“Non privare mai un uomo dell’amore e della speranza. Quest’uomo cammina, ma in realtà è morto” (Luca Coscioni).
Ci sono argomenti, che si riferiscono a situazioni estreme di vita, tali che solo a pensarli inducono a riflessioni così profonde che poi è anche difficile uscirne con un pensiero risolto “in tasca”. A parlarne poi il rischio d’infilarsi in personalismi, in filosofismi socratiani o panegirici di sorta è altissimo. Pensare alla morte, parlare di morte induce a riflettere sul lato più oscuro dell’esistenza. Desiderare la morte è il pensiero più complesso di un vivente. Nessuno che desideri vivere può capirlo, così da immedesimarsi in quel soggetto che vede la vita come l’ostacolo più insormontabile. Ci vuole amore infinito per comprendere quella sofferenza devastante. Ci vuole coraggio per non riportarlo indietro, per fermare la voglia di morire. Ma poi sarebbe giusto arrogarsi il diritto di decidere per una persona che soffre a tal punto? Quant’è bella la vita. Sì, ma bisogna poterla vivere.
Da un letto di un paraplegico, cieco e intubato forse la prospettiva non è la stessa. Anzi è drammatica E sarebbe il caso di spegnere le macchine, di lasciarlo andare, se lui lo desidera. Ma non si può. C’è la lex a impedirlo. O peggio, non c’è la lex a consentirlo. In Italia l’iter legislativo per il trattamento di fine vita è fermo da otto anni. Intanto chi non ne può più di vivere in quella gabbia buia in cui si è trasformata la sua vita potrebbe decidere di finire la sua vita in un altro Paese, e in pochi minuti tornare libero dalle sofferenze. Il diritto di morire può anche essere pensato come ossimoro. Il diritto che nascendo rivendichiamo, in effetti, è quello di vivere. Bisognerebbe non nascere per non avere a che fare con la contraddizione che spesso lacera chi vuole vivere degnamente e non può o altrettanto morire.
L’interrogativo su vita o morte sorge dal valore che ogni individuo dà alla propria esistenza. Valore messo in discussione soprattutto dalle sofferenze che una malattia irreversibile procura, tanto da sminuire la dignità della vita stessa. Così ragionando, il diritto di morte non esiste, non è valido. Non è un diritto se non si collega alla fine della dignità dell’esistenza. C’è un altro diritto che supera quello della morte, quello di non soffrire, dilaniati da atroci sofferenze, quando anche la scienza alza le mani e la terapia è solo un inutile accanimento. In tal caso il diritto di porre fine alle torture provocate da una malattia irreversibile è un diritto umano incontestabile. Non c’è Stato, non c’è legge che tenga, perché il diritto alla vita libera e soddisfacente nei bisogni primari non può essere più esaudito. Nessuno può più esaudirlo. E in tal caso nessuno può invadere quel legittimo desiderio della persona che decide di liberarsi da uno strazio infinito.
Il pensiero corre a Lucio Magri, fondatore de il Manifesto, e al suo ultimo viaggio nella clinica svizzera della buona morte. Organizzato da lui stesso quel viaggio. Solo e determinato nel suo intento di farla finita. Non ha creato clamore, se non post mortem. Non ha coinvolto i media. Era solo, lui e la sua determinazione. Qui non poteva farla finita, perché non ha voluto che si trovasse il suo sangue sul selciato o che qualcuno raccogliesse i suoi resti. Vivere era una tortura dovuta a una depressione che gli aveva reso tutto insostenibile.
Soffriva di una depressione incurabile causata dalla morte della moglie Mara, ma anche dal fallimento politico del partito comunista di cui era un esponente. Tentò di riempire il buio in cui era scivolato con la stesura di un libro “Il sarto di Ulm”, la ricostruzione della storia del partito e le possibili svolte che avrebbero evitato le biforcazioni. Soffriva del male più oscuro, quello mentale che lo distaccava dalla realtà. Un tormento insopportabile e costante che lo indusse a prendere la decisione estrema. Verosimile che abbia pensato, nel prendere la decisione del suicidio assistito “se non posso volare alto meglio tarparsi le ali. Il mio corpo non serve più se la mente non c’è per combattere contro il male di vivere”.
Importante è anche ricordare il caso di Eluana e Peppino Englaro. Decise lui di porre fine alla vita della figlia, staccando i sondini dell’alimentazione. Terapia ormai palliativa e fittizia. Perché quella vita non era più dignitosa e non era più vita. Un atto d’amore e di coraggio infinito che trovò la condanna della chiesa. Quel sistema che rinnega il diritto delle persone di essere sovrane sul proprio corpo e trova nella sofferenza una perfida soddisfazione. La perversione qui è estrema e inspiegabile, poiché viene ricondotta a quel mistero di una fede che permette le peggiori iniquità. Basterebbe sbirciare nella storia delle comunità religiose per capire le contraddizioni fra fede e umanità.
Anche a Piergiorgio Welby, ammalato irreversibilmente di distrofia muscolare, toccò di essere esautorato dal diritto di porre fine all’accanimento terapeutico sul proprio corpo. Visse attaccato ad un respiratore dal 1997 al 2006, chiedendo più volte di staccarlo. Divenne un caso giuridico, di cui si nutrirono i media per molti anni, basato sul rifiuto da parte del malato dell’accanimento terapeutico riconosciuto dall’articolo 32 della Costituzione e sul diritto di autodeterminazione dell’individuo riconosciuto dall’articolo 13.
