Come fa notare Antonio Gramsci, gli Stati subalterni non sono in grado di portare avanti una politica autonoma sul piano internazionale e finiscono, così, per divenire pedine delle grandi potenze [1]. Più in generale, ogni analisi della politica di un paese non potrà, dunque, prescindere dai rapporti delle forze internazionali, ovvero dalla posizione occupata in un sistema egemonico che rende più o meno effettuale l’indipendenza e la sovranità nazionale. Sebbene la struttura sociale di un paese determini la sua posizione nel contesto internazionale, quest’ultima reagirà a sua volta “sulla vita economica immediata di una nazione” (13, 2: 1562). Perciò, come osserva Gramsci, la “differenza di processo nel manifestarsi dello stesso sviluppo storico nei diversi paesi è da legare non solo alle diverse combinazioni dei rapporti interni alla vita delle diverse nazioni, ma anche ai diversi rapporti internazionali” (19, 24: 2033).
Nei paesi internazionalmente subordinati la classe dominante tenderà a sfruttare tale situazione dando a credere “tecnicamente impossibile” (13, 2: 1562) ogni rivolgimento strutturale. Dunque, come osserva Gramsci, al contrario di quanto l’ideologia dominante vuol dare a intendere, non è il partito internazionalista a subordinare le esigenze nazionali alla politica sovranazionale, ma piuttosto “il partito più nazionalistico, che, in realtà, più che rappresentare le forze vitali del proprio paese, ne rappresenta la subordinazione e l’asservimento economico alle nazioni o a un gruppo di nazioni egemoniche” (ivi, 1562-563).
Del resto, uno sviluppo determinato da direttive internazionali, che non muova dalla soluzione dei bisogni nazionali, costituisce un ostacolo allo sviluppo del paese poiché è funzionale “a creare l’equilibrio di attività e di branche di attività non di una comunità nazionale” (3, 118: 386), ma di un mercato internazionale subordinato agli interessi delle potenze dominanti. La condizione di subalternità di uno Stato non fa che accentuarne la condizione “di arretratezza e di stagnazione” (13, 13: 1574). Persino un grande fenomeno culturale sviluppato sul terreno nazionale, come per esempio il Rinascimento, finisce per essere in tale caso fonte di progresso all’estero dove “è vivo [nelle coscienze] dove ha creato correnti nuove di cultura e di vita, dove è stato operante in profondità”, piuttosto che in patria “dove è stato soffocato senza residuo altro che retorico e verbale e dove quindi è diventato oggetto di «mera erudizione», di curiosità estrinseca” (3, 144: 401).
La debolezza sul piano internazionale può divenire uno strumento di egemonia della classe dominante che la utilizza per frenare ogni intervento attivo sul piano politico delle forze nazional-popolari (cfr. 19, 24: 2034) [2]. L’ideologia dei ceti dominanti nei paesi subalterni tenderà a giustificare come “«originalità nazionale»” tale condizione di sovranità limitata e di arretratezza “semifeudale” (13, 13: 1575), facendo credere “tecnicamente impossibile” (13, 2: 1562) ogni rivolgimento strutturale.
Al contrario le forze progressiste, secondo Gramsci, dovranno favorire l’assunzione delle più avanzate forme di governo sviluppate a livello internazionale [3], quale unica strada, come via maestra per condurre un paese subalterno a una effettiva indipendenza nazionale. Del resto, a parere di Gramsci, il consolidarsi del processo rivoluzionario in un paese può contribuire a creare condizioni internazionali favorevoli che possono contribuire all’espansione della Rivoluzione in paesi in cui le forze progressive sono “scarse e insufficienti di per sé (tuttavia ad altissimo potenziale perché rappresentano l’avvenire del loro paese)” (14, 68: 1730).
D’altra parte la stessa possibilità di un profondo mutamento delle condizioni storico-politiche nazionali è strettamente dipendente dall’“equilibrio delle forze internazionali” (6, 78: 746). A seconda delle fasi storiche esse possono essere di freno o di decisivo supporto alle forze progressive nazionali. È, dunque, indispensabile disporre d’una “forza permanentemente organizzata” in grado di “inserirsi efficacemente nelle congiunture internazionali favorevoli” (13, 17: 1589). Per esempio, mentre l’arretratezza italiana era in parte dovuta all’essere divenuta terra di conflitto di potenze internazionali, la Rivoluzione francese e le guerre napoleoniche hanno un ruolo decisivo per il nascere della nazione, consentendo il sorgere dell’“interesse politico e nazionale alla piccola borghesia e ai piccoli intellettuali” (ibidem). In altri termini, il Risorgimento italiano sarebbe impensabile senza “i fattori internazionali e specialmente la Rivoluzione francese” che, logorando le forze regressive, “potenziano per contraccolpo le forze nazionali in se stesse scarse e insufficienti” (19, 3: 1972). È la trasformazione del contesto internazionale che è al fondamento e permette di comprendere il “processo di formazione delle condizioni e dei rapporti internazionali che permetteranno all’Italia di riunirsi in nazione” (19, 2: 1963). Tuttavia, se nella realizzazione di un evento storico come il Risorgimento “tra l’elemento nazionale e quello internazionale dell’evento, è l’internazionale che ha contato di più” (3, 38: 316) il nuovo Stato sarà privo di autonomia politica sul piano internazionale. La mancata partecipazione popolare al Risorgimento rende “meschina” la vita politica italiana sino al novecento e indebolisce “la posizione internazionale del nuovo Stato, privo di effettiva autonomia perché minato all’interno dal Papato e dalla passività malevola delle grandi masse” (19, 28: 2054).
