Lo Stato moderno borghese, dopo un lungo periodo di gestazione che va dalla Rivoluzione francese al 1871, trova “il suo «perfezionamento» giuridico-costituzionale nel regime parlamentare strumento decisivo di egemonia della classe dominante mediante il «consenso permanentemente organizzato»” [1]. Non si tratta di un processo lineare o pacifico, ma di una “rivoluzione permanente” in cui si “alternano tentativi di insurrezione e repressioni spietate, allargamento e restrizioni del suffragio politico, libertà di associazione e restrizioni o annullamenti di questa libertà” (ivi: 1637) [2]. Il regime parlamentare diviene il “terreno classico” dell’egemonia borghese, poiché la stessa coercizione statuale appare “appoggiata sul consenso della maggioranza” (ivi: 1638). Il parlamento è l’organo dell’egemonia politica “più legato alla società civile” (6, 81: 752) rispetto al governo e alla magistratura. Le divergenze della “volontà politica pubblica”, sempre potenziali in una società divisa in classi, sono prevenute o sanate centralizzando sotto il controllo della classe dirigente gli “organi dell’opinione pubblica: giornali, partiti, parlamento in modo che una sola forza modelli l’opinione e quindi la volontà politica nazionale, disponendo i discordi in un pulviscolo individuale e disorganico” (7, 83: 915) [3]. Mediante il controllo degli apparati dello Stato la classe dominante fa del “parlamento la sua Trade-Union, mentre i salariati non potevano coalizzarsi e far valere la forza data dalla collettività a ogni singolo individuo” (10, 41: 1311) [4].
D’altra parte, a parere di Gramsci, il progressivo ampliamento del suffragio, oltre la ristretta cerchia dei possidenti bianchi e maschi della tradizione liberale, ha in sé la potenzialità di produrre “una vera e propria riforma intellettuale e morale” (8, 87: 992). Le elezioni a suffragio universale possono diventare, a parere di Gramsci, dei “momenti di vita intensamente collettiva e unitaria nello sviluppo nazionale di un popolo” (19, 19: 2004). Le “elezioni”, in effetti, “con gli spostamenti nelle forze politiche dei partiti, e con i cambiamenti che i risultati possono portare nel governo” (ibidem) consentono di superare la concezione assoluta del potere medievale. Il potere non può più fare affidamento sul solo “apparato burocratico-militare” (5, 23: 559), ma dovrà almeno parzialmente venire incontro con un programma di riforme alle esigenze delle masse se vorrà mantenere su di esse la sua egemonia. Autorità e sovranità non sono più privilegi di casta fondati su basi metafisico-religiose [5], ma sono riposte, almeno formalmente, nel popolo. Tale potenzialità del regime rappresentativo e parlamentare può divenire effettuale solo quando è il prodotto della lotta di “grandi masse della popolazione” (3, 62: 342) e non la mera applicazione di un sistema conquistato da altri popoli. In tal modo perdono terreno i partiti tradizionali che assicuravano il consenso alle elezioni essendo divenuto, in seguito all’ampliamento della base elettorale, “molto più difficile la corruzione individuale” (19, 26: 2040). La “partecipazione delle masse popolari alla vita politica e statale”, lo stesso “decoro dell’attività parlamentare” sono il prodotto di una “serie di rivoluzioni e di guerre, a costo di torrenti di sangue” (8, 42: 967) [6]. Altrimenti gli stessi partiti tendono a non essere “una frazione organica delle classi popolari”, ma a costituirsi unicamente in vista delle elezioni come “un insieme di galoppini e maneggioni elettorali, un’accolta di piccoli intellettuali di provincia, che rappresentavano una selezione alla rovescia” (14, 10, 1664) [7], al servizio dello “spirito di consorteria” delle classi dominanti. Del resto in assenza di movimenti di massa lo stesso suffragio universale può divenire uno strumento della classe dominante per rafforzare il proprio dominio mediante il consenso di settori arretrati della popolazione, facilmente egemonizzabili mediante il clero e gli intellettuali tradizionali [8].
Ciò favorisce partiti reazionari, come gli agrari, che riescono ad avere un potere politico non corrispondente “alla loro funzione storica, sociale, economica” (14, 53, 1712). La convinzione “che tutto sarebbe cambiato dopo il voto, di una vera e propria palingenesi sociale” (19, 19, 2005) che può diffondersi fra le masse dopo la conquista del suffragio universale, è considerata da Gramsci “mistica”, in quanto non tiene conto che le elezioni esprimono i rapporti di forza fra le classi nella società civile. Gramsci contesta, dunque, “ogni mistica” fiducia nelle doti salvifiche del suffragio universale. Ogni importante svolta storica può essere solo sanzionata dal passaggio elettorale, essendo il prodotto di una lotta condotta dalla “classe fondamentale” sul piano politico-economico [9]. L’esito delle elezioni dipende dallo sviluppo della coscienza storico-politica delle masse, per cui esso può essere non solo uno strumento di emancipazione politica delle classi popolari, ma anche “un meccanismo favorevolissimo alle tendenze reazionarie e clericali” (19, 31, 2057).
Note:
[1] Gramsci, A., Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1977, p. 1636. D’ora in poi citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando il quaderno, il paragrafo e il numero di pagina di questa edizione.
