strumentazione di attore), ma sempre giocando (in inglese recitare si dice “to play”) per scoprire/scolpire e definire i dettagli.
Qui abbiamo toccato altri due concetti fondamentali: “pensare per azioni” e “raccontare il personaggio”.
Se, per esempio, vogliamo lavorare su Amleto, come attori, dobbiamo innanzitutto vedere quello che fa Amleto e come lo fa. In questo ci aiuta il testo. È tutto scritto: sappiamo che ha un età tra i 25 e i 30 anni, sappiamo che ha un corpo molto agile (riesce a sconfiggere in duello Laerte, abilissimo spadaccino), sappiamo che è molto intelligente (lo vediamo dal modo in cui connette logicamente le frasi e i concetti nei monologhi) e, dunque, abbiamo già degli indizi sufficienti per scoprire come fa, cioè come agisce, nelle situazioni presenti nel testo. Ecco: già iniziamo a vedere che non ha senso farsi la domanda “come mi sentirei io al suo posto?” perché semplicemente non siamo al suo posto. La nostra missione è raccontare Amleto.
E qui vediamo la fondamentale differenza tra il concetto del lavoro di attore proposto da Bertolt Brecht (straniamento) e quello maldestramente attribuito a Stanislavski (dico maldestramente in quanto sovente si ignora l’ultima parte del suo lavoro sulle azioni fisiche [1]).
Il concetto di “straniamento”, ripreso in concreto da Eugenio Barba, da Peter Brook o da Dario Fo e Franca Rame, altro non consiste che nell’attitudine a voler raccontare il personaggio.
Come? Lavorando per scoprire la sua fisicità e le sue azioni, senza un preventivo processo psicologico, lasciando spazio al corpo e alla mente di scoprire passo passo il suo modo di camminare, di parlare, di agire. In altre parole, il “non lo so” (cit. Jean Paul Denizon) è quello che guida l’attore nella scoperta del modo di raccontare il personaggio attraverso i dettagli e lascia una specie di “cuscinetto” tra noi e lui/lei. Scopriremo il nostro Amleto, ma non nel senso che cercheremo dentro di noi Amleto, ma che, attraverso testo e azioni e la costruzione, per così dire, di “un secondo sistema nervoso” attraverso i dettagli, ne troveremo un equivalente. E sottolineo un, non L’equivalente. Ecco perché il personaggio non esiste.
Possiamo fare anche un piccolo esercizio di mimesi a prova di questo. Assumiamo una posizione e chiediamo ad un/una nostro/a collega di rifare esattamente la nostra posizione, di copiarla. Quando avrà finito interverremo nel correggerlo, ma fino alla fine ci renderemo conto che non sarà come noi, ma rappresenterà un equivalente di noi. La stessa cosa la otterremo in azione con dei dettagli fissati per raccontare la storia (ovvero per raccontare i personaggi che fanno la storia).
Una parola sull’importanza dei dettagli e del fissarli. Ricorriamo ad un esempio del cinema, citato più volte da Jean Paul Denizon durante i suoi corsi. Era il periodo americano di fulgenza di Hollywood e contemporaneamente di una sua forte crisi finanziaria.
I produttori pensarono dunque di girare le scene di massa all’estero, dove i costi erano minori. Fu in un piccolo paese del Messico che fu girata una scena di fucilazione di massa. I produttori contattarono il comune di un piccolo paese che mise a disposizione la sua cavalleria e fucilieri per quella scena: un bel risparmio e un bel colpo avere a disposizione veri militari. Trovata la location ideale per la scena della fucilazione, il momento adatto era quando il sole sorgeva da dietro le mura di una chiesetta diroccata: vita che sorge, vita che svanisce, un effetto eccezionale.
Arriva il giorno, le comparse sono tutte lì, il regista dà l’azione, e avviene la fucilazione. Ma il regista grida STOP!!!: bisogna rifarla, non va bene…e in fretta perché il sole sta salendo. Si avvicina il comandante del reggimento e dice al regista che la scena non si può ripetere perché i condannati a morte erano veri: si trattava di una vera esecuzione. Che però non funzionava per il cinema.
Ecco: un attore deve anche saper cadere, studiarne e costruire i dettagli, determinarne l’effetto scenico che è ben diverso dal realismo, ma è più vero.
Attenzione: come lo scultore non sarà mai indipendente dal suo pezzo di marmo, così noi non saremo mai indipendenti dai dettagli scoperti. La nostra libertà più profonda la troveremo qui, all’interno di questa cornice di dettagli (azioni fisiche e vocali per raccontare il personaggio, al servizio della storia), e la nostra libertà porterà, per neuroni a specchio, un movimento di libertà nello spettatore. Nei grandi spettacoli (non negli spettacoli grandi…) notiamo infatti che il nostro viaggio inizia dopo lo spettacolo.
Domanda: cosa è successo al teatro? Perché queste semplici cose, usate dai veri artisti (leggi artigiani) non vengono insegnate nelle accademie e rimangono sconosciute ai più?
Qui parlerei “in terza persona” come ci dice Brecht nel suo Me-Ti, e per far questo mi avvarrei di una considerazione storica.