Così mentre nelle nazioni in cui vi è stato uno sviluppo organico delle energie nazionali, si proiettano all’esterno in “funzione di irradiazione internazionale e cosmopolita”, ossia in funzione dell’espansione dell’egemonia e del proprio dominio imperialistico, i paesi privi di un tale sviluppo si proiettano all’esterno attraverso un’emigrazione “che non refluisce sulla base nazionale per potenziarla” (12, 1, 1524-525), ma concorre a render impossibile il costituirsi d’una coscienza nazionale e di una salda base nazionale.
Il ruolo subordinato a livello internazionale produrrà l’emigrazione della forza lavoro manuale e degli intellettuali verso le nazioni dominanti, il che rappresenta secondo Gramsci “una critica reale” (2, 137: 272) alla debolezza nazionale della classe alla classe dominante, incapace di adempiere alla propria funzione di direzione nazionale. Ciò ha fatto sì che tanto gli intellettuali, “rappresentanti la tecnica e la capacità direttiva”, siano andati ad arricchire nazioni straniere col loro contributo, sia che la forza-lavoro nazionale sia andata “ad aumentare il plusvalore dei capitalismi stranieri”, in modo che “questi elementi sono andati perduti in grandissima parte, incorporandosi nelle nazionalità straniere in funzione subalterna” (3, 117: 385).
Gramsci rigetta l’interpretazione meccanicista del marxismo secondo la quale dal cosmopolitismo preborghese si potrebbe passare all’internazionalismo solo attraversando la tappa intermedia del nazionalismo. In presenza di una cultura cosmopolita tale passaggio sarebbe infatti “anacronistico e antistorico” (9, 127, 1190) e persino contrario alla cultura nazionale [4]. Tanto che Gramsci considera il nazionalismo, in un paese come l’Italia, un’“escrescenza anacronistica” nella sua storia, “di gente che ha la testa volta all’indietro come i dannati di Dante” (ibidem). Al contrario la missione di civiltà del popolo italiano “è nella ripresa del cosmopolitismo romano e medioevale, ma nella sua forma più moderna e avanzata” (ibidem).
Note:
[1] Come avviene spesso, Gramsci si serve di esempi tratti dalla storia nazionale e dal principale pensatore politico italiano: “bisogna ricordare che il Machiavelli sentiva che non era Stato il Comune o la Repubblica e la signoria comunale, perché mancava loro con il vasto territorio una popolazione tale da essere la base di una forza militare che permettesse una politica internazionale autonoma: egli sentiva che in Italia, col Papato, permaneva una situazione di non-Stato e che essa sarebbe durata finché anche la religione non fosse diventata «politica» dello Stato e non più politica del Papa per impedire la formazione di forti Stati in Italia intervenendo nella vita interna dei popoli da lui non dominati temporalmente per interessi che non erano quelli degli Stati e perciò erano perturbatori e disgregatori” Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1977, p. 658. D’ora in poi citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando il quaderno, il paragrafo e il numero di pagina di questa edizione.
[2] Interessante quanto osserva Gramsci sull’importanza del piano internazionale nel risorgimento italiano: “i rapporti internazionali hanno certo avuto una grande importanza nel determinare la linea di sviluppo del Risorgimento italiano, ma essi sono stati esagerati dal partito moderato e da Cavour a scopo di partito. È notevole, a questo proposito, il fatto di Cavour che teme come il fuoco l’iniziativa garibaldina prima della spedizione di Quarto e del passaggio dello Stretto, per le complicazioni internazionali che poteva creare e poi è spinto egli stesso dall’entusiasmo creato dai Mille nell’opinione europea fino a vedere come fattibile una immediata nuova guerra contro l’Austria” (19, 24: 2034).
[3] Come osserva Gramsci: “una ideologia, nata in un paese più sviluppato, si diffonde in paesi meno sviluppati, incidendo nel gioco locale delle combinazioni” (13, 17: 1585).
[4] Come osserva Gramsci a tal proposito: “che il moto nazionale dovesse reagire contro le tradizioni e dare luogo a un nazionalismo da intellettuali può essere spiegato, ma non è una reazione organico-popolare. Del resto, anche nel Risorgimento, Mazzini-Gioberti cercano di innestare il moto nazionale nella tradizione cosmopolita, di creare il mito di una missione dell’Italia rinata in una nuova Cosmopoli europea e mondiale, ma è un mito puramente verbale e cartaceo, retorico, fondato sul passato e non sulle condizioni del presente, già esistenti o in processo di sviluppo. Perché un fatto si è prodotto nel passato non significa che si produca nel presente e nell’avvenire; le condizioni di una espansione italiana nel presente e per l’avvenire non esistono e non appare che siano in processo di formazione. L’espansione moderna è di origine capitalistico-finanziaria. L’elemento «uomo», nel presente italiano, o è uomo-capitale o è uomo-lavoro. L’espansione italiana è dell’uomo-lavoro non dell’uomo-capitale e l’intellettuale che rappresenta l’uomo-lavoro non è quello tradizionale, gonfio di retorica e di ricordi meccanici del passato” (9, 127: 1190-191).