[2] Come chiarisce, ulteriormente, Gramsci, si tratta di “libertà nel campo sindacale ma non in quello politico, forme diverse di suffragio, scrutinio di lista o circoscrizioni uninominali, sistema proporzionale o individuale, con le varie combinazioni che ne risultano – sistema delle due camere o di una sola camera elettiva, con vari modi di elezione per ognuna (camera vitalizia ed ereditaria, Senato a termine, ma con elezione dei Senatori diversa da quella dei deputati ecc.) –, vario equilibrio dei poteri, per cui la magistratura può essere un potere indipendente o solo un ordine, controllato e diretto dalle circolari ministeriali, diverse attribuzioni del capo del governo e dello Stato, diverso equilibrio interno degli organismi territoriali (centralismo o decentramento, maggiori o minori poteri dei prefetti, dei Consigli provinciali, dei Comuni ecc.), diverso equilibrio tra le forze armate di leva e quelle professionali (polizia, gendarmeria), con la dipendenza di questi corpi professionali dall’uno o dall’altro organo statale (dalla magistratura, dal ministero dell’interno o dallo Stato maggiore); la maggiore o minore parte lasciata alla consuetudine o alla legge scritta, per cui si sviluppano forme consuetudinarie che possono ad un certo punto essere abolite in virtù delle leggi scritte” (13, 37: 1637).
[3] “Ciò che si chiama «opinione pubblica»”, chiarisce brillantemente Gramsci, “è strettamente connesso con l’egemonia politica, è cioè il punto di contatto tra la «società civile» e la «società politica», tra il consenso e la forza. Lo Stato quando vuole iniziare un’azione poco popolare crea preventivamente l’opinione pubblica adeguata, cioè organizza e centralizza certi elementi della società civile. Storia dell’«opinione pubblica»: naturalmente elementi di opinione pubblica sono sempre esistiti, anche nelle satrapie asiatiche; ma l’opinione pubblica come oggi si intende è nata alla vigilia della caduta degli Stati assoluti, cioè nel periodo di lotta della nuova classe borghese per l’egemonia politica e per la conquista del potere” (7, 83: 914-15).
[4] Aggiunge, a tal proposito, Gramsci: “bisognerebbe studiare bene la teoria di Ricardo e specialmente la teoria di Ricardo sullo Stato come agente economico, come la forza che tutela il diritto di proprietà, cioè il monopolio dei mezzi di produzione. È certo che lo Stato ut sic non produce la situazione economica ma è l’espressione della situazione economica, tuttavia si può parlare dello Stato come agente economico in quanto appunto lo Stato è sinonimo di tale situazione. Se si studia infatti l’ipotesi economica pura, come Ricardo intendeva fare, non occorre prescindere da questa situazione di forza rappresentata dagli Stati e dal monopolio legale della proprietà? Che la quistione non sia oziosa è dimostrato dai cambiamenti apportati nella situazione di forza esistente nella società civile dalla nascita delle Trade-Unions, quantunque lo Stato non abbia mutato di natura” (10, 41; 1310).
[5] “Il suffragio universale che è stato introdotto in Francia da tanto tempo ha già determinato il fatto che le masse, formalmente cattoliche, politicamente aderiscano ai partiti repubblicani di centro, sebbene questi siano anticlericali e laicisti: il sentimento nazionale, organizzato intorno al concetto di patria, è altrettanto forte, e in certi casi è indubbiamente più forte, del sentimento religioso-cattolico, che del resto ha caratteristiche proprie” (13, 37: 1645).
[6] “in alcuni paesi” prosegue Gramsci, “«pareva» si fossero costituiti regimi democratici, ma essi si erano costituiti solo formalmente, senza lotta, senza sanzione costituzionale e fu facile disgregarli senza lotta, o quasi, perché privi di sussidi giuridico-morali e militari, ripristinando la legge scritta o dando della legge scritta interpretazioni reazionarie” (13, 37: 1637).
[7] “Data la miseria generale del paese e la disoccupazione cronica di questi strati, le possibilità economiche che i partiti offrivano erano tutt’altro che disprezzabili” (14, 10: 1664).
[8] Giolitti, osserva a tal proposito acutamente Gramsci, “mutò «partenaire», al blocco urbano sostituì (o meglio contrappose per impedirne il completo sfacelo) il «patto Gentiloni», cioè, in definitiva, un blocco tra l’industria settentrionale e i rurali della campagna «organica e normale» (le forze elettorali cattoliche coincidevano con quelle socialiste geograficamente: erano diffuse cioè nel Nord e nel Centro) con estensione degli effetti anche nel Sud, almeno nella misura immediatamente sufficiente per «rettificare» utilmente le conseguenze dell’allargamento della massa elettorale. (…) L’allargamento del suffragio nel 1913 aveva già suscitato i primi accenni di quel fenomeno che avrà la massima espressione nel 19-20-21 in conseguenza dell’esperienza politico-organizzativa acquistata dalle masse contadine in guerra, cioè la rottura relativa del blocco rurale meridionale e il distacco dei contadini, guidati da una parte degli intellettuali (ufficiali in guerra), dai grandi proprietari” (19, 26: 2039-41).
[9] Allo stesso modo il plebiscito sancisce il ristrutturarsi della classe fondamentale “nel campo politico-militare intorno a una personalità «cesarista»” o è prodotto di “una situazione di emergenza nazionale” (13, 37: 1648).