Sappiamo che il teatro, per secoli e soprattutto in Italia, è stato di fatto perseguitato. Gli attori erano considerati dei pezzenti e le attrici delle puttane ed erano costretti a girovagare. La loro libertà dava fastidio, la loro conoscenza era pericolosa, il loro modo di unire la gente era inopportuna. Ecco, dunque, il detto “il viola porta sfortuna a teatro”: una delle spiegazioni attribuite a questo detto è che quando un prelato entrava al teatro significava interrompere la rappresentazione e i prelati vestivano appunto di viola. La Chiesa, da sempre braccio armato spirituale della classe dominante, vietava gli spettacoli.
Quando arrivarono la democrazia e la libertà di pensiero, la classe dominante pensò bene di vietare il Teatro “da dentro”, finanziando e sostenendo rappresentazioni che non cambiano nulla nello spettatore. Lavorò fin dal principio: affidando posti potere nelle accademie e nelle scuole a pedagoghi che lavoravano per allontanare l’allievo dalla conoscenza, affibbiandogli ricette pronte e trucchetti del mestiere che lo allontanassero da se stesso e dall’essere libero, facendolo sedere sulla noia.
Possiamo riconoscere cronologicamente il seguente passaggio: divieto-censura-noia. La noia è lo strumento più subdolo e affilato che la classe dominante abbia messo a punto per distruggere il momento collettivo e di catarsi del teatro.
Quante volte vi siete annoiati al teatro?
Quante volte avete temuto di rimanere imprigionati tra le mura del teatro ad assistere ad una pedissequa rappresentazione di un’opera di Shakespeare?
Ebbene, questo è il modo migliore per allontanare lo spettatore che cerca non solo un momento di svago, ma soprattutto un momento di reale trasformazione individuale e collettiva. Si tratta di un’operazione ideologica a tutti gli effetti perché sostenere e finanziare rappresentazioni noiose di Shakespeare fa pensare allo spettatore che Shakespeare (e il teatro) sono così, noiosi; e spesso non si hanno gli strumenti per indagare le cause di questa noia, ma esse vengono accettate come naturali e ineliminabili.
Togliere la vita al teatro (e all’attore) significa letteralmente commettere un omicidio, e, fuor di metafora, significa eliminare un momento di crescita collettiva e, quindi, di consapevolezza collettiva, tanto invisa alla classe dominante perché pericolosa.
Ricordiamo che Shakespeare proponeva le proprie rappresentazioni a più di tremila persone, popolani per lo più analfabeti, e rivedeva le proprie opere in funzione delle reazioni del pubblico: come poteva esserci noia in queste rappresentazioni?
Quanta revisione procedurale (cosciente o incompetente) viene fatta sistematicamente per allontanare la conoscenza dei meccanismi del potere che tanto bene racconta Shakespeare, nostro contemporaneo?
Chiuderei con un riferimento a momenti di rappresentazione collettiva della Penisola e Isole, soprattutto durante la settimana santa. Nei secoli abbiamo avuto dei divieti, fatti addirittura tramite bolle papali, di canti liturgici: essi non potevano (e non possono) essere cantati in chiesa.
Questi canti ( “para-liturgici”, cioè esclusi dalla liturgia) erano dei canti del popolo che attraverso le armonie tradizionali, quasi sempre polifoniche e che prevalentemente venivano dal mondo contadino, raccontavano eventi religiosi (la Passione di Cristo, per esempio).
C’è una triplice motivazione a questi divieti: armonica, di senso e di classe.
- Armonica, perché la loro costruzione implicava intervalli differenti rispetto alla . “musica colta”. La quarta aumentata ne è tipico esempio: anche detta tritono, o intervallo del diavolo, colpisce direttamente il plesso solare dell’ascoltatore muovendo emozioni (per capirci, un esempio di tritono più vicino a noi è il celeberrimo riff iniziale di Jimi Hendrix in Purple Haze), anche se questo viene giustificato da alcuni col fatto che la quarta aumentata non risuoni bene nelle chiese (per via, appunto, delle armoniche).
- Di senso, perché le figure della Madonna o di Cristo sono quasi sempre umane e per la Chiesa ufficiale esse devono essere eteree e misteriose: la madre che raccoglie le gocce di sangue del figlio o che si lamenta contro Dio che le ha tolto il figlio, o che chiede ai mastri di fare chiodi ben appuntiti di modo che il figlio soffra di meno nella crocifissione, così come la presenza di Maddalena, sono esempi troppo carnali (un processo storico identico lo troviamo anche in Brasile nel passaggio dal Candomblé – religione rituale brasiliana di origine africana – all’Umbanda che del Candomblé usa le stesse divinità svuotandole della loro accezione umana e avvicinandole all’iconografia cristiana – per inciso il Camndoblé è stato vietato fino al 1975 in quanto espressione di una classe oppressa e di una collettività che si univa attorno ad esso e ne prendeva forza ).
- Di classe, perché è inconcepibile che roba popolana possa essere cantata in un luogo sacro: al sacro possono avvicinarsi solo i potenti e i ricchi con le loro musiche colte, perché solo loro ne sono degni.
Una grande censura e rimozione di memoria è stata effettuata in questo contesto nel ‘900: Papa Woytila, sempre attento a mantenere lontano l’odio del popolo verso i suoi oppressori, ha promosso la Nuova Liturgia, cancellando di fatto moltissimi canti antichi e di origine popolare a favore di canzonette che scivolano addosso senza lasciare alcuna traccia interiore.
Note:
[1] Vasili Toporkov, “Stanislavski alle prove” ed. Feltrinelli