Gli interrogativi su cui si dibatte da sempre sono sulla proprietà del corpo che, a prescindere dalla morbosità religiosa, ha anche un aspetto sociale. Il corpo è quell’unicum su cui la persona ha la piena sovranità o è anche patrimonio dell’umanità tutta, di cui nascendo, per specie, si fa parte e pertanto non si è liberi totalmente di decidere della propria esistenza, poiché, sottraendo un tassello, si danneggia un sistema sociale? Vale, a proposito, citare John Stuart Mill, non certo per il suo pensiero liberale, ma per il suo “Saggio sulla libertà”, in cui l’autore conferma l’idea di quanto la persona sia sovrana su se stessa. “La regione propria della libertà umana è quella parte di vita che riguarda soltanto lui. Ed è la sfera della coscienza interiore ed esige la libertà di coscienza e di pensiero, di opinione, di espressione e di associazione. Ciascuno è l’unico autentico guardiano della propria salute, sia fisica, sia mentale che spirituale”.
Infine, più che la filosofia o la religione o il contratto sociale, è la bioetica a rispondere sulla proprietà del corpo. In particolare, nella drammatica situazione della scelta di un malato in fase terminale di porre fine alla propria vita. Un tempo era il medico che in “scienza e coscienza”, aderendo deontologicamente al giuramento di Ippocrate, stabiliva il piano terapeutico fino ad mortem.Oggi il rapporto medico paziente è scientemente informativo, sì da lasciare al malato il diritto di respingere le terapie “salva vita”. Avviene tramite il consenso informato, un documento che deve essere approvato e sottoscritto dal paziente o da chi ne è il tutor legale. Non c’è quindi l’obbligo di curarsi se non per i Tso (trattamenti sanitari obbligatori), quando il paziente rappresenti un pericolo per la società. La bioetica, nel suo principale fondamento laico, recita che ogni cittadino ha il diritto di realizzare la propria volontà sulla sua esistenza, in base ai principi di “autodeterminazione e autonomia individuale”.
In questa ottica le pratiche dell’eutanasiae del suicidio assistito, assumono l’aspetto di decisioni inconfutabili. Nessun legislatore, nessun altro principio di carattere religioso o laico o sociologico si dovrebbero opporre al diritto di un malato terminale di porre fine alla propria esistenza. E dovrebbe poterlo fare assistito, nel suo domicilio, nel suo Stato, senza che alcuno debba pagarne le conseguenze davanti a una legge che infine non tutela il cittadino. Non solo nel non riconoscergli i diritti per un’esistenza degna, ma privandolo anche del diritto di uscire di scena, in quanto la vita gli è diventata insopportabile. È al clamore della cronaca di questi giorni e di tutti i media il caso del Dj Fabo, il giovane musicista che ha posto fine alla sua vita, in Svizzera. Ha messo in atto la sua volontà ingerendo autonomamente la sostanza letale, in una casa gestita ad hoc dalla “Dignitas”, un’associazione per il suicidio assistito. Non era triste Fabo, se n’è andato sorridendo. Qualcuno tornando in Italia pagherà legalmente per questo. Qui non solo non è permesso vivere dignitosamente, ma neanche morire in egual modo.
Le leggi che in Italia non ci sono. Testamento biologico e eutanasia
La legge sul testamento biologico è ferma al 2010. È al tramonto del governo Berlusconi che venne approvata alla Camera la Dat (dichiarazione anticipata di trattamento). Una legge vergognosa tanto si mostra limitante nelle scelte e nella volontà del malato. Vieta eutanasia, suicidio assistito e si lascia al medico la facoltà di scegliere la terapia, con la sola opzione del consenso informato. È legge monca, perché al Senato non è mai passata. Inoltre il vuoto legislativo si deve alla mancata adesione dell’Italia alla convenzione di Oviedo, il primo trattato internazionale sulla bioetica.
L’associazione Luca Coscioni, dopo la morte di Welby interviene e si apre la querelle: “La legge è un base di partenza, ma è ambigua”. In effetti non viene citata la “sedazione continua profonda”, pratica che permette di passare alla morte senza soffrire. Inoltre attribuisce ai medici “il diritto per determinare a quali cure il malato non può accedere”. Elimina totalmente la volontà del paziente, disconoscendo l’autodeterminazione del malato e la sua volontà.
In Italia le quattro proposte di legge sul fine vita, il cui iter è iniziato un anno fa, sono ferme, in attesa di essere rielaborate dalle Commissioni giustizia della Camera dei deputati. Si basano su tre articoli della Costituzione. L’articolo 2 “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”.L’articolo 13“La libertà personale è inviolabile…”, l’articolo 32 “...Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento, se non per disposizione di legge…”. Stop alla legge su eutanasia e suicidio assistito. Restano in vigore l’articolo 579 del codice penale che recita che “chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni” e l’articolo 580: “chiunque determina altri al suicidio o rafforza l'altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l'esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima”.
Intanto dall’Italia si continua ad andare a morire in Svizzera, dove è già in moto il mercato della morte e può accadere che non si applichino le norme previste dal codice sanitario nazionale, per verificare l’irreversibilità della malattia allo stadio terminale.
Responsabilità di uno Stato limbo che “fabbrica” il mercato della disoccupazione, togliendo diritti alla dignità della vita, e, nel caso di sofferenze irreversibili e cure palliative, decide anche quando si deve morire.